Rivista di cultura filosofica
2021
Home
Monografie
Culture Desk
Ateliers
Chi siamo
Info
|
|
Il linguaggio non è una tecnologia o perché non possiamo non dirci ancora heideggeriani.
Una lettura di Documanità di Maurizio Ferraris
Seconda parte
di Guido Cavalli
25 giugno 2021
[Vai alla prima parte]
4. La parola non è il numero
Per cogliere questa non meglio precisata altra possibilità, proviamo un altro approccio. Posto che lessenza documentale della merce rivela, nella mercificazione di tutto (atti, oggetti sociali, arte, idee, informazioni, opinioni 57) la riduzione della cosa a cosa misurata, dato, poniamoci almeno per un istante la domanda: esiste qualcosa che non è misurabile? Esiste qualcosa che non è documentabile? Con la piacevole ironia e il compiaciuto pragmatismo che contraddistinguono la sua prosa, Ferraris potrebbe certamente ridurre il Giudizio universale di Michelangelo o il Winterreise di Schubert o il Galateo in bosco di Zanzotto a reiterazioni semantiche, a plusvalore simbolico ma nessun riduzionismo sfugge allincoerenza per la quale ciò a cui si riduce unalterità non è quellalterità (118). Manca lestatico del linguaggio. Gli esempi nel campo dellarte sono da questo punto di vista i più significativi perché eccedono costitutivamente qualsiasi ricostruzione storicistica o dialettica, perché, in definitiva, non si riducono alluso del linguaggio come tecnologia ovvero non scaturiscono da alcuna finalità interna di un corpo vivente (50). Da dove origina la natura artistica delle figure di Altamira? (Ma esiste una natura artistica di quelle figure? Possiamo certamente dire di no, e conseguentemente però, senza soluzione di continuità, sostenere che non ne esiste una nemmeno nella Cappella sistina). Nella ricostruzione tecno-antropologica è proprio laccumulo di ciò che emerge nella ripetizione, ovvero ciò che consente alla traccia di diventare volta per volta segno, ovvero traccia portatrice di un significato, che si stratifica nel tempo e costruisce per accumulo una rappresentazione ideale, ovvero una figura di ciò che è comune a tutte le iterazioni le reiterazioni della cosa. Lo spazio astratto del linguaggio si apre così come stratificazione di ripetizioni che lentamente divaricano percezione e rappresentazione. Lestatico del linguaggio si riduce a questo, a un processo adattativo, alla sua dimensione darwiniana, inconsapevole e impersonale, di memoria esogena della specie. Allora, certo, larcheologia e lantropologia ci possono spiegare il valore rituale, apotropaico, simbolico delle raffigurazioni delle grotte di Altamira, ma lo spazio del linguaggio è già aperto ed è solo nella differenza tra il nostro uso e laperto che si dà la nostra relazione al linguaggio. E questa differenza non è il plus valore documentale: il plus valore documentale della misurazione del dato certo eccede lintenzione individuale, ma solo statisticamente, perché correlato ad una enorme quantità di altri dati (bisognerebbe qui, en passant, approfondire anche il tema della non omogeneità dei dati e delle banche di dati, rispetto a cui Ferraris sembra avere unidea abbastanza semplificata: il dato non è una sostanza ontologica, dati difformi, incongrui o incompatibili tra loro non generano alcuna correlazione) il cui ordine eccede la capacità di calcolo delluomo ma non eccede mai quella della macchina. Leccedenza di significato che qui si produce è assolutamente ricompresa nello scarto computazionale tra uomo e macchina, ma del tutto immanente al limite del dato in sé. Ovvero: lalterità che costituisce lopera darte (la differenza tra tempio e riparo) non rientra nello scarto computazionale, per quanto enorme possa essere, ma nella differenza tra parola e linguaggio, e come tale non è documentabile.
