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L’«erotica politica» nel Simposio di Platone*
di Roberto Fai

8 maggio 2020




È arcinoto come il ‘cuore’ del Simposio di Platone risieda nello svelamento dell’identità, della natura di “Eros”: è dell’origine di Amore che il Simposio ci parla. In ogni epoca, il testo è stato oggetto di uno scavo incessante sui significati reconditi, sino a quelli più metaforici, simbolici ed allegorici. L’ordito “teatrale” offerto dal dialogo tra i vari ospiti presenti al Convivio, insieme all’aspetto vago ed incerto di una vicenda che viene annunciata, nel prologo, come una sorta di “racconto di un racconto” — dove, come, quando e tra chi si sia intessuto il confronto —, sembra conferire un alone misterico ed esoterico ad un banchetto tra ospiti illustri, nel corso del quale verrà fuori — e solo alla fine — tutta la verità mitica su “Eros”. Tutto ciò — oltre alla centralità del tema — conferisce al Simposio il sapore di un testo sacro, consentendo di iscriverlo all’interno di quella costellazione di pensiero che è venuta istituendo il “canone occidentale”. Il Simposio è, pertanto, uno dei racconti fondativi della cultura europea. Il prologo, cui s’è già accennato, ci informa che un certo Glaucone, incontrando casualmente per strada Apollodoro, aveva chiesto a quest’ultimo di raccontargli del famoso “Convivio” che s’era svolto molto tempo addietro. Quest’ultimo aveva iniziato a raccontare “quali furono quei discorsi”: «mi proverò meglio a ripetervi tutto il racconto da capo, come l’ho udito da Aristodemo» (Simposio, 174e).

Il “Convivio” s’era svolto a casa del poeta tragico Agatone, il quale aveva deciso di invitare alcuni suoi amici per festeggiare la sua vittoria in un concorso teatrale. Secondo il procedere del racconto, padrone di casa e invitati cominciano a banchettare in attesa dell’arrivo di Socrate, che s’era ritirato nel vestibolo della casa dei vicini, unendosi poco dopo nella cena con gli altri ospiti. Una festa in onore del poeta, cenando, bevendo, cantando al dio e, come consuetudine in queste occasioni, ascoltando una flautista suonare, così che poi, congedata quest’ultima, su invito di Erissimaco, sarà proposto tra tutti i simposiasti il tema di cui discutere: l’Amore-Eros. Concluso pertanto il banchetto, Fedro, Pausania (l’amante di Agatone), Aristodemo, Erissimaco, Aristofane e Socrate davano così inizio ciascuno al proprio racconto. Il primo a prendere la parola è Fedro, il quale inizia a parlare definendo Eros “dio grande e meraviglioso”, tra i più antichi degli dèi, del quale nessuno sinora ha mai parlato dei suoi genitori. Ma già in ciò — questo dipingere Eros come un “dio” —, Fedro mostra di essere fuori strada.

La discussione prosegue via via nella presa di parola degli altri. Soltanto che ciascuno dei simposiasti, offrendo ciascuno la propria ipotesi, nel tentare di dire la loro verità su Eros, sembrano più interessati a riscuotere successo parlando di Eros. Sorvolando sulle tesi degli altri, il solo Aristofane sembra accostarsi più fedelmente a quel “mito” dell’origine di Eros, secondo cui in un lontano passato, l’originaria integrità degli “umani”, costituiti in forma “sferica” — composti cioè da tre ‘generi’: il maschile, il femminile e l’androgino, che partecipava di entrambi (uomo e donna) —, era stata “tagliata” da Zeus nei due esseri, per renderli più deboli e fragili, nel timore che la loro tracotanza potesse spingerli ad usurpare il potere degli dèi. Sarà compito di Apollo aggiustare la loro forma autonoma, raddrizzando il volto e aggiungendo l’ombelico — segno apollineo —, e spostando il sesso verso l’interno per favorirne l’accoppiamento. Da quel momento gli “umani” sarebbero stati esposti ad una infinita e inesausta “tensione erotica” — segno originato dalla loro irredimibile ferita — al fine di cercare la loro metà “mancante”.

