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Archeologia del Postmoderno 1. Paralogia come pragmatica del figurale
di Giuseppe Crivella
2 maggio 2014
Che cos’è il Postmoderno? Nella bruciante immediatezza della domanda forse è già possibile intravvedere possibilità di risposta che ancora oggi aspettano d’essere vagliate a dovere. Nel corso di questo breve scritto noi ci soffermeremo unicamente su alcune proposte avanzate da Lyotard nel suo studio del ’79, muovendo dunque dall’idea, ancora oggi assolutamente valida a nostro giudizio, che il Postmoderno vada pensato innanzitutto come di un’ipotesi di lavoro, [1] tutta da impostare dunque nei suoi termini problematici e nei suoi protocolli di fungibilità esplicativa.
Ma che vuol dire riproporre oggi, a quasi trentacinque anni di distanza dalla pubblicazione di quel testo, l’assunto per cui il Postmoderno è un’ipotesi di lavoro? Significa innanzitutto sottolineare un aspetto essenziale della delineazione che ne dette all’epoca Lyotard, la quale conserva intatta la sua pregnanza concettuale: il Postmoderno non deve assolutamente essere adibito a definiens non lo era nel ’79 e non lo è mai diventato, per quanto da più parti il termine sia stato usato ora come sigla logora di un periodo, ora come l’etichetta di un determinato processo socio-economico, ora come il momento crepuscolare di una fase storica del pensiero o di altro ancora – essendo questo piuttosto un inesauribile definiendum.
Con ciò vogliamo sostenere che, sia al momento della sua nascita più o meno ufficiale, sia a seconda delle ridefinizioni che ha avuto nel tempo, il Postmoderno si è sempre venuto strutturando come uno spazio di rinvii molteplici e contraddittori, in forza dei quali risulta ormai difficile sapere che cosa esso designi. Dagli anni ’70 in poi non v’è stato in effetti un termine (o un concetto) che abbia subito maggiori oscillazioni semantiche e più drastiche demonizzazioni non ultima quella ferrarisiana o esaltazioni. Preso atto di ciò non resta che una sola operazione: risalire ad una delle sue prime occorrenze e vedere come in essa il Postmoderno venga declinato, così da poterne fare oggi una stima che tenga conto della storia degli effetti che suddetta occorrenza ha avuto. Se pertanto ritorniamo a Lyotard e ci addentriamo nel suo breve saggio scopriamo che il rigoglioso dibattito da esso aperto è venuto ad articolarsi, a nostro giudizio, intorno ad una macroscopica lacuna: nelle battute finali della Condition Postmoderne l’autore accenna all’esistenza di due nozioni chiave per intendere il Postmoderno, che però la critica successiva ha completamente cassato dal suo campo di interesse e di indagine: Paralogia e Eteromorfia. [2]
Va precisato tuttavia che lo stesso Lyotard non si sofferma affatto sulle suddette nozioni, ed anzi, dopo averle appena evocate, si avvia a concludere il suo intervento senza chiarirne assolutamente in modo dettagliato i connotati. [3] Eppure tale elusività esplicativa di Lyotard non è così grave come può sembrare. Per quanto riguarda la paralogia infatti crediamo che un buon saggio d’essa l’autore l’avesse dato in un suo testo del ’71, rielaborazione della sua dissertazione di dottorato discussa poco tempo prima con Mikel Dufrenne; tale testo è Discours, Figure. Ma anche per quanto attiene alla eteromorfia, va segnalato un fatto non secondario: allorché Lyotard si riferisce ad essa, lo fa chiamando in causa i lavori a lui coevi di René Thom e Benoît Mandelbrot. Ciò lascia intendere che il teorico del Postmoderno sapesse perfettamente quali fossero le coordinate operative dei due concetti in questione.
Tentare una archeologia del Postmoderno significa quindi approntare un minuzioso lavoro di scavo in seno al testo lyotardiano focalizzando con finissimo acume ciò che in esso rimane latente, non detto o solo accennato. Riservando la disamina dell’eteromorfia al paragrafo successivo, dedicheremo questo breve scritto alla sola paralogia, osservandola secondo una prospettiva specifica che, lyotardianamente, faremo coincidere con quella che in un altro nostro lavoro, dedicato all’opera del ’71, abbiamo denominato pragmatica del figurale.
