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Blanchot tel que je l’imagine
di Giuseppe Crivella

2 maggio 2017*



È stato senza dubbio Derrida, nel suo saggio intitolato Parages [1], colui che con maggior precisione ha sottolineato quanto Blanchot abbia sempre intrattenuto un rapporto delicatamente sofferto con la luce [2], ora di scontrosa attrazione, ora di nuda ostilità, quasi ad ingaggiare con essa un corpo a corpo a distanza tra ombre destinate a dissolversi. Forse proprio per questo, agli occhi dell’autore di Thomas l’Obscur solo il concetto di scomparsa riusciva a compaginare il lento fiammeggiare di corpi, nomi, volti in quel vuoto chiamato assurdamente praesentia. Come giustamente notò Jean-Luc Nancy circa dieci anni fa, allorché Blanchot scomparve definitivamente, il suo svanire non lasciò altro che un lampo bianco pallido di senso [3], quasi il lacerarsi trepido e scattante della luce stessa in un’oceanica stilla di tenebra trafitta da un rarefatto librarsi di segni flebili e febbrili, vacillanti lungo quel liquido eremo dell’immemoriale divenuto lesione e nodo, palude e scogliera, maceria e onda, abbandono e tramite.

Il ruvido splendore che fende ogni pagina dei suoi romanzi urta e ferisce lo strano spaziarsi di figure attratte senza respiro nella cerea trascorrenza di dialoghi maturati (e insieme murati) nelle fredde screpolature di voci divenute taciti centri di una breve immensità, che s’aggira intorno alla brillante fissità del Neutro. Ma che cos’è qui il Neutro? Un intervallo, potremmo dire, che distanzia e coniuga in un solo gesto l’eco atroce dell’indicibile — accaduto esattamente là dove ogni ritorno si fa interruzione —, che ci si para di fronte come una statua d’acqua, la quale non smette di oscillare tra la tersa durezza del cristallo e il desolato nitore della folgore.

Ma il Neutro per Blanchot prese forma anche in ciò che oggi potremmo definire la parola ininterrotta, frastagliata e furiosa secondo la segreta schiagrafia di una scrittura pura ed immane, nel cui smisurato volume le discontinuità di un mondo in frantumi si traducono nel sonnambolico travaglio di un Assoluto privo di contenuto, una potenza solitaria, aberrante, negativa, forse deforme — o informe — nei confronti della quale non è ammesso contatto o comunicazione, se non per concentrica abolizione di senso, metafisica consumazione della realtà, raggelata pensée du dehors [4], tutti rovinanti nel bruciante ascesso di un immaginario infaticabilmente solcato da identità erranti.

Il Neutro allora è l’Essere stesso, percorso come da un margine disorientato verso l’eccesso livido di una pienezza anodina, penetrato dalle infiorescenze di un miraggio perfetto incassato nell’origine di ogni opera, il cui linguaggio sia al tempo stesso dissipazione di un’interrogazione inappellabile, raggrumato spazio ospitante parole spettralmente profondate in un vuoto diventato pietrificato crollo, ossessionata molteplicità di silenzi sorti da uno sguardo immobile su quell’ineffabile punto cieco che ha l’astratto nome di morte. E per decenni prima di morire Blanchot ha lavorato (al)la propria scomparsa, per renderla il più possibile inudibile e felpata, inassegnabile nel tempo e nello spazio, avvenuta da sempre e costretta pertanto a non prodursi mai del tutto, exitus lieve e vorace, inavvertito come lo scivolare lento di un’ombra sulle pareti spoglie di un museo vuoto e abbandonato, come il sorriso vacuo di una maschera dismessa. Ma per fare ciò Blanchot aveva dovuto innanzitutto allestire la sua stessa esistenza ad anticamera della morte, ove attenderla per assentarvisi quando essa fosse giunta, operando egli stesso su di sé ciò che la morte avrebbe comportato nel sordo frangente del suo irrevocabile arrivo. Blanchot scelse di abitare prematuramente questa quinta astratta, costruendo in essa la propria presenza attraverso la vasta invisibilità filtrata da una scrittura scagliata nel buio per sagomarsi silente e frastornata su une voix venue d’ailleurs — su una voce venuta d’altrove, come recita il titolo di una delle sue ultime raccolte di saggi — nell’auspicio forse di divenire egli stesso quell’altrove, vergine e violato, sul cui delicato sottrarsi ad ogni pronunciabilità trascrivere i segni di un naufragio, leggibile tuttavia a contrario come il più felice degli approdi, vissuto in prima persona ma narrato alla terza. Proprio nell’opera appena citata — Une voix venue d’ailleurs [5], miscellanea piuttosto eterogenea, i cui saggi principali sono dedicati a Foucault, Celan e Louis-René des Forêts — l’autore s’interroga giusto in apertura su uno dei nodi gordiani di tutta la filosofia: «où est le commencement, […] est-ce quelqu’un ou quelque chose qui commence?» [6]. Questione sorprendente e inquietante, se si pensa che a porla in limine mortis — la raccolta fu pubblicata l’anno prima della morte di Blanchot — sia stato uno dei pensatori che con maggior ostinazione ha dedicato buona parte della sua riflessione a perlustrare il momento della dipartita, a interrogare il trasparente enigma della morte, quel mistero che proprio in forza della sua traslucida purezza non si lascia mai scorgere da vicino, fugge allo sguardo, diventa opaco per eccesso di invisibilità. Ma forse ciò che sorprende e inquieta di più è la sorda ma lucida sospensione che Blanchot lascia tra il qualcosa e il qualcuno, l’interdetta postulazione di un quid non identificabile, il quale viene alla luce attraverso l’oscurità dell’immagine che lo trattiene.