Cè dunque una differenza irriducibile tra linguaggio e tecnologia del linguaggio, o tra linguaggio e uso del linguaggio, che invece Ferraris tende ad assumere come coincidenti (143, 208). Proprio il ragionamento di Ferraris qui mostra bene il fine con cui luomo ha cercato di scrivere la parola: il fine della parola scritta è la fissazione della permanenza per la sua ripetizione. Il fantasma della scrittura è la serie, larchè della scrittura è il numero (150). Come già avvenuto innumerevoli volte nella storia della filosofia, qui i passaggi impliciti sono due: dal linguaggio alla scrittura e dalla lettera al numero. Diciamo linguaggio ma ciò che pensiamo e di cui stiamo parlando non è affatto il linguaggio, ma il numero. Luomo, che come Ferraris stesso dice, è emerso nel linguaggio, tuttavia ha inventato la scrittura, ovvero cercato di delimitare e circoscrivere ciò che del linguaggio poteva corrispondere ad un valore duso. Noi utilizziamo la scrittura come strumento di registrazione e misurazione della permanenza, ovvero come sistema numerico ma il linguaggio accade come parola, qui rimane levento del linguaggio e la differenza tra il linguaggio come accade e il nostro uso e il nostro progetto duso del linguaggio. La parola è un cattivo strumento di registrazione, e infatti la filosofia da subito lha dichiarata inutile [6] e nel tempo labbiamo sostituita con quella tecnologia che si chiama numero il numero è la tecnologia del linguaggio ma la parola rimane e non si esaurisce nel valore documentale del numero. Nella parola rimane la differenza tra uomo (spazio della tecnologia) e linguaggio (luogo della parola), ovvero la provvisorietà della parola delluomo, la differenza tra parola e linguaggio, e la sua espressività: la parola parla, non registra solamente, e nel parlare della parola rimane laltro parlare del linguaggio. Quella soggettività che abbiamo tolto dalla tecnica non possiamo toglierla dal linguaggio, il riconoscere ciò che si ripete nella traccia è essa stessa una eco dellessere già parola della parola, del suo parlare, del parlare daltri nel linguaggio.
Questa alterità appare bene quando Ferraris attribuisce la rivoluzione del web allescalation della potenza di calcolo, allescalation della capacità di documentare e archiviare, ma non coglie il fatto che dietro questa potenza di calcolo cè il passaggio della natura del linguaggio da parola a numero, ovvero ancora una volta la negazione della differenza tra linguaggio e linguaggio della tecnica. Non avrebbe alcun senso né avrebbe prodotto questeffetto la sola escalation di una potenza di scrittura, di informazione, ciò che avrebbe dovuto essere il web per i suoi fondatori. Fintanto che rimaniamo in questambito, il web è solo Wikipedia, solo infosfera, ovvero nulla che riguardi quella capitalizzazione di atti e quellautomazione della produzione che bene descrive Ferraris (61) (Resta tuttavia anche da ricordare come questo tentativo di Ferraris di disperdere linformazione nella quantità della documentazione, di annullare la logica del processo nella sua materialità, non cancella la loro relazione funzionale: senza lesito, pur minimo, dellinformazione, la documentazione per sé è inutile, senza la scrittura consapevole e arbitraria di un algoritmo la massa sterminata di dati non serve a nulla). Perché il web non è solo infosfera? Perché il web è la produzione automatica di quella forma peculiare di parola, di quel progetto di parola, tutto umano, che si chiama numero, che assume la forma apparente di una non-parola, perché parte del tentativo di cancellare la parola che da sempre anima il pensiero metafisico, il tentativo di pensare la presenza, la permanenza della cosa nella sua immediatezza, certezza, univocità e non a caso il web corrisponde, è esso stesso nientaltro che un processo di digitalizzazione della realtà, ovvero di trascrizione della parola in numero, dove questultimo passaggio è quasi inapparente perché è solo un compimento che già presuppone quello della parola in scrittura, della cosa in oggetto, del reale in rappresentazione, del linguaggio in informazione. Il numero è il linguaggio della conoscenza come scienza, che in questo senso e heideggerianamente deriva dalla tecnica, intesa come pratica duso del linguaggio. La scienza è solo il testo scritto dal linguaggio della tecnica, e per questo emerge da quella lentamente, progressivamente e limitatamente rispetto al ben più vasto comportamento della tecnica (382).