Rimandando a quel nostro testo [4] per quanto riguarda le questioni di inquadramento generale, inizieremo qui la lettura di Discours. Figure chiedendoci che cosa sia il figurale: esso innanzitutto è una matrice che nessun segno significa e nessuna immagine è in grado di mostrare, ma che tuttavia tutti segni e tutte le immagini tradiscono e indirettamente esibiscono come gli estremi echi di una pulsazione persistente e inudibile che affiora tra le maglie dei linguaggi ed emerge nello spessore del sensibile, trasformando significazione e designazione nella propria “opera morta”:
tentando di caratterizzare questo spazio, o almeno i suoi effetti […], non si vuole solo disgiungerlo dall’ordine della significazione o dalla profondità della designazione [ma anche sottolineare che esso] non si trova nell’ordine della conoscenza, ma si riscontra nel suo disordine, […] come ciò che non è al suo posto, essenzialmente hors-lieu. [5]
Il figurale è quel terzo spazio totalmente altro rispetto a quelli di struttura e discorso, terzo spazio che va ad occupare un’anteriorità mobile e nebulosa in confronto ad essi, fantasmatico e differenziale, che scompagina sovverte confonde i rispettivi processi di produzione di senso. Nella dispersione tra la struttura e il soggetto, il figurale inizia già a connotarsi come quell’ipotetico spazio curvo di effrazione e disorientamento ai margini del quale affiora il non-luogo del senso. Dimensione verticale ed epifanica del pensiero rivoltato “criticamente” su se stesso per sorprendersi nel punto cieco del proprio aurorale manifestarsi, ciò che occupa il centro delle indagini di DF sfugge probabilmente ad ogni definizione classica, ritagliando il suo campo e il suo raggio d’azione in una zona interstiziale di difficilissimo accesso e impervia reperibilità. Esso si prospetta dunque sia come un cuneo infitto nelle pratiche consuete e quotidiane di designazione e significazione per farne saltare l’inerte, piatta sistematicità, sia come un varco sempre più ampio che forza e dissalda le linee di sutura lungo le quali corrono i principi d’organizzazione e assestamento d’ogni processo semiotico. Scomposizione e perturbamento, incurvamento e disseminazione, forse dopo un secolare esilio, diventano adesso le nuove traiettorie di ricerca, seguendo le quali DF svolge la propria opera di ricognizione e definizione di ciò che è stata chiamata «catastrofe semantica dei linguaggi dell’arte» [6] e del linguaggio in generale.
Il figurale pertanto è ciò che consente a Lyotard di portare un affondo critico decisivo nei confronti di un discorso sui modi in cui i linguaggi specifici dell’arte mettono in forma il mondo dando al reale delle fisionomie precise. Ma ciò che interessa a Lyotard è proprio mettere in discussione queste forme andando ad analizzare dei testi, delle opere in cui i processi di produzione semantica funzionano in controtendenza alle consuetudini di significazione. Nel corso di Discours, Figure l’autore individua tre livelli, tre strati, tre gradi crescenti di azione del figurale. Seguendo da presso le sue considerazioni, noi qui esporremo queste tre dimensioni operative, proponendo per ognuna una coppia di immagini in cui mostrare i processi di dispiegamento di quella che abbiamo scelto di chiamare pragmatica del figurale.
Il primo livello è rappresentato dalla figura-immagine: in essa a subire violenza sono le regole di (buona) formazione delle cose percepite (come appunto accade nell’anamorfosi). Il percepito è soggetto a pratiche altamente decostruttive, la sua fisionomia definita diventa le scena cava di una serie di trasgressioni che la deturpano rendendola simile a una concrezione nello spazio sempre più incerto delle rappresentazione. L’immagine dunque smarrisce ogni misura comune col designatum, per svilupparsi e sviluppare al proprio interno una teoria folle di posizioni neutre e autorefenziali, come una finestra muta che non lasci trapelare nulla se non la propria endogena capacità (e necessità) di rapprendersi sempre più in se stessa per perpetuarsi in una geografia del dissimile che non conosce requie o limite. La nuova nozione di immagine «essicca le cose riducendole a un catalogo asettico di eventi astratti o designificanti la loro profonda motivazione». [7] Evento opaco che azzera ogni aspirazione referenziale per scavare al proprio interno un volatile golfo d’ombra ove inscenare le ellittiche vicende di una fenomenologia senza fenomeno, la figura-immagine non rappresenta (ri-presenta) più allora la presenza dell’oggetto ma narra e svolge una lunga trama di emergenze e movenze epifaniche cospiranti l’una verso l’altra, in continua deiscenza.