L’origine — le commencement — coincide con una nascita eterna in seno alla quale sia impossibile fissare lo sguardo su qualcuno o qualcosa: ciò che in essa si annuncia è il contorno fantasmatico di un’immensità ancora senza spazio o durata, un’immensità che si fa immersione nel ferito risveglio di una indistinzione ove la cruda effervescenza dell’avvenire e la bruciatura dell’istante si inaugurano nel gorgoglio intatto del loro sforzo impotente a scandirsi, a differenziarsi, a distanziarsi non solo l’uno dall’altro, ma anche da ciò che li genera. Non è un caso inoltre che il saggio in cui Blanchot affronta questi problemi rechi un titolo emblematico: Anacrusi. Ma che cos’è una anacrusi? Solitamente è un termine proprio della terminologia prosodica — ma ancora prima musicale — e sta ad indicare, soprattutto nella poesia popolare e giullaresca, l’aggiunta di una o due sillabe fuori battuta, cioè prima del primo accento, all’inizio di un verso o di una sua parte. L’anacrusi quindi sarebbe da intendersi qui come una specie di estatica cellula ritmica che anticipa e introduce la scansione successiva del metro pur ponendosi all’esterno di esso.

Per Blanchot tuttavia l’anacrusi diventa uno spazio alogico, dove il pensiero dimora in esilio necessario e forse volontario, da cui osservare ciò che si fa mondo prima però che questo avvenga, come la battuta muta e fuori tempo — prima del tempo, a segnarne l’incipit — da cui principia la possibilità stessa di pensare e di pensare l’origine con la totale trasparenza di ciò che non ha fine. L’anacrusi è dunque un tempo anteriore ma non originario, il perfetto frantume di un momento assolto da ogni divenire, sottratto alla catena delle successioni che da esso si dipanerà; essa è così l’istante completamente risolto nel proprio prodursi in una scansione senza seguito, conclusa e riassorbita nella precaria imminenza di un’eco che precede la vibrazione da cui prenderà corpo. Quasi sessant’anni fa Blanchot per la prima volta aveva sentito il bisogno di affrontare l’anacrusi, in uno dei suoi romanzi più enigmatici e controversi dal titolo sibillino Celui qui ne m’accompagnait pas [7]. In questo testo del 1953 l’autore arrivava a parlare dell’anacrusi in questi termini:
[essa] è una parola? eppure non una parola, appena un mormorio, appena un brivido, meno del silenzio, meno dell’abisso del vuoto: la pienezza del vuoto, qualcosa che non si può far tacere, che occupa tutto lo spazio, l’ininterrotto e l’incessante, un brivido e già un mormorio, non un mormorio, ma una parola, e non una parola qualsiasi, ma distinta, esatta, a mia portata [8].
Blanchot apre con una domanda che non può che tornare senza resto su se stessa, chiudendosi silenziosamente con le movenze tenui ma incisive di una latenza intrattabile. Incessante e inaccessibile, la sua imminente cancellazione totale insiste, persiste, resiste — ma non esiste — come l’unico stigma in seno ad una abolizione da cui l’Essere è espulso attraverso le disseminate fissurazioni di una indissolubile polisemia dello svanire.

