Rivista di cultura filosofica
2019
Home
Monografie
Culture Desk
Ateliers
Chi siamo
Info
|
Il rapporto mente-cervello in psicologia clinica
Riduzionismo e valorizzazione della complessità*
di Marco Nicastro:
20 maggio 2019
Negli ultimi anni sempre più spesso sentiamo parlare di neuroscienze, termine con cui si indicano quelle discipline con ambizioni di scientificità forte tipica di ambiti come la fisica, la chimica, la biologia ecc. che studiano la struttura e l’attività biochimica del cervello e i loro nessi con il funzionamento mentale.
Come avviene infatti nelle discipline scientifiche, che considerano imprescindibili aspetti quali l’osservabilità dell’oggetto di studio, la definizione operativa delle variabili delle proprie ipotesi teoriche, la loro quantificazione e misurazione, la verifica sperimentale delle ipotesi e la riproducibilità degli esiti legati a queste, le neuroscienze cercano di stabilire nessi di causalità tra il funzionamento della mente e il cervello. Esse si rifanno cioè ad un paradigma positivista che si affida al tradizionale metodo sperimentale e alla possibilità di osservare materialmente le variabili oggetto di studio.
In ciò sono state indubbiamente sostenute dal progresso della tecnologia avvenuto negli ultimi decenni, che ha portato alla costruzione di strumenti di indagine del funzionamento cerebrale molto avanzati. Questi strumenti hanno alimentato nei tecnici e nell’opinione pubblica l’aspettativa di poter osservare effettivamente cosa accade nel cervello durante determinate attività mentali e poter poi stabilire più chiaramente un collegamento tra questi due aspetti, provando a fissare principi più generali di spiegazione dei fenomeni psichici a partire proprio dalla loro base organica.
Dal canto suo la psicologia, disciplina che tradizionalmente si occupa della mente, specie nel suo versante clinico ha sempre incontrato notevoli difficoltà epistemologiche a dare solidità scientifica e sostanza empirica alle proprie ipotesi teoriche, ai costrutti e alle variabili in gioco nei fenomeni intrapsichici e relazionali ad essa inerenti (specie nel caso della psicoterapia) [1]; peculiarità epistemologiche che si riverberarono nella nota distinzione tra scienze naturali e scienze umane che rischiava però di relegare la disciplina psicologica nell’ambito della metafisica [2] proprio per la menzionata difficoltà a dare evidenza empirica ai propri costrutti.
In effetti ci sono sempre state notevoli difficoltà a descrivere in modo semplice e condivisibile le diverse variabili in gioco nei processi psichici, a quantificarle e misurarle, e a verificare le ipotesi teoriche secondo una metodica sperimentale senza rischiare di sacrificare al contempo ciò che più contraddistingue il funzionamento mentale degli individui, ossia la sua complessità e specificità, il senso della soggettività e i significati soggettivi elaborati dai singoli individui, la variabile della storia personale di ogni soggetto.
Le difficoltà incontrate in tal senso hanno indotto alcuni orientamenti teorici a cercare di ridurre la complessità dei dati da osservare inerenti al mentale, in modo da avere a che fare con fenomeni più facilmente studiabili attraverso procedure sperimentali. È stato questo, ad esempio, il tentativo del comportamentismo, che ha provato a seguire l’ideale positivistico di inserimento del proprio sapere all’interno del discorso scientifico abbandonando costrutti complessi inerenti alla soggettività, al prettamente mentale, e occupandosi solo di fenomeni più facilmente osservabili e misurabili come appunto possono essere le manifestazioni comportamentali evidenti degli individui. Questa scelta comportava inevitabilmente la riduzione dell’esperienza umana solo ad alcuni suoi aspetti quelli più facilmente riconducibili a delle quantità tralasciandone di decisivi. Era cioè operata, attraverso l’esclusione del mentale, una semplificazione della soggettività ritenuta tuttavia da alcuni inaccettabile [3].
Quindi, quanto più la psicologia si è scontrata nel tempo con le difficoltà di definizione, osservazione, misurazione e generalizzazione delle proprie ipotesi teoriche, tanto più forte è diventato il tentativo di semplificare la complessità del suo oggetto di studio e di radicarsi in discipline come la neurobiologia che mostravano certamente meno problemi metodologici, poiché il loro oggetto di studio, il cervello, che costituiva il substrato materiale dei processi mentali, era più facilmente osservabile grazie appunto ai crescenti progressi tecnologici e alle sempre più sofisticate tecniche di brainimaging.