Solo alla fine del Convivio, dopo che gli ospiti — tutti maschi — avevano detto la loro, Socrate farà irrompere “idealmente” nella scena Diotima di Mantinea — città arcade —, riferendo il racconto che la donna gli aveva fatto, a suo tempo, sulla natura e l’origine di Eros. Così Socrate, nel testo: «Dirò invece il discorso che su Amore udii una volta da una donna di Mantinea, Diotima, la quale era sapiente in questa e in molte altre cose» (Simposio, 201d). Ma chi è in realtà Diotima? Quest’ultima, come già detto, è assente dalla scena simposiale ed è, oltre che straniera, anche ‘straniante’: perturbante, nel senso freudiano di unheimlich. Anche lei partecipa a due mondi, quello mitico e quello storico, legata al passato ancestrale, ispirata da una sapienza ctonia, in possesso dell’antica sapienza cultuale, pratica nella mantica, dotata di efficace preveggenza, anch’ella, figura della soglia dunque — partecipe, a suo modo, di quel ruolo di μεταξύ (“frammezzo”, “tramite”), che sarà centrale per dipanare la natura/nascita di Eros nel Simposio. E su Diotima molto s’è discusso e scritto, dall’antichità classica all’umanesimo al nostro tempo, vedendola oscillare nel ruolo di “divinatrice” e sacerdotessa, sino all’incertezza del suo statuto di veridicità storica.

Secondo il racconto della donna, “Eros” era nato nel corso del banchetto per la nascita di Afrodite. Qui, nel corso della festa, mentre ‘Poros’ (‘Espediente’, ‘risorsa’) — ubriaco per aver bevuto troppo nettare — è steso dormiente sul prato, ‘Penia’ (‘Povertà’) posa lo sguardo su di lui, e approfittandone del suo stato si unisce a lui. Da qui, e così, verrà concepito Eros, ed essendo Afrodite la dea della Bellezza, Eros sarà amante di Kallos (‘Bello’), e non è affatto un Dio, bensì un “semidio”, figura intermedia, demone possente, «soglia di mediazione», metaxý, vale a dire, tramite, frammezzo, venuto fuori, scaturito, “nato” dall’incontro tra Penia (‘povertà’) e Poros (‘espediente’, ‘risorsa’). E come tale, Eros fa la sua apparizione — eterna, ricorsiva, furtiva e permanente — proprio lì dove scocca una scintilla di desiderio tra i soggetti. In altri termini, facendo dis-velare a Socrate, per “bocca” di una donna, Diotima, cittadina dell’Arcadia, la natura di Eros — in un convivio cui partecipano solo uomini illustri di Atene —, è come se Platone volesse mettere in scena una potente allegoria, giocasse la proprio finalità allusiva di una «erotica filosofico-politica». Come se il luogo di provenienza di Diotima — la città di Mantinea — servisse a riscattare l’immagine di un’Arcadia, povera ma giusta, genuina e pacifica, “soglia” anch’essa tra physis e nomos divino, la quale aveva cercato di esprimere ed esperire la propria singolare autonomia, come contrappunto di innocenza naturalistica — una sorta di «topos originario» e comunità umana, la cui forma-di-vita s’era scandita nel vivo intreccio di un legame tra mythos e logos, physis e dike (‘giustizia’) —, luogo non contaminato dalla hybris (‘tracotanza’), lontana e distante da quella storia incrementale che aveva scandito sia la spartana smania di conquista, sia la stessa intraprendenza politica dell’imperialismo ateniese: entrambe poleis che avevano costretto le città dell’aspra e montuosa regione del Peloponneso a subire il peso della propria supremazia e arrogante dominio. Innanzitutto, Sparta, che col diecismo (lo smembramento della popolazione di Mantinea tra il 385 e il 384 a. C. per il supposto tradimento della città durante la guerra del Peloponneso) aveva imposto ingiustamente e con tracotanza all’Arcadia la dispersione dei suoi abitanti, costringendoli all’emigrazione. Mentre, a sua volta, la polis di Atene, per Platone, portava il fardello di quella ingiustizia simbolica, incisa dalla “ferita mortale” della condanna a morte di Socrate: ingiusta sentenza che, in eterno, simboleggiava e avrebbe simboleggiato il cuore di tenebra della hybris politica ateniese.