Come esempio di questo primo livello prenderemo un Cuore di Cristo di anonimo tedesco databile tra il 1460 e il 1475.
Siamo di fronte ad un corpo ripiegato sul proprio organo centrale, un cuore ipertrofico attraversato da una lancia smisurata; in questa incisione il Cristo abita la propria messa a morte e, al tempo Stesso, sembra riattraversare le fasi salienti della sua esistenza: utero, cuore, corpo, piaga, cielo della Resurrezione e del trionfo finale sulla morte, tutte queste equivalenze figurali si trovano condensate nella grande immagine centrale che fluttua a mezz’altezza nell’incisione. Segni di nascita e concepimento sono convertibili e “traslitterabili” all’infinito in emblemi di martirio e morte, figure di sofferenza e figure di gloria. Tutto in essa è retto da un gioco di paradossi topologici come ad esempio la forma della piaga centrale, simultaneamente convesso come un cuore bombato ma concavo come un utero cavo ma pieno della presenza di Cristo. Qui la corporeità è intesa come un campo di tensioni controverse: da un parte vi è qualcosa che occupa questo campo tensivo tramite uno strano corpo-piaga, dall’altra esso assurge a luogo morfogenetico in cui il corpo(-piaga) viene a formarsi. Come osserva Didi-Huberman:
Voici en effet une image qui nous montre le Christ comme enveloppé et comme enveloppe tout à la fois, comme organe déchiré et comme origine matricielle de sa propre déchirure. Voici une image qui se déploie comme le tressage de trois échelles au moins les trois échelles contradictoires d’un espace externe du sacrifice (le Golgotha, la croix érigée), d’un gros plan corporel (les mains et les pieds stigmatisés) et destinal (giron où tout se forme, cœur transpercé où tout se meurt). [8]
L’anonimo autore dell’incisione, per ottenere tale condensazione esegetica, mette in campo un montaggio stupefacente ricorrendo a un sistema raffinatissimo di bordures organiques [9] in seno alle quali qualcosa di indefinibile si sviluppa al loro interno occupandone però lo spazio esterno, una sorta di bordo complesso che circonda la figura di Cristo rendendolo una zona limitrofa lungo la quale il cuore diventa cielo, ovvero la più fonda interiorità di uno spessore organico e la maggior lontananza dell’al di là si saldano in una assurda sinonimia figurale che sembra da ultimo sfidare le più semplici leggi dello stesso spazio naturale.
Da uno spazio fisico trasformato in esploso di una proiezione mentale che non trova rispondenza alcuna nel mando naturale passiamo ora invece ad uno spazio psichico strutturato tutto secondo una contorsione immaginaria scandita da tortuosi avvolgimenti del parametro scopico. Si tratta di due fotogrammi desunti da due cortometraggi sperimentali di Man Ray: [10]
Qui è lo spazio stesso in cui la visione si delinea ad essere sottoposto ad una sorta di puntiforme sismologia figurale. Contro ogni tradizione fenomenologica, la percezione non interviene per unificare, raccogliere, compattare, aggregare. Essa disperde e dilania. Disperde e dilania innanzitutto il campo di ricettività in cui lo sguardo dovrebbe disporre o quantomeno deporre il portato del percepire.
Man Ray sembra mettere in pratica qui un’intuizione che qualche anno più tardi Benjamin avrebbe sviluppato nella sua Piccola storia della fotografia: la macchina fotografica è l’equivalente impersonale di un occhio scorporato da ogni coerente apparato fisico; ciò le permette una libertà di movimento inaudita, una dispersione entropica di sguardi inassimilabili da un solo soggetto, non centralizzabili in un unico fuoco percettivo. Man Ray però va decisamente oltre: egli non ci mostra soltanto questo nuovo Weltbild, ma sceglie di mettere davanti a noi il dispositivo ottico stesso deputato a inquadrare questo mondo di polimorfa instabilità. Ci troviamo infatti di fronte ad un kantismo inverso: se nella prima critica l’intuizione, tramite le procedure specifiche dell’intelletto e in ottemperanza alle leggi della ragione, perveniva a cogliere in sintesi il compositum reale secondo i tre criteri di inerenza, conseguenza e composizione, qui invece assistiamo ad un deliberato smembramento intensivo del polo percettologico: l’asse della visione è soggetto a una sorta di fissione nucleare, il quale deforma il compositum reale in un pulviscolo di rifrazioni mancate, incapaci di riassorbirsi in unità. Se pertanto la figura-immagine dello smontaggio cristico rappresentava il disgregarsi del corpo in una serie di condensazioni e spostamenti aberranti, qui è la stessa intenzionalità husserliana ad essere definitivamente liquidata.