La fiducia nelle possibilità offerte da queste nuove tecniche ha esaltato molti studiosi, inducendoli a pensare di aver trovato finalmente la via per trovare riscontri empirici alle teorie psicologiche e alle pratiche terapeutiche; così il prefisso neuro ha finito per diffondersi notevolmente e anteporsi a diversi sostantivi di ambito più propriamente psicologico. Da tempo, ad esempio, sentiamo parlare di neuropsicologia cognitiva (unione appunto di ipotesi cognitiviste con la neuroanatomia) o anche di neuropsicoanalisi (ma gli esempi potrebbero continuare), tanto da far parlare alcuni studiosi di una vera e propria neuro-mania [4].
Chi scrive parte dal presupposto che la psicologia clinica abbia bisogno di uno statuto epistemologico non riduzionista, se vuole occuparsi adeguatamente della complessità della mente. Mentre un paradigma riduzionista che si affida alla definizione operativa delle variabili oggetto di studio, alla loro quantificazione, alla verifica controllata di ipotesi circa i loro collegamenti può risultare adeguato per discipline che si occupano del cervello inteso come substrato materiale della psiche (la neurologia, la neurobiologia, ecc.) esso è invece inadeguato per quei settori della psicologia che vogliono occuparsi dell’esperienza intrapsichica e soggettiva degli individui valorizzandone la complessità, aspetto che non può essere quantificato e osservato oggettivamente secondo il metodo sperimentale [5]. Questo metodo infatti, implicando tra le altre cose l’indipendenza tra soggetto osservante, strumenti di osservazione e oggetto di studio, rischia di ridurre l’esperienza soggettiva a un’entità parcellizzata per poterla meglio quantificare, a non considerare l’impatto delle emozioni e le impressioni dei soggetti coinvolti nel processo di studio (compreso l’osservatore), a non considerare l’impatto delle emozioni o dei pregiudizi latenti del soggetto osservante, a preoccuparsi poco del carattere ecologico delle procedure (che rispecchi cioè le effettive condizioni di funzionamento della mente nella vita reale) solo per poter garantire il rispetto di certi parametri metodologici [6].
Il fascino insito nelle teorie che cercano di ricondurre la complessità dei fenomeni mentali al loro substrato organico consiste nella loro capacità di garantire una sensazione di controllo su fenomeni, quali quelli psichici, che per la loro natura immateriale si sottraggono ad una semplice gestione: basti pensare imprevedibilità di certi comportamenti o manifestazioni patologiche o alla molteplicità delle variabili che intervengono nelle interazioni terapeutiche. Invece, le spiegazioni che tirano in ballo i concetti neuro nelle discipline del mentale, spesso puntellate dal supporto di immagini delle strutture e del funzionamento di certe aree cerebrali, permettendo di materializzare entità astratte quali sono i processi psichici e tutto ciò che attiene alla soggettività individuale, danno l’illusione di poter osservare più fedelmente i fenomeni oggetto di studio e stabilire quindi con maggiore sicurezza un rapporto di causalità tra questi, nella direzione di una maggiore scientificità (una maggiore evidenza empirica).
Diciamo illudersi perché l’evidenza empirica di un’attivazione di aree cerebrali in corrispondenza di alcune attività e stati psichici può solo indicare, allo stato delle conoscenze attuali, una correlazione e non un rapporto di causalità che del resto, almeno ipoteticamente, potrebbe anche avvenire in senso opposto a quello solitamente descritto, cioè dalla mente al cervello. Inoltre, per quanto sofisticate siano oggi le tecniche di brainimaging, esse non ci permettono ancora di ottenere effettive fotografie dell’attività cerebrale in corso, poiché si tratta di immagini ricostruite a partire da complesse inferenze statistiche non sempre riconosciute valide dalla comunità scientifica di riferimento. Infine, non è ancora chiaro come legare alcuni correlati, ad esempio il maggiore flusso ematico cerebrale studiato tramite alcune di queste metodiche, agli specifici stati psichici del soggetto e ai sottostanti processi neurali [7].