Raramente ci si è interrogati sul fatto che, per Platone, il “Simposio” — il testo che è ed appare il topos fondamentale dell’Occidente, «luogo fondativo» dell’origine di “Eros”, del desiderio di Amore — sottenda profondissime ragioni e finalità «tutte politiche». “Politiche”? Proviamo a vederle! Socrate, infatti, proseguendo (sempre per ‘bocca’ di Diotima) nel racconto simposiale, indica come nell’incessante «tensione erotica» — ricerca inesausta ed infinita tra le due “metà” umane —, se essa è segnata da Amore, non vi è in gioco una affezione “irrazionale” (brama d’onore, fama, gloria, ecc.), perché coloro «la cui fecondità è nell’anima, ancor più che nel corpo, che cosa è loro proprio? Pensiero e virtù in ogni sua forma» (così nel Simposio, 209a). Sì che Socrate/Diotima può annoverare tante figure umane, e tra questi: poeti, inventori, artefici, con l’avvertenza che la forma di pensiero più grande e mirabile «è quella che riguarda l’ordinamento della città e delle case, e che ha nome saggezza e giustizia…» (Simposio, 210-11).

Ecco qui stagliarsi e giganteggiare quella straordinaria «erotica politica», cui si accennava nel titolo. Non poteva qui darsi risposta più plastica e chiara da parte di Platone. Si staglia qui — proprio nel Simposio — nella sua determinatezza, la trama «filosofico-politica» attraverso cui Platone lega l’apprendimento della natura di Eros a quella “vetta” più grande di pensiero e di agire che attiene al «governo giusto della città». Di là dell’atopia platonica sul «governo della Polis da parte del filosofo» — o dell’irenico auspicio (o pretesa!) che “filosofo” e “politico” siano lo stesso, perché solo quando filosofo e sovrano coincideranno, la città vivrà nel giusto! —, ciò che il Simposio mette a tema, è il «governo giusto della città»: ed è proprio ciò che sta a cuore a Platone. Come risaputo, infatti, Eros è filosofo! Ma qui è il punto: Eros è lo stesso Socrate: ha i tratti del filosofo. Infatti, come l’ha descritto, Diotima, quell’Eros nel Simposio? «[Eros] è povero sempre e, lungi dall’essere delicato e bello, come credono i più, è invece duro, squallido, scalzo, senza tetto, uso a giacere nudo e frusto in terra, a dormire per le porte e nelle scale, al sereno; perché ha la natura della madre ed è accasato col bisogno […], è insidiatore di tutto ciò che è bello e ciò che è buono; coraggioso, risoluto, tenace, cacciatore da far paura, sempre occupato in qualche trappola, desideroso assai d’intendere e pieno d’espedienti, inteso tutta la vita a filosofare […], quanto acquista gli si sperpera, e puoi dir che Amore non è mai né povero né ricco, come pure sta di mezzo tra sapienza e ignoranza […]; d’altra parte, neanche gli ignoranti pensano a filosofare o han desiderio di diventar sapienti: ché anzi è proprio qui la difficoltà in cui l’ignoranza si trova, ché chi non è bello né buono né saggio, crede di avere tutto a sufficienza. E naturalmente, se uno non crede di aver difetto, non può desiderare ciò di cui non sente bisogno» (Simposio, 203-204).