Arriviamo così alla seconda istanza decostruttiva, la cosiddetta Figura-Forma: essa è la nervatura inavvertita del visibile, tenace dorsale di sostegno che percorre e struttura la configurazione ad un livello più profondo rispetto alla figura-immagine. Questo secondo livello intrattiene con lo spazio d’esposizione una fortissima relazione di verticalità: si estende sotto di esso ma difficilmente coincide con quanto appare in esso. Di ardua reperibilità pertanto, è possibile individuare la figura-forma nel momento in cui l’asse del senso non riesce più a seguire una direzione univoca e omogenea, per farsi piuttosto plurale ed equivoca, sviluppata trasversalmente lungo atmosfere di segni e tracciati che evadono da qualsiasi fissità espressiva o stereotipia formale. La sintassi della vertigine lega e contesta, scardina e accoppia grafico e plastico secondo le figure di contorsioni (e contusioni) geometriche che s’aprono e si chiudono contemporaneamente su se stesse, con i due spazi sempre prossimi a rovinare, a smottare, l’uno nelle faglie dell’altro, e al tempo stesso perfettamente programmati per invadere e coprire l’uno le zone di rarefazione dell’altro, rinsanguando reciprocamente gli strati di senso. Nel momento in cui il figurale dà luogo alle sue aggroviglianti fluttuazioni, figura-immagine e figura-forma prendono naturalmente a influire e defluire l’una sull’altra: la seconda, seppur posta “dietro le quinte” dell’immagine, fa ruotare il proscenio della rappresentazione diventando superficiale ma voluminoso schermo plastico ove s’assiepano tutti i vorticosi e innumerevoli slittamenti della sensibilità, mentre l’immagine inizia a sfibrarsi in un precipitato filamentoso gravitante ad altezze diverse:
le figure che vi si producono non sono affatto ordinate dalle regole della connaturalità, dalle direzioni dello spazio percettivo, dalla costituzione in profondità che costituisce le cose reali. [Col figurale] abbiamo il dovere di dedurre che si è usciti dall’ordine del linguaggio ma anche quello di supporre che non si è più nella distanza referenziale o mondana, non si è più legati ai vincoli della designazione né a quelli della lingua. Si ha senza dubbio a che fare con una rappresentazione, ma le regole dello spazio scenico non sono più quelle dello spazio sensibile. [11]
Se prima eravamo partiti da un corpo per giungere ad un paesaggio psichico in destrutturazione, ora seguiamo il percorso inverso e, muovendo da un paesaggio naturale in rovina, cercheremo di risalire verso un’immagine di corpo che non ammette alcun rimando mimetico nei confronti del dato reale. Osserviamo per un attimo l’incisione qui sotto: si tratta di un’opera di Hercules Seghers dal titolo Paesaggio di rocce e cordami (1630 circa) che un grande storico dell’arte, Carl Einstein, così descriveva:
Una rivolta isolata e ristretta contro tutto ciò che ha nome olandese. Seghers ha pagato con la vita un simile atteggiamento. Nella sua opera, la continuità organica dell’arte olandese si immobilizza in una sorta di orrore grave e pietrificato; oppure fluisce in una fuga di piani che trafiggono l’occhio affaticato con parallele senza corpo né meta: l’estensione, altrove equivalente a una conquista, a una speranza, è qui solo una fuga spaventata. In generale, la vista sbatte su rocce compatte, su cataste di prigioni. Questa concentrazione tradisce una disperazione paralizzante come un crampo: una sorta di agorafobia caratterizza queste incisioni. Vi si trova un disprezzo doloroso, un disgusto di ogni socievolezza, un’Olanda a rovescio […]. Il luogo comune natura morta acquista qui il suo nudo significato: natura guasta, natura pietrificata, natura estinta […]. Ogni pietra, ogni foglia è isolata, asociale, scomposta, rinchiusa in se stessa […]. In questi paesaggi di un barocco sminuzzato i piani sono ridotti in briciole. Lava, fango, alberi come stracci e frane di ciottoli. Un deserto solcato da piste come tracciate da meteore, un inferno irrespirabile e immoto, senza uomini né animali. Qualsiasi essere vivente sarebbe qui un paradosso […]. Sentieri sconnessi conducono all’interno ma solo per venire subito ricacciati indietro […]. Questa tecnica è la tecnica dello zero: una dialettica delle forme nel segno della morte, un reciproco sterminio delle parti. Totalità non vuol dire qui che uno aumenta l’altro, ma che uno estirpa l’altro. [12]