Il passaggio dalla parola alla parola-numero come ripensamento del linguaggio in linguaggio della tecnica appare evidente nel momento in cui la ricostruzione antropologica dellemersione del linguaggio e della sua funzionalità viene ricondotto da Ferraris al circolo di registrazione, manipolazione, rielaborazione, ripetizione, dove il gesto di fondo che tiene insieme tutto questo processo è proprio la numerazione. Solo nel momento in cui la traccia diventa unità di una serie prende avvio il processo, la traccia diventa segno, registrazione di un inizio, di una particolarità emergente, quindi il suo significato emerge nella relazione a una serie di significati analoghi, quindi lanalogia tra elementi simili apre la possibilità di scegliere e modificare laspetto e la funzione di qualcosa sulla base di un fine astratto, sulla base del concetto che lega la serialità, quindi la ripetizione assume la forma della strumento atto alla ripetizione ovvero oggettiva la forma delluso seriale in una tecnologia che aumenta il valore dellagire umano. Qui si mostra anche la relazione intrinseca tra tecnologia e economia, che si esplicita nella capitalizzazione del valore, ovvero la capacità del numero di fungere da misuratore del valore di ogni cosa: moneta ( nomisma), come aveva mostrato già Aristotele [7]. Ma nulla di tutto questo avviene nello spazio aperto che sta tra uomo e parola: avviene invece allinterno di quello spazio, circoscritto dalluomo, che è lo spazio del numero. Per questo è direi universalmente riconosciuta e rimane sempre irrisolvibile una duplicità del linguaggio: da una parte ciò che nel linguaggio non è delluomo, e dallaltra ciò che luomo fa del linguaggio. Il fatto che, dal punto di vista delluomo, tutto possa essere riscritto allinterno della sua parte, come per esempio fa Ferraris, con un pensiero potente ma del tutto interno a ciò che Heidegger ha individuato nel proprio del discorso metafisico, questo può nascondere, ovvero cancellare ai nostri occhi, tuttavia non dissolvere ciò che nel linguaggio non è funzione di alcun significare. Certo, che la filosofia debba, pragmaticamente, riprendere al più presto la via di un pensiero funzionale e tralasciare come perdita di tempo e vana chiacchiera tutto il resto, questo è perfettamente legittimo e corrisponde al compimento della filosofia come scienza, a cui da tempo essa stessa lavora. Rimane la possibilità, per i fannulloni e i perditempo, di indulgere nel trauma della domanda.
5. La tecnologia è unutopia
Nonostante i successi raggiunti dal progresso, infatti, grazie ai quali quel disadattamento iniziale si può dire del tutto colmato e lanimale disadattato è divenuto ur-predatore e ha conformato lintero globo a proprio ambiente di vita, inspiegabilmente ci sentiamo sempre al punto di partenza. Heidegger, che nonostante quello che molti pensano non era un ingenuo passatista, non sminuisce mai, anzi mette bene in evidenza i benefici della modernità, e al tempo stesso il paradosso per cui questi stessi benefici non sanno produrre il progresso, il passo avanti ( Fortschritt) che prospettano.
Progressività come forma fondamentale dellesser-uomo storico. [...] Alleggerimento dei rapporti di vita, miglioramento delle condizioni di lavoro, abbellimento (partecipazione di tutti ai beni culturali), ampliamento della vita umana, conquista crescente del mondo e dominazione della natura. La massima felicità possibile per il maggior numero possibile di individui. Progresso, landare avanti dellammaestramento della vita in direzione delle cose desiderabili? [...] Tecnica moderna come progresso verso la progressività concorrenza, corsa allacquisto, allutile [Wettbewerb, Erweb, Ertrag, che nellottica di Ferraris si possono tradurre: lotta per la sopravvivenza, accumulo, raccolto, ovvero capitalizzazione]. [...] [Ma] il progresso non è progresso, ossia: nellessenza, la progressività come desiderabilità non conduce affatto luomo più in là. Non accade questo, né vi è un mutamento dessenza; a ben vedere, invece, il compimento definitivo di uno stato essenziale [Wesensstandes, di una condizione essenziale, di uno stare in posizione eretta]. Animal rationale [8]
Allora Heidegger qui, non solo coglie già lessenza del valore economico della merce nellaccumulo, nella capitalizzazione, nella disponibilità di ciò che è desiderabile, ovvero nel consumo, ma innanzitutto pensa luomo come questo movimento dallanimale al tecnico ciò che Ferraris dirà: dallanimale allautoma. Con la differenza sostanziale che Heidegger vede da subito questo movimento come apparente, o meglio come un potenziale che rimane sempre in sé, che si compie annullandosi. Luomo è sempre sul punto di diventare qualcosa di altro, ma non riesce mai a farlo. Cè qualcosa che sembra non progredire mai, cè sempre qualcosa che rimane avvenire (150). Cè qualcosa che non riesce ad accumularsi nella reiterazione, a capitalizzarsi, è come se questo processo producesse al tempo stesso un valore e un disvalore. Il problema è che nella tecnologia qualcosa si crea e qualcosa scompare. Nella tecnologia che