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La communauté inavouable, Maurice Blanchot dichiara che la comunità non è una forma ristretta della società, così come non tende né alla fusione né nella comunione. A differenza di una cellula sociale, essa si proibisce di fare opera e non ha come fine un qualche valore produttivo. A cosa serve dunque? A nulla risponde Blanchot; e ancora: la base della comunicazione non è necessariamente la parola, e neppure il silenzio che ne è il fondale e la punteggiatura, ma lesposizione alla morte, non più di me stesso, ma dellaltro di cui anche la presenza vivente più prossima è già leterna e insopportabile assenza. Linfinito dellabbandono, la comunità di chi è senza comunità. Raggiungiamo forse qui la forma ultima dellesperienza comunitaria, dopo la quale non ci sarà più nulla da dire, perché questa deve conoscersi ignorando se stessa.
La morte fondante la comunità senzopera e senza identità non ha legge o forma, ma è non-legge e non-forma di se stessa: ciò mi pare rilevante e tuttavia, traghetterei la questione comunitaria allinterno di una visione depurata dei residui seppur non metafisici del metafisico umanismo, dalle scorie antropocentriche e logocentriche ancora presenti nelle parole di un Klossowski che parla di comunità carnale dei simili: in tal senso, monisticamente, non solo il sacrificio, «Il dono o labbandono è tale che al limite non vi è nulla da donare e nulla da abbandonare, e il tempo stesso è soltanto uno dei modi in cui questo nulla da donare si offre e si ritira come il capriccio dellassoluto» (Blanchot), ma esso si estende alla stessa datità metalinguistica di ciò che, attraverso il linguaggio, di norma identifichiamo col termine Essere datità materiale integralmente coincidente con ognuno di noi cosiddetti esseri umani (portatori in sé, quali corpi-modi, di una specie inesistente come forma autosussistente trascendente rispetto ad essi), non più di quanto non sia parimenti appieno coincidente con qualsiasi gatto sacro di Birmania, o accordo di tritono proveniente da organo a canne fiammingo, o tappeto iranico di
Esfahān, o bianco fiore di
Peganum harmala, o topazio giallo brasiliano di taglio
Marquise.
«Tutto ciò che è partecipa al sacrificio» (
Śatapatha Brāhmaṇa).
Ormai, non solo sè nella «comunità di chi è senza comunità» ma solo accomunato dalla morte che non permette comunione; non solo questa comunità non serve a nulla, come pure afferma Blanchot; e non solo mi pare qui sta la forma ultima dellesperienza comunitaria: personalmente, ritengo che qui sinstalli anche la sua fine (termine che evidentemente non significa né cessazione dei rapporti tra individui
au contraire, si determina laffrancamento di questi dalle ubique coartazioni, cosa che invero avviene anche in tale forma non-comunitaria , né conclusione della comune esperienza della morte accomunante e non risolvente in comunione), che intendo come ontologicamente necessaria, pur comprendendo ogni possibile esigenza individuale di natura volontaristico-rappresentativa afferibile ideologicamente/teologicamente o no ad ogni raccogliente, rastrellante (infine, conservativo e reazionario…) anelito comunitarista spiritualmente affine al carattere di ciò che Michel Surya chiama dominazione, la cui pretesa è detta essere «che il suo potere non costituisca più una minaccia, ma che ciascuno costituisca per se stesso una minaccia dessere escluso dai legami della dominazione» stessa; al punto che «Presto nessuno sarà più escluso se non per infedeltà […]».
Lurgenza di mantenere linguisticamente e simbolicamente viva la comunità, assume talora i connotati di una certa utilità difensiva, quando non anche quelli duna candida, vile adesione al
buon senso comune timorato dellempietà, che, «contrariamente alla religione (perlomeno essotericamente e civilmente intesa) e come la santità, è solitaria». (Manlio Sgalambro).
«Colui che ha assistito il Creatore nei suoi ultimi momenti, che ha visto le membra divine in preda ai vermi, che si è sentito come la sofferenza postuma di Dio e che, seppellendo Dio, ha perduto il mondo, non ha più conti da rendere alla Società […], ed è solo per un ultimo residuo di pudore e di modestia davvero esagerata, è solo per un riguardo eccessivo verso sua madre, sua sorella e i suoi contemporanei, che egli mantiene laspetto affabile, grave e pacifico di un professore», scriveva già Pierre Klossowski ne
La création du monde.
Bram van Velde, MP 345, 1979