Non è un caso che, solo dopo che Socrate ha così descritto Eros, ecco che irrompe, nella scena del Simposio, Alcibiade — ubriaco nella scena —, leader della potente Atene, con il suo parlar gridato, la sua lingua carica di retorica e ambiguità, goffo e arrogante, irriverente verso il filosofo. E ciò non è solo un espediente narrativo, o un coup de théâtre finalizzato a rendere evidente ed esplicitare la differenza tra il filosofo e l’aristocratico politico Alcibiade, membro di spicco degli Alcmeonidi, leader della potente Atene che, appena un anno dopo il banchetto, nel 415 a.C., trascinerà la Polis di Atene nella sua velleitaria spedizione bellica in Sicilia, subendo una sonora sconfitta: esito che segnerà l’avvio del declino politico e militare di Atene. In una pagina di intensa suggestione di un suo raffinato e splendido saggio — Il Regno errante. L’Arcadia come paradigma politico (Neri Pozza, 2018) —, Monica Ferrando così dipinge la figura di Alcibiade: «il suo disprezzo per la tranquillità dei Pelasgi [vale a dire, gli Arcadi, eredi del re Pelasgo, ndr] è coerente con quel vitalismo attento agli umori del momento che informa il suo pensiero strategico e il suo senso dell’opportunità politica che consiste nell’adeguarsi al suo tempo […]. Paradigmatico esempio di ambizione personale, Alcibiade, nel binomio “natura umana”, fa trionfare la natura a spese della politica intesa quale ricerca umana della giustizia e dell’amore, come dimostrerà il suo confronto con Socrate nel Simposio. L’implicita negazione di un passato comunitario considerato retrogrado e quindi superato per sempre […] era legata a quel ricordo, ormai rimosso, di debolezza e povertà che aveva accomunato Atene all’Arcadia. L’insostenibilità di questo ricordo di impotenza, l’imbarazzo di una nascita oscura e di una condizione di umile indigenza avrebbe favorito e prodotto, una volta raggiunte le condizioni di possibilità, l’affermazione compensatoria di un’immagine di città capace di incarnarsi in un soggetto politico virtualmente unitario, tutto proiettato in un futuro di seduzione e di conquista del consenso, di cui Alcibiade appare come il designato prototipo. La forza di questa spinta politica è tale da indurre a ritenere ormai giunto il momento, equivocando l’insegnamento socratico, di sbarazzarsi una volta per tutte del retaggio religioso di antichi culti tradizionali in cui era risposta l’identità etnica di una città talmente forte da non avvertirne apparentemente più alcun bisogno…[Gli Arcadi], a differenza degli ateniesi, con cui non sono nemmeno paragonabili, sono stati certo del tutto incapaci, privi com’erano di risultati militari, e degli scopi propagandistici ad essi connessi, di elaborare un modello di civiltà loro proprio. Quello di Atene, evidente nei fatti e approdato alla parola col primo discorso di Pericle riportato da Tucidide, vanta lo statuto di paradigma da imitare e prosegue con questo tono fino all’ultimo discorso di Nicia. Qui si fa leva, come estremo espediente retorico, sul piacere narcisistico che l’ammirazione e la conoscenza della lingua e l’imitazione dei modi ateniesi da parte delle altre popolazioni deve risvegliare nell’animo di combattenti già votati ad una disfatta inevitabile. Questo motivo non solo resterà valido dopo che i suoi promotori saranno stati “vinti completamente in tutto”, ma, procurato il suo ingresso, grazie alla nobile sconfitta, in un mito divenuto come tale politicamente invincibile, andrà a formare buona parte del paradigma occidentale» (ivi, pp.206-209).

Già in questo accostamento tra le due figure — il politico e il filosofo —, del primo s’è appena detto, mentre il secondo si mostra, ed è, totalmente libero e donativo e, pur abitando e vivendo dentro le mura della Polis, è, in essa, per certi versi, straniero ed impersonale — posto sulla «soglia della città». Egli opera, agisce e proietta il suo sguardo libero e dialogante, finalizzato sia ad una continua decostruzione delle doxai, le mere opinioni dei cittadini, sia a dis-velare la hybris del potere: nella sua coraggiosa azione di «dire la verità» al politico, al sovrano. Come ha scritto Hannah Arendt, «Socrate voleva migliorare non tanto i cittadini, quanto le loro doxai che costituivano la vita politica alla quale anche lui prendeva parte. Per Socrate la maieutica era un’attività politica, un “dare-e-ricevere” basato su una rigorosa uguaglianza: i suoi frutti non potevano essere misurati in termini di risultati, in base al raggiungimento di questa o quella verità generale» (H. Arendt, Socrate, Raffaello Cortina, Milano 2015, p.36). Socrate si staglia così come la figura archetipica e paradigmatica del conflitto tra il filosofo e il potere nella città: codice emblematico di quella “metafora assoluta”, espressa nella figura del platonico Viaggio a Siracusa. Certo, eterno dissidio — archeologico e genealogico, si potrebbe dire! — tra le due sfere, i due ambiti: politica e filosofia. Ma quanti Socrate sarebbero necessari nella Polis?

* Il presente testo è la rielaborazione di una parte del capitolo «Eros nel Simposio. Diotima, figura della soglia», compreso nel più ampio saggio di R. Fai, Pastorale arcadica. Per un Regno giusto, Mimesis, Milano 2019.




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