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Se la libertà non ha un senso
Una nota su “Neoliberismo, rivoluzione digitale e morte del futuro” di Lorenzo Lasagna

di Guido Cavalli

25 giugno 2019


L’articolo di Lorenzo Lasagna su “Realismo capitalista”, pubblicato su Kasparhauser pochi giorni fa, attenua nei toni, quasi soccorrevoli verso Fisher, ma conferma bene nei contenuti che il problema qui non è il capitalismo, ma proprio l’anticapitalismo.

Il problema è un pensiero che anziché riflettere sul proprio fallimento, sia storico e che teoretico, continua a lamentare l’indifferenza dei fatti alle proprie categorie.

Perché la necessità “dell’altrove” rispetto al capitalismo (che in Marx stesso non è altro che il nome di tutta la storia) è l’implicito del marxismo, ma non della storia. E la sua forma intrinsecamente teleologica, nella quale ogni disagio, ogni dolore, ogni male è la ferita d’una giustizia possibile, è ormai così ingenua da fare quasi tenerezza.

Il punto dunque non è la mancanza di alternative, ma l’incapacità di cogliere la forma e la forza del capitalismo, che invece è proprio l’exitus dalla forma teleologica della storia. È il capitalismo che è passato oltre, e l’anticapitalismo che è rimasto al di qua.

Mentre cerca un modello alternativo, l'anticapitalismo non vede che non c'è più alcun modello, che la difficoltà di perimetrare il cosiddetto capitalismo (e dunque anche di immaginarne un “fuori”) viene dal suo continuo adattamento e dalla sua continua trasformazione, che forse ha come unica costante una specie di istinto di sopravvivenza, di soggettività istintiva, di consapevolezza della necessità di salvaguardia di una complessità e molteplicità di istanze, che non sono mai variabili isolate ma fattori in continua relazione nella risposta e nell'adattamento ad altri nuovi fattori.

Una pluralità di istanze (economiche, culturali, simboliche, psicologiche, antropologiche) hanno raggiunto e istituito nel “capitalismo” una sorta di patto di reciprocità, di vicendevole riconoscimento per cui di fronte a diversi fattori di mutamento la risposta non è mai univoca, sistemica, dialettica ma contingente e incompiuta, irrazionale.

Proprio questa mancanza di razionalità permette al capitalismo di non essere messo in discussione ad un solo livello, anzi: incalzato su un piano (per es. economico) risponde su un altro piano (per es. valoriale), o viceversa, o in altro modo. Stili di vita ampliano mercati, desideri diventano leggi, istinti collettivi muovono risorse finanziarie, tecnologie informano comportamenti, o viceversa, e in tutte le combinazioni possibili.

Ogni volta che un’analisi crede di poter cristallizzare un processo, i fatti dimostrano che il processo si è invertito, si è spostato. L’intercambiabilità del soggetto del processo storico, la sua intermittenza è la forza, il fattore competitivo. Fino allo spaesamento, al relativismo, fino alla fine del senso.

Il “Capitalismo” non è affatto una sovrastruttura, una “matrice di senso” come vorrebbe Fisher, ma spazio liberato dal senso. Non è la morsa del capitalismo che ci angoscia e ci smarrisce, non è la sua presunta violenza strisciante, l’invisibile e quasi ipnotica sottomissione a cui ci costringerebbe senza mai toccarci, senza apparire, anzi al contrario istituendo imperi dell’immaginario, monarchie dell’individuo, rivoluzioni senza bandiere e senza miti, ma è lo spazio vuoto del non senso, che è causato tanto dalla logica a-valoriale del capitalismo quanto dalla parabola discendente del valore stesso.

Il capitalismo ha preso spazio, ha sovrascritto ciò che c’era (è la rivoluzione della modernità) laddove il senso stesso si è da sé prosciugato. Non è la stretta del Capitalismo ma quest'abbandono del senso, questa nostalgia del senso ciò che angoscia. “Che fare di questa libertà (dal senso)?” è l'interrogativo che angoscia la post-modernità.

Che abitato in altro modo potrebbe portarci a domandare: l'assenza di senso (di prospettiva, di futuro, di Altro dice Fisher) comporta necessariamente assenza di profondità, assenza di autenticità, assenza di bellezza, assenza di verità?

E ancora: il capitalismo tende, cerca davvero un livello ultimo di realtà? Come rileva Lasagna, questo è forse il passaggio più debole del ragionamento di Fisher, il riemergere esplicito di una malformazione materialistica.

Ancora una volta, qui, il pensiero materialistico diventa afono difronte alla realtà, spiazzato dalla forza del capitalismo che invece non è affatto interessato a porre un altro livello di realtà, ma punta a ridefinire la sostanza del reale come spazio del possibile (quello spazio che è dei significati e dei desideri e solo poi delle cose).

Il fallimento dell’analisi di Fisher qui è completa, ma paradigmatica: nel suo (e di tutto il pensiero antagonista) implicito materialista non vede che il capitalismo è radicalmente antirealista (cosa che invece Byung-Chul Han ha capito perfettamente).

Eppure questo fallimento è la breccia attraverso cui passerà anche Fisher. Perché 10 anni dopo “Realismo capitalista” pubblica “The wired and the eerie”: esattamente una fenomenologia dello spazio liberato dal senso, delle sue perturbazioni, raccolte da Fisher nelle due categorie del wired e dell’eerie, ovvero delle mutazioni dell’immaginario contemporaneo, quando il piano di realtà si incrina in presenza di qualcosa che non è al suo posto, o in assenza di qualcosa che dovrebbe esserci.

Un’intuizione teoretica, a mio avviso, molto più acuta e feconda di quella di “Realismo capitalista”, che sposta (ma Fisher se ne rende conto?) il suo discorso sul contemporaneo oltre il “capitalismo” o almeno oltre la sua riduzione economicista, per approdare invece ad un altro livello (quello su cui “realmente” gioca il capitalismo): l’immaginario, quello spazio dove la geometria del senso si confonde e si distorce nelle prospettive del possibile.





Romain Veillon, Ask the Dusk, 2016
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