In sostanza, allo stato attuale delle nostre conoscenze, non si può che sostenere solo una semplice correlazione tra attività cerebrali e manifestazioni psichiche, senza nessi di causalità nell’una o nell’altra direzione e certamente senza la possibilità di ridurre la complessità dei fenomeni psichici normali e patologici, rilevabili attraverso le osservazioni del terapeuta e i resoconti dei pazienti in un contesto clinico, alla semplice attivazione di alcune aree cerebrali evidenziate dalle tecniche di brainimaging. Senza considerare il fatto che, allo stato attuale delle nostre conoscenze, tale attivazione può solo essere inferita statisticamente dato che, per motivi etici, non si possono inserire degli elettrodi o altri tipi di sensori nel cervello degli esseri umani per comprendere con maggiore precisione i processi neuronali in gioco nel corso di certe attività mentali.
Mi sembra quindi che possano essere individuabili due direzioni da seguire nella teoria e nella clinica. La prima va verso un riduzionismo di matrice naturalista e materialista che, volendosi affidare a protocolli sperimentali intesi in senso tradizionale per cercare relazioni di causa-effetto, finisce per ridurre la complessità dell’esperienza soggettiva dell’individuo (il paziente ma anche il terapeuta) a pochi elementi facilmente osservabili e misurabili tramite tecniche e strumenti progettati ad hoc.
Basti pensare ad alcuni test che rilevano singoli tratti di personalità (descritti attraverso item piuttosto stringati), oppure ai criteri diagnostici proposti dai più noti manuali statistici dei disturbi psichiatrici, che dovrebbero delineare con precisione la configurazione psicologica di un individuo attraverso la ricorrenza di 4 o 5 di questi. Tale posizione, tipica della psichiatria organicista, delle neuroscienze e di alcuni settori della psicologia clinica (il comportamentismo, una parte del cognitivismo) compie un’operazione di semplificazione del proprio oggetto di studio la mente, la soggettività umana sottovalutando come detto alcuni fattori, come l’impatto che l’uso di certi strumenti di osservazione oggettiva possono avere sul soggetto osservato che quindi diventerebbe diverso dal soggetto che si voleva inizialmente osservare [8].
L’altra strada invece va nella direzione della valorizzazione di un metodo clinico-soggettivo delle complesse descrizioni che i soggetti fanno della propria esperienza mentale, della loro storia e delle specifiche influenze ambientali che hanno subito, tutti elementi che non sono riducibili a sintetiche descrizioni tipiche degli item di un questionario, ma che soprattutto appartengono per loro natura ad un ambito diverso da quello organico-materiale, dal cui funzionamento ovviamente dipendono ma a cui non sono mai interamente riconducibili.
Una strada, questa, che va nella direzione di riconoscere l’irriducibile complessità delle interpretazioni, percezioni, emozioni e vissuti dei soggetti coinvolti negli studi clinici e in psicoterapia e che, soprattutto, non possono essere facilmente generalizzabili ad altri individui. Se si tentasse di generalizzarli a soggetti con problemi analoghi ma anche con cultura, storia, valori, tratti di personalità e modalità di interazione col terapeuta differenti non si rispetterebbe la specificità del problema psicopatologico del singolo, il cui approfondimento invece costituisce proprio l’interesse principale del metodo clinico-soggettivo.
Ecco perché, ad esempio, parlare di neuropsicoanalisi (ma il discorso potrebbe riguardare anche altri orientamenti che mostrano questa tendenza) è epistemologicamente scorretto; perché tale operazione linguistica cerca di mettere assieme elementi di diversa natura organici, materiali e oggettivabili gli uni; astratti, mentali e soggettivi gli altri tra i quali è possibile stabilire al massimo un rapporto di correlazione. E soprattutto perché un metodo di studio che segua parametri di scientificità intesa in senso tradizionale, deve per forza sacrificare ciò che la psicoanalisi, assieme ad altri orientamenti come la fenomenologia e la psicologia umanistica, ha ritenuto invece un punto di forza: l’esplorazione intensiva della soggettività e l’approfondimento del contesto storico e relazionale del soggetto osservato.
Tutte le discipline psicologiche che, pur volendosi occupare della soggettività, compiono questa operazione, lo fanno probabilmente solo per motivi di incertezza epistemologica, tentando goffamente un’ultima carta di credibilità scientifica su un terreno che però è loro estraneo dinnanzi ai sempre più agguerriti e armati (di tecnologia) sostenitori di approcci materialisti e riduzionisti del mentale. Così facendo, queste discipline mostrano solo un forte desiderio di rimanere superficialmente al passo coi tempi di seguire lo spirito del tempo verrebbe da dire oltre che una certa confusione sulla specificità epistemologica che dovrebbe essere loro propria.