La totalità dunque come allucinato luogo di distruzioni, di crolli subitanei e inappariscenti che lasciano dietro di loro paesaggi da cataclismi nucleari. Il gusto fiammingo per il dettaglio preciso, prezioso, elegante scompare in una polverizzazione disperata delle cose le cui tracce non sono che reliquie informi del loro vacuo trapassare; la cura per gli interni ritratti nella loro delicata, raccolta, sospesa intimità, tipica della pittura olandese, non trova più ragion d’essere: siamo immessi in una scenografia spettralmente prossima ad un dramma di Strindberg in cui l’accesso ad un interno può coincidere tanto in una caduta dentro recessi orribili e soffocanti da cui è impossibile sortire, quanto in una improvvisa irruzione in una desertica dimensione di disumana durezza. Smottamenti, putrefazioni, deperimenti e effrazioni organiche espandono il loro potere di consunzione anche sugli scheletri delle architetture rimaste in piedi, una astratta frenesia di naufragio e collasso percorre come un brivido inarrestabile la terra e il cielo, gli alberi e il suolo, l’aria e gli oggetti conflagranti in una tenue marcescenza intemporale e sfinita. Traumaticamente la fine di tutte le cose segna il momento originario in cui le forme cedono di fronte alle forze ignote che covavano senza sosta e senza sbocchi possibili a loro interno, cariandone l’ossatura, attentando oscuramente alla loro definita fisionomia, lacerandone indomitamente le membrane interne al fine di farne emergere l’osceno verso.
Spostandoci lungo una direttrice storica percorsa sprunghaft per dirla à la Benjamin come secondo esempio di Figura-Forma abbiamo optato per una tela di Bernard Réquichot, artista schivo e pressoché invisibile, ampiamente studiato però da Roland Barthes. L’opera in questione è uno sorta di autoritratto organico:
Che cosa vediamo in essa? Probabilmente nessuno meglio di Lacan ha involontariamente [13] formulato una spiegazione migliore di questa immagine:
Il y a là une horrible decouverte, celle de la chair qu’on ne voit jamais, le fond des choses, l’envers de la face, du visage, les secretats par excellence, la chair dont tout sort, au plus profond meme du mystere, la chair en tant qu’elle est souffrante, qu’elle est informe, que sa forme par soi-meme est quelque chose qui provoque l’angoisse. Vision d’angoisse, identification d’angoisse, derniere revelation du tu es ceci Tu es ceci, qui est le plus loin de toi, ceci qui est le plus informe. [14]
Per la prima volta cioè Réquichot mostra un corpo attraverso una turbinosa e melmosa autoscopia intestina grazie alla quale quello stesso corpo
n’est plus rien qu’une liquefaction degoutante, une chose qui n’a de nom dans aucune langue, l’apparition nue, pure et simple, brutale, de cette figure impossible a regarder en face qui est en arriere-plan de toutes les imaginations de la destinee humaine, qui est au dela de toute qualification, et pour laquelle le mot de charogne est tout a fait insuffisant, la retombee totale de cette espece de boursouflure qu’est la vie la bulle s’effondre et se dissout dans le liquide purulent inanime. [15]
Ma i disorientamenti percettologico/conoscitivi messo in campo dal figurale non sono finiti. Dobbiamo ancora prendere in esame la terza dimensione analizzata da Lyotard, la Figura-Matrice: Rizomatica e incontornabile, intenta a propagarsi attraverso inattingibili sganciamenti in profondità del proprio tracciato, che si manifesta in proiezioni superficiali d’ombre fratturate nel momento stesso del loro dileguare, essa rivela il suo controverso status di origine ineffabile nell’istante del proprio sottrarsi a ogni tentativo di reperimento o definizione, individuazione o inquadramento. Lyotard sceglie di situarla simultaneamente come il radicamento abissale delle altre due figure (da cui promanano e in cui si insabbiano) e come un territorio aperto di vertigine e disseminazione che circoscrive immagine e forma allorché sembra iscriversi in seno ad esse per ridisegnarne le asimmetrie.
