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Rito e dolore.
Una possibilità ritmica delle forme di vita
A partire da due saggi di Byung-Chul Han*
di Andrea Ponso

30 maggio 2021


Il dolore e il rito sembrano essere i due elementi che la nostra società cerca in molti modi di mettere a tacere, naturalmente con varie strategie, non sempre di tipo apertamente censorio ma, come vedremo, anche attraverso una loro accettazione di tipo “palliativo” o legata all’eccesso della loro spettacolarizzazione.
Una delle cose che accomuna rito e dolore è il loro basarsi su di un insieme di significanti resistenti ad ogni presa concettuale, ad ogni mera riduzione a significato. È quindi chiaro che, in una società in cui la massmedialità e l’eccesso di comunicazione sembrano essere la regola, dolore e rito, se rettamente intesi e soprattutto vissuti come reale esperienza, non possono che essere di ostacolo — e spesso proprio laddove ci si aspetterebbe il contrario, vale a dire in ambito religioso e medico-scientifico. Viviamo in una comunicazione pervasiva — capace di penetrare e modificare gli stessi meccanismi neuronali e, quindi, di modificare anche a livello fisiologico l’esistenza dell’uomo ad essa esposto — che però sembra distruggere ogni possibilità di una comunità rettamente intesa, vale a dire come relazione di singolarità, che tali rimangono, pur partecipando ad una partizione di voci comunitarie.
Il rito e il dolore, come cercheremo di mostrare, propongono invece il paradosso liberante di una comunità senza comunicazione, vale a dire di una comunità che non si basa principalmente sui significati, sui concetti e sui “messaggi” mediati dal solo linguaggio logico-razionale. Potremmo dire che dolore e rito cercano piuttosto un ritmo, non nel senso di una monotona regolarità, ma come organizzazione dinamica di intensità singolari — qualcosa di molto vicino a quello che intendono, ad esempio, Meschonnic o il Lévi-Strauss meno strutturalista dei suoi continuatori: un ritmo, insomma, capace di variazione, che si costituisce non a partire dall’alternanza ma dalle permutazioni e dagli scambi dinamici di un sistema mai fissato una volta per tutte, vivente e non sottomesso al playback dell’esistenza come rappresentazione o alla velocità uniformante e devastante dell’informazione globalizzata.
È in questo senso che possiamo palare di simbolico: non come rimando ad altro, ma come tensione dinamica che tiene insieme gli opposti e tutto ciò che sembra non conciliabile, a partire proprio dagli estremi di vita e morte. A questo riguardo, dovremmo fare comunque molta attenzione, poiché, in un modo diverso, anche la comunicazione dei media sembra procedere nello stesso modo, valorizzando in profondità un tipo di scambio legata agli stimoli non razionalizzabili, a quella tempesta emotiva senza soluzione di continuità, producendo una sorta di contiuum di indistinzione il cui valore è però dato dalla fluidità del “capitale” comunicativo orientato al suo stesso consumo praticamente infinito — al quale si collega, quasi paradossalmente, il fantasma di un superamento della finitezza legato all’infinito accumulo di capitale economico e spettacolare:
Il capitale viene accumulato contro la morte. In quanto patrimonio, viene immaginato in termini di sopravvivenza. Malgrado la limitatezza dell’esistenza, il tempo del capitale viene accumulato. Questa pandemia ha inflitto uno shock al capitalismo, ma non l’ha superato. Da essa non emana una narrazione contraria al capitalismo. Non avverrà una rivoluzione virale. La produzione capitalistica non viene decelerata, bensì trattenuta a forza. Imperversa uno stato di sospensione nervosa. La quarantena non conduce all’ozio, bensì all’inoperosità forzata. Non è un luogo dell’indugio. Dinanzi alla pandemia non si dà soltanto la precedenza alla salute rispetto all’economia. L’intera economia della crescita e della prestazione è orientata alla sopravvivenza.