è innanzitutto tecnologia del linguaggio scompare il linguaggio, ovvero, come detto, la tecnologia utilizza il linguaggio come numero. Bisognerebbe ricostruire la storia di questo uso e interrogarsi sulla possibilità o limpossibilità di spezzare il discorso della tecnologia: la parola come riconoscimento di una traccia, la scrittura come tecnologia delle tracce, il passaggio dallunicità alla serie, dalla parola al numero, dal linguaggio alla tecnologia. Ma, in ogni caso, qualcosa qui scompare: innanzitutto la cosa più ovvia, la parola. (La dimensione infantile della parola, il suo avvenire dal linguaggio, è certamente ciò che ora non ha più alcun senso. Esattamente come luomo senza tecnologia del discorso di Ferraris, la parola senza scrittura è lirrilevante letteralmente, ciò di cui non è rimasto traccia, ciò che non è stato riconosciuto, rilevato come traccia e dunque significato nel discorso. Quindi il discorso sulla parola si chiude qui tralasciando il fatto, direbbe Wittgenstein, che il linguaggio avviene nella parola). Il linguaggio digitale, ovvero il progetto di superamento del linguaggio nel numero, è il contesto in cui tutto il linguaggio viene tradotto in linguaggio della tecnica ovvero in documento. Questa rivoluzione documediale di cui parla Ferraris non sarebbe potuta accadere senza la digitalizzazione del linguaggio ovvero la scomparsa della parola: la digitalizzazione è il compimento del progetto metafisico di cancellazione della parola, la sua sovrascrittura numerica. Un processo inapparente, perché illusorio, ma sostanziale. Non a caso noi continuiamo a parlare in termini falsi del web e del digitale come realtà immateriali, mentre il supporto materiale del linguaggio digitale continua ad esistere e il suo costo in termini di produzione e mantenimento è tuttaltro che trascurabile e non sfugge al secondo principio della termodinamica, a differenza di quanto pensa Ferraris, al punto che già è evidente quanto la rivoluzione digitale non sia affatto materialmente sostenibile, e dunque abbia un limite concreto che rende utopica la prospettiva della totalizzazione del processo documentale ma è spostato altrove, e nascosto allinterno della macchina il disco fisso, che continua a girare, a ripetere, a sovrascrivere. La differenza tra scrittura e sovrascrittura è cruciale: la scrittura è lesito di un evento conserva ancora una relazione con il darsi della parola mentre la sovrascrittura è la sua cancellazione, che inizia con lassunto che ciò che rimane dellevento, la presenza che permane, è il tutto, è lente presente che possiamo trattenere, rendere ripetibile e manipolabile, ed avremo prodotto quel valore che ci serve. La scrittura è ancora la seconda volta, è la ripetizione approssimativa di una prima volta irripetibile ma pur sempre vicina, mentre la sovrascrittura è già la numerazione allinterno di una serie infinita, di cui linizio è perduto. Nella sovrascrittura numerica, la parola non cè più, e nemmeno la sua traccia. Questo è evidente nel momento in cui lambiente fisico e a maggior ragione virtuale che ci circonda assume interamente laspetto dellartificiale, ovvero rimanda solamente allesito tecnologico e nasconde la sua origine.
Ferraris offre uninteressantissima lettura di questa dialettica uomo/macchina inscrivendola, coerentemente a tutto il suo impianto, nellaltra dialettica: quella animale/automa. La differenza che Ferraris stabilisce tra anima e automa, il primo come organismo vivente, soggetto alla irreversibilità della morte e mossa dalla necessità di ritardare tale esito, dalla volontà di durare, di continuare a vivere, e il secondo come meccanismo, come processo che non ha una finalità interna, ma tende (ad essere costruito per) una reiterazione infinita e perfetta dello stesso atto, alla produzione di un valore temporale, di un utile nei termini di una sostituzione, di una alienazione del lavoro (trasferimento del lavoro dalluomo alla macchina) dellorganismo che lo ha ideato (112) questa perfetta specularità si incrina laddove anche lanima è abitata da unalterità che non si riduce alla sua finalità interna (questanima è il linguaggio), e dunque nemmeno si lascia porre come finalità automatica di alcun meccanismo, non diventa mai oggetto del dotarsi di mondo, della potenzialità dellagire del soggetto, ma rimane presso di sé, nellapertura del suo darsi. Questa è la ragione per la quale non tutto il fare, non tutto il poein umano è tecnologico, ma rimane sempre un poetico che non possiede alcuna finalità interna, che non si costituisce come processo (e dunque conserva sempre una netta distinzione tra originale e riproduzione, tra evento e serie, tra senso e valore, tra armonia e economia), che non produce alcuna alienazione, ovvero che rimane del tutto inutile, inutilizzabile, inalienabile qualsiasi riduzionismo e mercificazione dellarte sono certamente possibili come tentativo di riappropriazione dellalterità nelleconomia di vita dellorganismo, tuttavia non sono mai compiuti, rimangono sovrastruttura, altrimenti larte semplicemente cesserebbe di esistere.