Se la figura-immagine riflette creando (e creandosi) e crea riflettendo (riflettendosi), se la figura-forma dilaga in una messe convulsa di prospezioni diffusive e metamorfiche, la figura-matrice annuncia e segnala la propria intermittente presenza in una sospensione indefinita di tutte le sue figure, sempre prossime a decadere in una sorta di paradossale stratigrafia archeologica ignara d’ogni coordinata temporale ed estranea ad tutte le possibili sistemazioni spaziali. Insituabile perché infinatamente sepolto nel punto estremo d’ogni rappresentazione, quest’ultimo livello addensa e fa coesistere tutte le istanze contraddittorie: l’ordine e la sproporzione, la forma e la forza, la tensione e la conciliazione, emancipando così il discorso dal soggetto che enuncia e la figura dall’oggetto che designa. La matrice esautora designazione e significazione, inaugura le dinamiche desultorie del figurale in una proliferazione anarchica che fa dell’irriconoscibile (méconnaissable) il nuovo vertice da cui far partire e a cui commisurare tutte le virtualità immaginarie di inedite configurazioni.
Naturalmente la figura-matrice non è il figurale. Ugualmente non lo sono né la figura-immagine né la figura-forma. Esso dimora in tutte e tre, preleva dai suddetti livelli tutti i caratteri destabilizzanti che farà esplodere nello spazio plastico e in quello grafico, ma nessuno di essi è capace di assorbirlo con una congruenza piena. Tuttavia delle tre l’ultima è forse quella che lo rispecchia con più fedeltà, con maggiore pregnanza, illustrando così quanto in esso si stringano in una solidale intercambiabilità il suo punto di più acuta intrusione nelle béances dei due spazi e il momento di più intensa ablazione del proprio sottrarsi:
vorrei dimostrare che la matrice non è un linguaggio, né una struttura di lingua, né un albero di discorso. Fra tutti gli ordini di figura è il più lontano dalla comunicabilità, il più appartato. Raccoglie l’incomunicabile, genera forme e immagini, e soltanto di queste forme e immagini, che sono i suoi prodotti, il discorso può mettersi a parlare, anche se non sempre è in grado di riconoscerli. La matrice allora è almeno figura? Non è una figura di per sé riconoscibile, non possiamo nemmeno stabilirne un ordine regolatore quale sua forma stabile. In quanto figura, la rappresentazione fantasmatica non si iscrive né come semplice profilo o ombra identificabile proiettata sullo schermo immaginario, né come indicazione scenografica imperativa sulla scena immaginaria. [16]
La elusività radicale della figura-matrice sfida le possibilità stesse di darne una definizione, di portare esempi del suo modo di intervenire in una raffigurazione. Essa si rivela tramite i suoi effetti a distanza, ma è quasi impossibile portarla ad emersione. Noi tuttavia abbiamo cercato degli esempi che potessero evidenziarne la presenza in determinate opere. Ma per fare ciò abbiamo per un attimo abbandonato le arti figurative per dedicarci alla letteratura. È infatti in due testi, tra di loro lontanissimi, nel tempo che, a nostro giudizio, la figura-matrice per due volta ha fatto la sua plateale e segreta comparsa. Prendiamo il notissimo Chef-d’œuvre inconnu (1831) di Balzac: in esso si narra lo scacco di Frenhofer, artista nietzscheanamente unzeitgemass, nella cui catastrofica opera sembrano prospettarsi tutte le felici traversie che la figura dovrà affrontare nel Novecento.
Il breve racconto filosofico di Balzac ha una particolarità: mostra la stessa opera da due punti di vista simultanei e divergenti: da una parte l’autore della tela, in preda ad una trance creativa, vede nel caos di linee e simboli esattamente la figura della donna che intendeva ritrarre, dal momento che egli non ha imitato la superficie del visibile, ma ne ha riprodotto piuttosto nella fattura stessa dell’opera i processi e le strutture, le dinamiche profonde e le energie costruttive. Dall’altro lato c’è la prospettiva di Porbus e Poussin, i quali non riescono a scorgere sulla tela nient’altro che una rapsodica dispersione di cromie infrante da una deflagrazione viscerale di contorni incapaci di sopportare la pressione interna della materia. Ecco come Frenhofer parla del suo capolavoro:
Eh! bien, le voilà [...]! — Ah! ah! s’écria-t-il, vous ne vous attendiez pas à tant de perfection! Vous êtes devant une femme et vous cherchez un tableau. Il y a tant de profondeur sur cette toile, l’air y est si vrai, que vous ne pouvez plus le distinguer de l’air qui nous environne. Où est l’art? perdu, disparu! Voilà les formes mêmes d’une jeune fille. N’ai-je pas bien saisi la couleur, le vif de la ligne qui paraît terminer le corps? N’est-ce pas le même phénomène que nous présentent les objets qui sont dans l’atmosphère comme les poissons dans l’eau? Admirez comme les contours se détachent du fond! Ne semble-t-il pas que vous puissiez passer la main sur ce dos? Aussi, pendant sept années, ai-je étudié les effets de l’accouplement du jour et des objets. Et ces cheveux, la lumière ne les inonde-t-elle pas?… Mais elle a respiré, je crois!… Ce sein, voyez? Ah! qui ne voudrait l’adorer à genoux? Les chairs palpitent. Elle va se lever, attendez. [17]
Ed ecco invece le impressioni dei suoi due amici-rivali, diametralmente opposte a quelle appena esplicitate dall’artista incompreso:
— Apercevez-vous quelque chose? demanda Poussin à Porbus.