Ci troviamo insomma immersi non tanto nel simbolico propriamente detto, ma nella sua rappresentazione, mentre il rito non è mai rappresentazione poiché non è possibile esserne spettatori passivi: esso è fondamentalmente immersivo, come è dimostrato dai due principali sacramenti cristiani, il battesimo (l’uomo immerso in Cristo) e la comunione (Cristo immerso nell’uomo). Ma, anche in questo caso, il tema dell’immersività pone problema: siamo cioè allo stesso modo immersi nella corrente d’indistinzione massmediale, seppure in una modalità del tutto passiva, più o meno nascosta dall’ideale fantasmatico del neoliberismo, in cui si postula la capacità di discernimento dell’uomo nei confronti delle sue scelte e dei suoi desideri. È per questo che sembra essenziale una declinazione del rito/ritmo come interruzione, come attrito e “dolore”, e come tentativo di trovare un accordo non già omologato, proprio come accade, ad esempio, nell’improvvisazione jazzistica.

Del resto, vivere il rito attraverso la modalità passiva e non partecipativa e incarnata dello “spettatore” favorisce forme di psicologismo e di devozionismo interiorizzato che, nella maggior parte dei casi, non creano condivisione e comunità ma, casomai, il rinforzo di una “produzione di anima” che poco ha a che vedere con il farsi della comunità e del corpo comunitario rituale.
Se ci pensiamo bene, è questa anche la modalità principale di esperire lo “spettacolo” del dolore, la sua mediatizzazione pervasiva, con conseguenze per lo più deleterie: aumento della solitudine e della distanza, scomparsa del corpo ridotto a mero stimolo per eccesso di esposizione in immagine che diventa, di fatto, proprio per un meccanismo di difesa biologica, anestetizzazione da un lato, e aumento dell’ansia e della paura dall’altro.
La serialità delle rappresentazioni del dolore e della morte diventano materiali di consumo, scomposta e aritmica esposizione del negativo come rappresentazione solamente subita e immobilizzante: contare i morti non è fare i conti con la morte, non è trovare il ritmo della finitezza e del dolore per poterlo trasformare in musica. Mentre, a differenza di tale serialità mediatica e statistico/statuale, il rito si pone come ripetizione incarnata e condivisa, che apre all’indugio, alla finitezza come origine di una possibile trascendenza, ad una forma diversa di distacco come relazione rispettosa dell’alterità e del mistero, diventando persino gioco e apertura di un tempo altro nel cuore stesso dell’Uguale.
Senza tale esperienza di un dolore realmente incarnato, così come quella di un atto rituale concreto, la stessa esistenza perde il suo valore singolare e irripetibile, scivolando verso un terrore del dolore e della morte come nonsenso mai veramente provato e vissuto, come effettiva indistinzione tra morte e vita:
La società dominata dall’isteria della sopravvivenza è una società di non morti. Siamo troppo vivi per morire e troppo morti per vivere. Nella preoccupazione esclusivamente rivolta alla sopravvivenza noi siamo uguali al virus, questa creatura non morta che si limita a moltiplicarsi, quindi a sopravvivere, senza vivere.
ed è proprio a causa di questa situazione che l’uomo sembra essere disposto a rinunciare a molte delle sue legittime libertà e a sottostare a protocolli immunitari che, di fatto, promettendo la sicurezza e la permanenza della mera esistenza biologica come sopravvivenza medicalizzata, possono cancellare ogni forma di vita.

Di fronte ad una esistenza tarata sulla serialità, sul numero della statistica, sul consumo e sulla volatilità delle “emozioni”, rito e dolore si propongono come durata dinamica, indugio e attenzione, gioco. Al posto di una vita che si allunga riducendosi a mera esistenza biologica, favorevole al suo indefinito “consumo” e auto-produzione come auto-sfruttamento da prestazione, sottoposta all’eccesso di positività della comunicazione, una società che Han vede come quella del dolore cronicizzato — “il dolore viene sparso in ogni dove in forma diluita. L’odierna epidemia dei dolori cronici [...] Proprio nella società palliativa avversa al dolore si moltiplicano i dolori silenti, confinati ai margini, che persistono nella loro assenza di senso, di linguaggio e d’immagini” — il rito e il dolore aprono al rischio della singolarità mai del tutto riducibile alla sua rappresentazione, vale a dire alla sua ri-presentazione idolatrica come impazienza di fronte alla mancanza, all’infinito come non-finito in continua co-creazione e conaissance, a quel vuoto che può diventare residuo ma anche resto positivo e surplus dei possibili al di là di ogni logica economica del dare/avere.
