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Breve nota sul tempo
di Marco Nicastro

1 luglio 2016


Cos’è il tempo? L’altra notte ho provato, tra frangenti d’insonnia, a darmene una spiegazione.

Mi è venuto subito da dire: è la scansione costante di secondi, minuti e ore che segna e costituisce le nostre giornate. Ma cosa sono i secondi, i minuti e le ore se non tempo? Bisognerebbe definirli prima, per capire meglio il tempo! Definire il tempo infatti come insieme di parti di tempo più piccole che lo costituiscono è tautologico, per non parlare poi del fatto che gli stessi secondi possono a loro volta essere scomposti in frazioni di secondo (decimi, centesimi, millesimi di secondo ecc). Bisogna forse provare per altre vie, mi dico.

Ho aperto alcuni noti vocabolari: il tempo è definito come «l’intuizione e la rappresentazione della modalità secondo la quale i singoli eventi si susseguono e sono in rapporto l’uno con l’altro (per cui essi avvengono prima, dopo, o durante altri eventi), vista volta a volta come fattore che trascina ineluttabilmente l’evoluzione delle cose o come scansione ciclica e periodica dell’eternità»; oppure come «Il continuo fluire di istanti successivi che fa da sfondo all’evolversi di cose e persone e al succedersi di eventi umani e materiali»; o ancora come «Successione illimitata e misurabile di istanti; riferimento temporale necessario per la sua misurazione». Anche queste spiegazioni però non mi soddisfano, anche loro si rifanno a concetti ricollegabili al tempo, che è invece proprio quello che voglio oggi primariamente capire.

Ho pensato che il tempo sia una convenzione ricollegabile alla scansione costante degli eventi che l’uomo osservava fuori di sé fin dagli inizi della civiltà — primi tra tutti i ritmi della natura — in particolare il sorgere e il calare del sole. In seguito l’uomo ha stabilito un modo per conteggiare l’intervallo tra un’alba e l’altra, e credo che avrebbe potuto scegliere in fin dei conti un giorno diviso in 16 segmenti, piuttosto che in 24. Perché ne abbia scelti 24, in realtà 12 ripetuti due volte, non mi è chiaro (so solo che il 12 è uno di quei numeri che si ripete spesso nella storia dell’uomo).

Sento che in questo discorso potrei andare avanti a lungo, invecchiarci o perdermi. Sento anche che il tempo è una costante che aiuta l’uomo ad orientarsi in vita su questa terra, proprio a partire dai ritmi dei fenomeni di questa che non dipendono da lui, che c’erano prima che lui arrivasse.

L’uomo ha preso intuitivamente atto di ritmi universali che poi empiricamente e infine scientificamente ha cercato di comprendere e definire, in qualche modo di farli propri. Probabilmente, mi dico, il valore non sta nelle singole parti che compongono il cosiddetto tempo, che possono essere considerate convenzionali, quanto nel fatto che la loro scansione sia sostanzialmente regolare, costante e quantificabile. Una volta stabilito ciò, esso viene dato per assodato e finisce per costituire la cornice entro la quale si colloca ogni momento dell’esistenza umana e dinnanzi alla quale questa trova il suo specifico ritmo e la sua collocazione.

Inoltre il tempo è sinonimo di passaggio, di transizione (le albe e i tramonti, le stagioni si succedono), ed evoca inevitabilmente l’idea del nostro passaggio su questa terra, della morte quindi. Forse quando l’uomo ha compreso il senso del tempo, interiormente, ho preso coscienza della morte di ogni cosa, oppure è vero il contrario (ma possono essere vere entrambe le cose).

In effetti anche i ritmi corporei degli esseri viventi tendono ad essere regolari, scandiscono il proprio succedersi tra un’alba e l’altra, formano una costante in base a cui regolarsi. Il tempo regolare esterno si riflette in un tempo regolare interno, elementi questi che organizzano la vita degli esseri viventi e li rassicurano (in particolare quell’essere vivente dotato di autocoscienza che è l’uomo, che il tempo può rassicurare ma può anche angosciare se associato all’idea della morte). Proprio come accade coi ritmi fisiologici e comportamentali regolari della madre durante la gravidanza e dopo, che danno senso all’attività psichica del nascituro imprimendosi in lui e formando la base inconscia del suo essere, a cui egli potrà sempre fare riferimento, dinnanzi ai riferimenti della realtà esterna con cui in seguito si confronterà, oppure quando dei riferimenti esterni mancheranno del tutto (ad esempio in condizione di profonda solitudine e deprivazione sensoriale).

Ho accennato alla funzione materna, ma forse il tempo potrebbe essere inteso simbolicamente anche come un Grande Padre con cui ogni uomo deve confrontarsi per sottomettervisi, contrapporvisi o liberarsene, per averne un rapporto conflittuale. Un elemento che sovrasta l’uomo e lo ingloba (nella mitologia Crono uccideva i suoi figli divorandoli) costituendo l’inevitabile e invalicabile limite del suo essere, con cui confrontarsi per tutta la vita.

Il tempo è quindi un’entità psichica e fisica, dentro e fuori dell’uomo, una cornice in cui tutto acquisisce ritmo e senso, in cui ogni uomo trova continuamente la propria posizione (un tempo esterno a cui sottomettersi), ma che deve anche inconsciamente essere posseduta dall’uomo e ri-conosciuta come propria (un tempo interno che regola e che può confliggere col tempo esterno) pena il rischio di perdersi in una condizione di atemporalità, di mancata continuità del senso di sé che impedirebbe di relazionarsi con gli aspetti fisici del mondo.

Il tempo è un’entità regolare. L’uomo ha bisogno di regolarità, l’irregolarità ha senso solo in rapporto alla regolarità. Così l’uomo può trovare il suo tempo (il suo ritmo) solo a partire da un tempo che già esiste dentro di lui (lascito inconscio del suo venire al mondo) ma anche dialogando-confrontandosi con un tempo fuori di lui e che non dipende affatto da lui.

L’uomo per poter vivere ha bisogno del tempo dentro e fuori di lui, anche se, a volte o spesso, può dolorosamente perdere il contatto col primo o scontrarsi con l’inevitabilità del secondo. Nel primo caso rischia un’adesione mimetica e angosciata al riferimento temporale esterno, che finisce per “dettare legge” e dirigere le iniziative individuali (una sorta di tempo superegoico, di tempo dei nevrotici). Nel secondo il rischio è di una atemporalità disorientante, che si nutre solo di spinte idiosincratiche perdendo di vista la realtà esterna (un vuoto di tempo, un tempo “psicotico”). E tuttavia credo che il tempo esterno, il tempo “reale” abbia una preminenza, e senza la sua funzione ordinatrice e senza il confronto con la sua scansione lo psichismo dell’uomo si perderebbe in sé stesso, si confonderebbe in un’anarchia solipsistica. Ulteriore segno, forse, del fatto che l’individualità nasce dal confronto con un altro da sé che rimane sempre un termine di confronto importante, anche se conflittuale, nell’evoluzione del soggetto.

Questa conclusione (parziale, lo so) mi ha convinto maggiormente rispetto alle definizioni convenzionali; la mente si è placata e io ho ripreso fortunatamente a dormire.


Pierantonio Tanzola, La custodia nell'invisibile (fotografia non fissata)

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