— Non. Et vous? — Rien. Les deux peintres laissèrent le vieillard à son extase, regardèrent si la lumière, en tombant d’aplomb sur la toile qu’il leur montrait, n’en neutralisait pas tous les effets. Ils examinèrent alors la peinture en se mettant à droite, à gauche, de face, en se baissant et se levant tour à tour. — Le vieux lansquenet se joue de nous, dit Poussin en revenant devant le prétendu tableau. Je ne vois là que des couleurs confusément amassées et contenues par une multitude de lignes bizarres qui forment une muraille de peinture. — Nous nous trompons, voyez?… reprit Porbus. En s’approchant, ils aperçurent dans un coin de la toile le bout d’un pied nu qui sortait de ce chaos de couleurs, de tous, de nuances indécises, espèce de brouillard sans forme; mais un pied délicieux, un pied vivant! Ils restèrent pétrifiés d’admiration devant ce fragment échappé à une incroyable, à une lente et progressive destruction. Ce pied apparaissait là comme un torse de quelque Vénus en marbre de Paros qui surgirait parmi les décombres d’une ville incendiée . — Il y a une femme là-dessous, s’écria Porbus en faisant remarquer à Poussin les couches de couleurs que le vieux peintre avait successivement superposées en croyant perfectionner sa peinture. [18]
Probabilmente nel corso della storia delle arti figurative v’è solo un’opera che si può accostare a questo testo. È una tela dei primi anni ’40 di Sebastian Matta dal titolo emblematico e forse anche densamente balzachiano: “ascolatate vivere”.
Che cosa ci mostra Matta? Quale è il nucleo della sua arte?
Cerebrale e tellurica, essa è un alito rovente soffiato sull’opaca e inerte consistenza delle cose, costrette a reagire e a schiudere la intestina trama d’astrazioni e fusioni sottesa alla loro configurazione esteriore, esponendole così ad uno sguardo “deviato” e particellare che alla propria radice non trova più l’occhio ma un informe maceria/coagulo di espansioni sensorie negli imponderabili irraggiamenti delle quali si deposita e pulsa il precipitato ignoto del percetto. La tela non rappresenta, ma registra e organizza i residui ancora contrattili e animati di una materia ustionata sine cura nei suoi punti vitali, sottoposta ad un’operazione violentemente metamorfica che sembra ripercorrere, nel suo forzato oblio e abbandono della propria forma specifica, tutti gli stadi genetici che l’hanno condotta ad essere perfettamente riconoscibile secondo i suoi caratteri strutturali, evacuandoli al tempo stesso uno ad uno in modo da ottenere in ultimo la dinamica pura e fluida di un divenire diffuso e estromesso da ogni logica della rappresentazione mimetica. Allestendo così una esorbitante scenografia dell’aperto e del rimosso, Matta fa implodere la visione dentro se stessa, trasformandola da logora attività quotidiana a disabitato spazio di effrazione e squilibrio in seno al quale la matrice mobile del senso segue la dispersione equivoca del labirinto. Ecco allora una prime definizione della nostra figura-matrice. Ma non è finito qui. Spostiamoci nel mondo latino e interroghiamo uno dei più acuti indagatori della natura e della cultura dell’antichità.