Ciò non significa che chi sostiene un metodo clinico-soggettivo sia costretto a rimanere nell’ambito di un discorso solipsistico, estraneo a qualsiasi possibilità di confronto con altri. Essere consapevoli delle caratteristiche del proprio oggetto di studio e delle questioni epistemologiche in ballo nella propria disciplina non implica sottovalutare i rischi e le storture che potrebbero derivare da un’enfatizzazione delle idee personali dei singoli studiosi.
Così, proprio per ridurre tali rischi, chi aderisce a questo orientamento potrà cercare di usare, per quanto possibile, un linguaggio chiaro riferibile agli aspetti più condivisibili dell’esperienza dei pazienti, evitando di ricorrere a termini troppo astratti o dal carattere ambiguo. Anzi, anche in quest’ambito, l’uso di un linguaggio poco chiaro o decisamente astruso da parte degli esponenti di un certo sapere potrebbe essere inteso proprio come un tentativo di difendersi da qualsiasi possibilità di confronto e di verifica delle proprie ipotesi conoscitive e di lavoro.
In secondo luogo, ci si dovrà mantenere fedeli ad uno spirito di verifica delle proprie ipotesi, anche se riferibili solo alle singole esperienze accumulate dal clinico nel suo lavoro individuale. Parliamo di un’attenzione minuziosa a quanto, nel processo di studio e di intervento sul mentale, possa eventualmente confutare le ipotesi esplicative ritenute valide dal clinico fino a quel momento. Così, se le confutazioni supereranno le occasioni di conferma di certe idee nel proprio setting di lavoro, se quanto di critico è emerso nelle esperienze di un operatore sarà poi riportato anche da altri colleghi in altri contesti clinici, si abbandoneranno quelle ipotesi o le si modificherà, senza timore di snaturare o sminuire la propria teoria di riferimento.
Una teoria infatti, anche nel campo complesso del mentale e indipendentemente dalla vastità e dell’importanza della tradizione di riferimento (penso ad esempio alla psicoanalisi), non può essere un’entità monolitica quanto piuttosto qualcosa di fluido, capace di evolversi continuamente sulla base di quanto emerge dai riscontri sul campo e dai pareri accumulatisi nel tempo e a diverse latitudini [9].
Questa disponibilità al cambiamento, a rimanere sempre aperti ad una modifica dei propri assunti di partenza, a creare quasi delle micro-teorie sulla base delle limitate ma ripetute evidenze che ogni clinico accumula nel corso della propria esperienza di lavoro con la soggettività irriducibile dei singoli pazienti, deve essere guidata anche da una fondamentale tensione etica che consideri di primaria importanza il cambiamento del paziente e il suo benessere, prima che il rispetto per una metodologia cosiddetta scientifica o per la coerenza con un corpus teorico sancito da una precedente tradizione.
Un modo di conoscere e di operare che non avrà l’ambizione di ritenersi asetticamente oggettivo dinnanzi a quell’ente così sfaccettato, imprevedibile e suscettibile di interferenze e tensioni emotive consce ed inconsce quale è l’essere umano (l’osservato ma anche colui che osserva), quanto piuttosto di essere fondato sulla valorizzazione della soggettività, con l’osservatore-clinico continuamente coinvolto in quella che sarà sempre contemporaneamente una ricerca di conoscenza e un intervento trasformativo su un altro essere umano.
Un metodo che quindi non avrà l’ambizione di trovare leggi generalizzabili del funzionamento mentale degli individui, secondo un’ottica più tradizionalmente scientifica, quanto piuttosto di suggerire ipotesi e possibilità di funzionamento secondo un’ottica probabilistica che nulla concede al riduzionismo e al fisicalismo tuttora operanti e apparentemente vincenti anche nel settore del mentale.
* Questo saggio è incluso in Marco Nicastro, La resistenza della scrittura. Letteratura, psicoanalisi, società, Ladolfi Editore, Roma 2019.