Possiamo ora indicare i due vertici mobili a partire dai quali il campo di gravitazione della scrittura blanchotiana prende forma: da una parte l’auscultazione di una parola sepolta nell’apnea semantica di ciò che anticipa ogni origine, ovvero l’anacrusi; dall’altra il bianco obliterarsi di ogni sembianza nel barbaglio ibrido di immagini che appaiono lungo lo scucirsi della luce, nel tremito vasto e perpetuo dell’Elemento, nell’inesorabile crepuscolo di un’identità che elegge a proprio centro il lontano:
io dovevo rimanere là, tenermici, era quello il mio compito, l’inizio di una decisione che dovevo sostenere […] tradendola il meno possibile, senza mai essere privato di me stesso, ma sempre di fronte all’esigenza che mi dava il sentimento d’essere io stesso scomparso, e, lontano dal credermene libero, d’essere legato a questa scomparsa, legato sempre più intimamente ad essa, d’essere chiamato, votato a sostenerla, a renderla più reale, più vera, e, nello stesso tempo, a spingerla lontano, sempre più lontano, là dove la verità non arriva, dove la possibilità cessa [9].
Celui qui ne m’accompagnait pas appare ancora oggi come un rebus senza soluzione: esso è una sorta di dialogo per voce sola, un dialogo da cui la figura dell’interlocutore è sempre espunta — le sue repliche sono solo sospettate, intuite, suggerite a noi dal narratore —, sostituita da una diffusa lacuna. Si prendano per un attimo le battute finali del romanzo: tutti gli sparuti eventi evocati fino ad allora di dispongono secondo una direzione silenziosa di astensione ed usura; l’incipit, ugualmente, è un’affermazione senza referente: aborder [10]... chi? che cosa? quando? perché? dove? Siamo già al centro di quel percorso aggirante [11] con cui Blanchot indicherà nel ’69 l’essenza della sua scrittura, di una scrittura che non riflette per frantumi di tenebra l’esangue elidersi delle cose nella parola, ma piuttosto esprime l’identificazione estenuante con un détour in cui si fa palese il disordinato appello a uno spasimo di chiarità affiorante sull’eroso orizzonte lungo il quale ogni evidenza è l’estremo simulacro d’una contorta presenza trasfigurata in immagini urlanti. Ecco cosa scriveva Blanchot a questo proposito già nel 1955:
l’immagine di un oggetto non soltanto non è il senso di questo oggetto e non aiuta alla sua comprensione, ma tende a sottrarvelo mantenendolo nella immobilità di una somiglianza che non ha niente a cui somigliare. […] L’immagine domanda la cancellazione del mondo. Presente dietro ogni cosa come la dissoluzione di questa stessa cosa e il suo sussistere nella dissoluzione, essa ci rappresenta l’oggetto in una luminosa aureola formale, ma è con il fondo che essa si lega, con la materialità elementare, con l’assenza ancora indeterminata di forma, […] trasparenza fugace [sorta] dall’oscurità del destino resa alla sua essenza che è di essere un’ombra [12].
La scrittura è stata per Blanchot il modo elettivo con cui sorprendere senza adulterare questa somiglianza che non ha niente a cui somigliare, simile pertanto a una lievissima increspatura lasciata sul reale dal risolversi delle cose in una rifrazione circolare che puntualmente torna a comporsi nel loro stesso avvolgersi, là dove prima v’era ciò che le segnalava come tali, disegnando così sul flebile arabesco del loro spegnersi forse la più alta attestazione di presenza, quella di colui che tace in ascolto del fitto brusio del mondo, in attesa di districarne gli estremi balbettii di verità.


* Prima pubblicazione: Kasparhauser | Etica, 27 giugno 2014

[1] J. Derrida, Parages, Galilée, Paris 1986.
[2] Ivi, p. 177 sgg., p. 238 sgg., 267 sgg.
[3] J.-L. Nancy, “La mort de Maurice Blanchot”, in Libération, 5 marzo 2003. L’articolo è interamente leggibile presso il sito http://www.liberation.fr/tribune/2003/03/05/hommage-a-l-homme-blanchot_457682
[4] Naturalmente qui è esplicito il riferimento a Michel Foucault, Scritti letterari, a cura di C. Milanese, Feltrinelli, Milano 1996, pp. 111-134.
[5] M. Blanchot, Une voix venue d’ailleurs, Gallimard, Paris 2002.
[6] Ivi, p. 29. Il saggio s’intitola “Anacrouse”.
[7] M. Blanchot, Celui qui ne m’accompagnait pas, Gallimard, Paris 1987.
[8] Ivi, p. 125. Traduzione nostra.
[9] Ivi, p. 67. Traduzione nostra.
[10] Ivi, p. 7. Per tutto il testo ritorna inoltre il problema del commencement: cfr. soprattutto p. 91 e seguenti, ma anche p. 118 e p. 156 sgg.
[11] M. Blanchot, L’entretien infini, Gallimard, Paris, 1969, p. 442,
[12] M. Blanchot, Lo spazio letterario, a cura di J. Pfeiffer e G. Neri, Einaudi, Torino 1967, p. 223.

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