Ed è uno dei modi per sfuggire alla solitudine immunitaria, e quindi non comunitaria, di un narcisismo minore — a metà, mai spinto fino in fondo, cioè oltre lo specchio dell’immagine rappresentata — che non può fare altro che collassare su se stesso in mancanza di una sponda realmente altra. La stessa dinamica sembra valere anche all’interno dell’estetizzazione della vita e, quindi, anche nell’ambito della produzione estetica.
Le somatizzazioni, tensioni che si scatenano nel silenzio del corpo come proteste sopite e incapaci di organizzarsi ritmicamente e ritualmente, ma insistenti e potenzialmente distruttive, come grido d’aiuto che vada oltre il legame sociale basato sulla mera interazione e iterazione dei pacchetti di significato che ci vengono proposti come farmaci calmanti e/o omeopatici, assumono oggi caratteri inquietanti e allo stesso tempo familiari: basti pensare all’aumento esponenziale dei comportamenti auto-lesionisti. Scrive a tale proposito Han:
Il comportamento auto-aggressivo vede oggi un rapido incremento [...] Rimandano alla società dominata dal narcisismo in cui ciascuno si sobbarca sé stesso fino all’insostenibile. I tagli rappresentano un vano tentativo di buttar via questo carico di ego, di toglierselo di dosso e di sfuggire a tensioni interne distruttive. Queste nuove immagini del dolore sono il rovescio sanguinante dei selfie.
Ma sono anche, nello stesso tempo, la ricaduta nello stesso narcisismo da esposizione, nonché un richiamo, un grido d’aiuto verso l’altro che non vorremmo e vorremmo al nostro fianco per con-dividere, per dare atto alla castrazione simbolica, unico modo di relazione non completamente narcisistica. Ma sono anche, nello stesso tempo, la ricaduta nello stesso narcisismo da esposizione, nonché un richiamo, un grido d’aiuto verso l’altro che non vorremmo e vorremmo al nostro fianco per con-dividere, per dare atto alla castrazione simbolica, unico modo di relazione non completamente narcisistica:
Forse i dolori cronici, come quelle ferite da taglio autoinflitte, sono il corpo che grida in cerca di attenzioni e vicinanza, in cerca d’amore — un indizio eloquente del fatto che oggi i contatti si verificano di rado. Ci manca in tutta evidenza la mano guaritrice dell’Altro. Nessun analgesico può sostituire quella scena primordiale della guarigione.
Anche perché il narcisismo corrente è anch’esso un narcisismo a metà, se così si può dire, che non intende mai realmente andare fino in fondo, trasformandosi esso stesso in difesa superficiale e immunitaria, incapace di infrangere davvero l’immagine speculare riflessa, vale a dire quella veicolata dalle correnti rappresentazioni sociali. Si tratta di un nodo ancora più intricato e profondo, proprio perché è coperto superficialmente dal sintomo che, come sappiamo, dal punto di vista psicoanalitico, non è propriamente, come nella medicina, il segno di una malattia ma il tentativo di auto-curarla a livello più o meno inconscio, evitando proprio l’invadenza dell’Altro.
Secondo Weizsäcker, ci dice Han, il dolore è “il divenire carne di una verità”, tanto che sono anche le separazioni e i tagli che fanno male a dirci la verità e la realtà della relazione — mentre “la società palliativa è una società senza verità, un inferno dell’Uguale”:
Senza dolore non abbiamo né amato né vissuto. La vita viene sacrificata in nome della sopravvivenza confortevole. [...] La coesistenza meramente funzionale, senza vita, non porta ad alcun dolore anche quando decade. È il dolore a distinguere la coesistenza viva dalla prossimità morta.