Plinio il Vecchio ora diventa il nostro sottile taumaturgo nella cui opera andare a scovare sorprendentemente un’altra fugace apparizione della figura-matrice. Siamo nel XXXV libro, dedicato alla storia delle arti e Plinio nel paragrafi 81-83 narra della sfida tra Apelle e Protogene, sfida realizzatasi a colpi di sottigliezze che grafiche che tendono all’azzeramento di ogni rappresentazione: “adreptoque penicillo, liniam ex colore duxit summae tenuitatis per tabulam”, [19] è ciò che Apelle lascia tracciato sulla tele vergine di Protogene, il quale per tutta risposta replica lasciando su quei pochi segni “tenuiorem liniam [così che] nullum relinquens amplius subtilitati locum”. [20]
È difficilissimo stabilire che cosa gli antichi e le epoche a noi anteriori vedessero in questa sorta di retrocessione all’invisibile dell’immagine. Va detto infatti che, seppur questo è uno dei passi della Naturalis Historia più commentati e analizzati fino ad oggi, Plinio non commenta assolutamente, lasciando che la vicenda in sé sprigioni la propria forza d’esempio nel lettore, senza che questo possa avvertire da parte dell’autore un minimo suggerimento esegetico. Il fatto è che probabilmente né Plinio, né Balzac si resero conto d’aver toccato, ognuno a suo modo, i limiti stessi dell’immaginario e del figurabile, forse addirittura d’aver sfiorato la soglia estrema del figurale. Tali limiti sono ardui da notare in quanto non chiudono, non circondano, non circoscrivono il piano di rappresentazione, ma piuttosto lo attraversano, lo solcano internamente, vi transitano liberamente passando per il suo centro multiplo e diffuso, rivelandoci così che spesso ciò che appare trattiene infinitamente in sé qualcosa che va molto oltre ciò che vediamo o crediamo di guardare, come se ogni immagine nascesse insabbiata nell’eccesso di un’evidenza che perturba e disturba lo sguardo. Solo tramite una chirurgica opera di smontaggio percettivo è possibile spostarsi dalle calcinate manifestazioni del visto alla claudicante epifania del visibile.
Letto in questi termini il Postmoderno, lyotardianamente inteso, risulta ai nostri occhi un momento cruciale nella storia del pensiero: non solo esso rappresenta un punto di snodo all’interno di quel filone fenomenologico che, sottraendosi in parte all’impianto husserliano, inizia a riflettere sulle forme del nostro venire percettivamente al mondo tramite una rivalutazione dei portati dell’estetica, ma, proprio in forza di ciò, riesce a rivitalizzare ogni approccio fenomenologico mettendo a punto un arsenale critico-operativo che a tutt’oggi non ha ancora smesso di dare i suoi risultati.
[1] J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere. trad. it. di C. Formenti, Feltrinelli, Milano, 1983. p. 17.
[2] Ivi, p. 116.
[3] Va detto però che, per quanto riguarda la parologia, Lyotard risulta meno evasivo: sotto paralogia infatti egli fa rientrare tutte quelle forme aberranti di ristrutturazione sistemica a cui un linguaggio è costretto ogni volta che un’infrazione compiuta in esso viene assimilata dal pattern di regole attraverso una procedura di progressiva “normalizzazione”.
[4] G. Crivella, “Derive del figurale. Analisi storico-critica di Discours, Figure di J.-F. Lyotard” (2011), in Academia.edu, http://independent.academia.edu/GiuseppeCrivella.
[5] J.-L. Lyotard, Discorso, Figura, a cura di F. Mazzini, Unicopli, Milano, 1988, p. 163.
[6] A. Bonito Oliva, Il sogno dell’arte, Spirali, Milano, 1990, p. 15.
[7] Ivi, p. 40.
[8] G. Didi-Huberman, Phasmes. Essais sur l’apparition, Minuit, Paris 1998, p. 195.
[9] Ivi, p. 196.
[10] Il primo fotogramma proviene da Emak-Bakia (1926), il secondo da Etoile de mer (1929).
[11] J.-F. Lyotard, Discorso, Figura, cit., p. 308.
[12] C. Einstein, Ethnologie de l’art moderne, Dimanche, Marseille 1993, p. 115.
[13] Involontariamente, dal momento in cui Lacan non stava parlando assolutamente dell’opera in questione, ma piuttosto stava stendendo un commento ad un passo della Traumdeutung freudiana.
[14] J. Lacan, Le séminaire II, le moi dans la théorie de Freud et dans la technique psychanalytique, Seuil, Paris 1978, p. 187.
[15] J.-F. Lyotard, Discorso, Figura, cit., p. 229.
[16] Ivi, p. 361.
[17] H. de Balzac, Le Chef-d’œuvre inconnu, A. Houssiaux, 1855, p. 37.
[18] Ivi, p. 40.
[19] Plin., Nat. Hist., XXXV.
[20] Ibidem.
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