[1]. Da qui in avanti, parlando in modo problematico di variabili psichiche, mi riferirò a quelle in gioco nella psicopatologia e nel processo terapeutico. Non mi riferirò invece a quei processi più facilmente semplificabili, come la percezione, la memoria ecc. oggetto di studio della psicologia sperimentale e della neuropsicologia cognitiva, per i quali, a mio avviso, è probabilmente meno azzardato ipotizzare un legame più stretto con certi meccanismi e strutture cerebrali.
[2]. La psicologia, lo ricordiamo, fino alla metà dell’Ottocento costituiva una branca della filosofia deputata a occuparsi dell’anima e delle sue proprietà tramite il metodo introspettivo.
[3]. Il cognitivismo, pur tenendo presenti le acquisizioni teoriche e il rigore metodologico del comportamentismo, avrebbe in seguito cercato di compensare le tendenze riduzionistiche insite nella teoria comportamentista ridando un ruolo al mentale e usando un modello di tipo informatico – il modello computazionale dell’elaborazione delle informazioni (H.I.P.) – per conoscere il funzionamento della mente umana. Tale risposta tuttavia, soddisfacente se si studiavano secondo protocolli sperimentali singoli processi psichici come la memoria, l’attenzione ecc, non risultava sufficientemente adeguata a farsi carico di altri fenomeni psichici umani come le emozioni e la dimensione dei significati soggettivi, elementi che saranno valorizzati solo da alcune correnti più recenti del cognitivismo (post-razionaliste) e dal costruttivismo, oltre che, come già avveniva, da orientamenti piuttosto distanti dai precedenti quali quelli umanistico-fenomenologici e psicoanalitici.
[4]. Cfr. Paolo Legrenzi Paolo, Carlo Umiltà, Neuro-mania. Il cervello non spiega chi siamo, Il Mulino, Bologna, 2009. Si veda anche il dibattito suscitato da questo libro sul Giornale Italiano di Psicologia, n. 2, 2009, a cui si fa riferimento per alcuni dei punti qui trattati.
[5]. Si tratta di quelli che nell’ambito della filosofia del mentale si definiscono qualia, cioè aspetti dell’esperienza soggettiva (sensazioni, percezioni, ma anche intuizioni, ecc.) che non sono suscettibili di esatta descrizione e di osservazione scientifica se non attraverso l’imprescindibile contributo descrittivo del soggetto che li esperisce. Si tratta di esperienze soggettive non riducibili unicamente agli stimoli fisici che le causano o ai loro correlati neurali. Cfr. ad esempio Sandro Nannini, L’anima e il corpo. Un’introduzione storica alla filosofia della mente, Laterza, Roma-Bari, 2002.
[6]. Il metodo sperimentale esige la definizione operativa e quantificabile delle variabili studiate, la possibilità di osservarle direttamente o con strumenti di osservazioni oggettivi e condivisibili, la possibilità di tenerle separate e controllarne la reciproca interazione in modo da stabilire leggi causali generalizzabili, un setting di studio libero da interferenze non controllabili che potrebbero inficiare le ipotesi esplicative sull’interazione tra le variabili, la riproducibilità delle procedure. Si tratta di condizioni che è spesso impossibile garantire, solo per fare un esempio, in un setting clinico reale tra paziente e terapeuta.
[7]. Per tali questioni, si veda: Marco Castiglioni, Antonella Corradini, Modelli epistemologici in psicologia, Carocci, Roma 2011 (in particolare pp. 184-198).
[8]. Si pensi alla possibile alterazione dell’attività psichica del soggetto studiato in un setting di 6#147laboratorio, o alle reazioni del paziente, in un setting clinico, a seguito della somministrazione di test di personalità a risposta multipla e/o di complessi e invadenti macchinari di neuroimaging. Tali semplificazioni, se sono accettabili per alcune di queste discipline come la neuropsicologia, che si propone di studiare e intervenire su singole funzioni psichiche, o la psicologia comportamentista, che vuole osservare uno specifico comportamento o sintomo del paziente e le sue relazioni con specifici stimoli, non lo sono per altre discipline che si propongono obiettivi più ambiziosi in termini di cambiamento della personalità del paziente, come la psicoterapia cognitivista, quella costruttivista o quella psicoanalitica.
[9]. In ambito scientifico, ma soprattutto in ambito non scientifico in senso stretto come è quello qui considerato, in assenza di una verità consolidata su una certa questione è bene accontentarsi di una verità parziale, sempre suscettibile di revisione, derivante da un accordo tra esperti del settore. Cfr. Thomas Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino, 1999.
|
|
|
|