Proprio in questo senso, allora,
il dolore è vincolo. Chi rifiuta qualsiasi circostanza dolorosa è incapace di vincolarsi. Oggi vengono evitati i vincoli intensi, che potrebbero far male. Ogni cosa avviene in una zona d’agio palliativa. [...] L’Altro come dolore scompare. Il dolore è differenza. Esso articola la vita. [...] Il dolore marca i confini e sottolinea le differenze. Senza il dolore, sia il corpo sia il mondo affonderebbero in una indifferenza. Senza dolore è impossibile apprezzare il mondo sulla base di differenziazioni. Il mondo senza dolore è un inferno dell’Uguale in cui imperversa l’indifferenza che fa scomparire l’incomparabile. [...] Noi percepiamo la realtà soprattutto a partire dalla resistenza, che provoca dolore. L’anestesia permanente nella società palliativa derealizza il mondo. Anche la digitalizzazione riduce sempre più la resistenza e fa gradualmente sparire l’interlocutore recalcitrante, ciò che è contro, il controcorpo. Il protrarsi del like conduce a un’insensibilità, allo smantellamento della realtà. La digitalizzazione è anestesia.
Tale vincolo, che non può che essere anche doloroso, poiché incontra davvero l’alterità dell’altro provocando un trauma reale che, di conseguenza non può che produrre un cambiamento nell’assetto identitario personale, è qualcosa che dovrebbe appartenere intimamente anche al rito come in-contro con l’irriducibilità dell’Evento.
Abbandonare la catena della produzione, anche di divertimento, e delle rappresentazioni implica quindi una certa fatica, un attrito, un dolore — soprattutto per noi oggi, assuefatti a tali meccanismi più che in passato proprio perché non ci vengono imposti ma posti come l’unica modalità di esistenza accettabile e accettata.
È allo stesso modo che si entra ritualmente nella festa — qualcosa, quindi, di molto diverso dalla mera distrazione di massa o dal “divertimento” del “tempo libero” e, per molti aspetti, opposto alla coazione produttiva non solo del lavoro e delle merci ma anche, e forse soprattutto, alla inesausta produzione del proprio io narcisistico. Per questo è così difficile oggi entrare veramente nella dimensione festiva, per questo è spesso depressivo e spaesante: non siamo più abituati a vivere l’intensità della vita, ad indugiare in essa senza le proiezioni del costruire e del comunicare funzionale e produttivo. È un dolore, appunto, che va affrontato ritualmente anch’esso, senza metterlo a tacere mediante la fuga del pieno del “passatempo” — perché il rito e la festa sono i luoghi in cui il tempo, miracolosamente, “non passa” ma indugia, si svuota di direzioni e ci ridona l’attenzione come preghiera al presente in atto e alla sua vuota sorgività. Come giustamente sostiene Han, si tratta di un atto anche politico:
Alla luce della crescente coazione a produrre e a performare, fare un uso diverso, giocoso, della vita diventa un compito politico. [...] Bisogna riconquistare il riposo contemplativo. Se si sottrae del tutto alla vita il suo elemento di quiete, si soffoca nel proprio agire.
L’esempio che ci viene proposto è particolarmente calzante, anche per chi vive una qualche dimensione liturgica legata alla fede. Si tratta della differenza tra tempio e museo: il primo è il luogo comunitario dell’indugio, del taglio, del silenzio di una comunità senza comunicazione meramente funzionale e legata ai soli significati, che vive dinamicamente il mistero in maniera immersiva e relazionale; mentre il secondo è forse l’immagine paradossale del nostro tempo:
così il tempio si differenzia dal museo: né i visitatori del museo né i turisti formano infatti una comunità — sono invece masse, moltitudini. Anche i luoghi vengono profanati riducendosi ad attrazioni turistiche. Aver visto è la formula consumistica del relegare, le manca la profonda attenzione. [...] Si passa davanti alle attrazioni. Non consentono alcun indugio, alcun soggiorno.
Si tratta, come sostiene Han, della capacità di “chiudere”, di cedere ad un insieme di forme simboliche la preminenza di una interiorità soggettiva e narcisistica che esplode nella sua prestazione eccessiva e solitaria fino al collasso, nella non relazione. Questa apparente chiusura è quindi anche un’apertura, appunto un taglio, come si diceva, poiché è proprio grazie ad essa che un legame sociale e relazionale può diventare effettivo e incarnato. Ma c’è di più: tale chiusura non può non richiamare una trascendenza, non per forza di tipo religioso; non è un caso che, nella lingua ebraica, uno dei Nomi divini sia proprio “il Luogo”: esso è certamente uno spazio vuoto, ma che diventa tale solo quando è percepito come potenzialità di una presenza, come il farsi presente di un’assenza di fronte alla singolarità non meramente soggettiva o psicologica dell’uomo. La capacità di cum-claudere è quindi in se stessa apertura alla possibilità di una effettiva comunità dell’essere-con. In caso contrario,
senza la negatività della chiusura si giunge a un’addizione e a un accumulo infinito dell’Eguale, a un eccesso di positività, a una proliferazione adiposa dell’informazione e della comunicazione. Negli spazi dotati di infinite possibilità di accesso, la conclusione diventa impossibile. Lo smantellamento delle forme di chiusura nel nome della sovrapproduzione e del sovraconsumo provoca un infarto del sistema.
Si tratta quindi, con il rito, di una possibilità diversa, non meramente addittiva e parificante, di avere esperienza dell’esistenza nelle sue diverse forme (quindi taglio e chiusura) di vita. Per questo motivo il Luogo, anche nel senso del Nome divino ebraico, è uno spazio/tempo ben definito all’interno del quale, però, come nel roveto ardente, brucia qualcosa che non si consuma, che non è mero consumo. Si tratta di soglie, come nei riti
Sono, le soglie, passaggi temporalmente intensi, che oggi vengono abbattuti a favore di una comunicazione e di una produzione accelerate, prive di fratture. In tal modo ci impoveriamo di spazio e di tempo: nel tentativo di produrre più spazio e più tempo, finiamo per perderli. Essi perdono il linguaggio e ammutoliscono. Le soglie parlano. Le soglie trasformano. Oltre la soglie c’è l’Altro, l’Estraneo. Senza la fantasia della soglia [...] esiste solo l’inferno dell’Eguale. Il globale viene eretto mediante un inesorabile smantellamento delle soglie e dei passaggi. [...] Oggi i passaggi temporalmente intensi si disintegrano divenendo transiti rapidi, link continui e clic senza fine.
del resto, non possiamo dimenticare che ogni iniziazione è una morte simbolico-rituale, capacità di chiudere, di tagliare, di fare silenzio — per entrare in una dimensione altra, in cui ogni sicurezza viene messa in crisi proprio dalle “sicure” e precise regole rituali. Si tratta di un taglio alla comunicazione e al flusso di pensieri e immagini codificate, quelle stesse immagini che oggi ci immergono incessantemente, per poter passare da una condizione di totale dipendenza infantile alla responsabilità e al munus dell’essere in comune come adulti.

La comunità rituale, insomma, cerca letteralmente di fare corpo, di contro all’evanescenza della psicologizzazione e della falsa “spiritualizzazione” dualistica che ritroviamo nella digitalizzazione e nel virtuale, oltre che nelle forme devozionali della religione. Come sostiene Han, il rischio è sotto agli occhi di tutti o, meglio, è sottocutaneo, sintomatico e somatico:
Gli analgesici, prescritti in massa, coprono le circostanze sociali che conducono al dolore. L’assoluta medicalizzazione e farmacologizzazione del dolore impediscono che esso si faccia linguaggio, anzi critica. [...] Mediante un’anestesia indotta per via medicamentosa o mediale, la società si rende immune alla critica. [...] L’anestesia permanente della società impedisce la scoperta e la riflessione, opprime la verità [...] Il fermento della rivoluzione è però il dolore percepito insieme. Il dispositivo neoliberista della felicità lo soffoca sul nascere. La società palliativa spoliticizza il dolore medicalizzandolo e privatizzandolo.
Proprio per ridurre questa spoliticizzazione analgestica del dolore e dell’esperienza ritmico/rituale, in questo fare corpo non può non avere luogo anche il dolore e la morte, ma come simbolicamente tenuti insieme, in uno ritmo capace di scongiurare una vita annacquata e priva di contorni e di forme di vita — una forma che è sempre al plurale e che dà conto delle forme di vita possibili, senza mai ridursi alla loro immagine idolatrica e ipostatizzata.

*Tutte le citazioni testuali sono tratte da Byung-Chul Han, “La scomparsa dei riti. Una topologia del presente”, Nottetempo, 2021; e “La società del dolore. Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite”, Einaudi, 2020.

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