Animal rationale: vaste programme delluomo come sinolo di animale e automa (114), in cui luomo si configura non come essenza ma come intersezione tra i due insiemi. Questa intersezione si costituisce differenziandosi dalluno e dallaltro: come la morte è ciò che appartiene allanimale uomo nella sua differenza dallautoma, così la tecnologia è ciò che appartiene alluomo nella sua differenza dallanimale. Tuttavia questo sistema non è statico, infatti luomo è già un animale ma non è ancora un automa, ovvero cè un movimento di un insieme rispetto allaltro: dunque ciò che emerge non è luomo ma è lautoma, ovvero non è luomo che emerge dallanimale, ma è lautoma che emerge dallanimale ciò che si crea, si produce come differente dallanimale è lautoma, mentre ciò che rimane comune ai due è luomo: luomo è lemergere dellautoma dallanimale. A questo punto, però, se delluomo in sé non ne è più nulla, al tempo stesso riemerge una soggettività della tecnica, simile a quella presente nellontologia metafisica, ovvero quella che si era cercata di cancellare riportando il discorso al mero processo materiale. In un passaggio ricco di suggestioni ma anche di ambiguità, Ferraris scrive: Nato dalla convergenza tra un'anima debole e soggetta a un corso irreversibile e un automa capace di iterazione e relativamente più duraturo, l'umano sorge sin dall'inizio come un sistema tecnosociale, i cui fondamenti vanno cercati nel nostro passato di pure anime, ma il cui vero inizio ha luogo solo nel momento in cui abbiamo incontrato i primi automi (116). Qual è la soggettività di questi automi? E dunque, in ultima istanza, qual è il soggetto di questo discorso? Il problema è che non possiamo ricorrere né allautoma in sé né allanimale per rispondere a questa domanda, dal momento che lautoma, abbiamo detto, non possiede una propria finalità interna, è una potenzialità infinita ovvero è ciò che è messo in movimento verso un infinito, ma anche luomo non è nulla in sé altrimenti torneremmo alla sua oggettivazione ma è la sovrapposizione transitoria che si genera nella differenziazione di animale e automa, è ciò che emerge nel momento in cui un animale si pensa come potenziale automa, nel momento in cui un animale pensa la possibilità di superare la propria finitezza mortale risolvendo se stesso in un processo di automazione infinita. Allora? Allora cè un energheia dentro questo movimento. Questo movimento ha un senso, una direzione tra ciò che è e ciò che ancora non è. Lenergia di questo movimento è questa differenza, è: la questione dellessere il linguaggio. Da questo punto di vista, certo, il linguaggio è tecnologia, ma nella prospettiva di ciò che luomo, nel suo movimento oltre lanimale, guadagna dal linguaggio e al tempo stesso il linguaggio è natura (morte, finitezza, limite, alterità) nella retrospettiva di ciò che lumano rimane nel linguaggio, rimane come radice inestirpabile da cui non riesce a sciogliersi mai, tale per cui questo movimento per quanto tensivo non giungerà mai a compiersi in una separazione tra le due parti, tale per cui questo movimento è ciò che permane, ovvero, questo movimento, colto dal punto di vista del processo, è il soggetto metafisico (115).
Il fine metafisico della tecnologia è dunque il valore infinito, ovvero la pura reiterazione, ovvero limmortalità come trasformazione dellanima in automa la doppia morte hegeliana (113). E qui finalmente appare bene la figura della scrittura come tecnologia del linguaggio ovvero meccanismo per la reiterazione o superamento della morte nella duplicazione della morte: e si mostra bene che lessenza della scrittura come tecnologia del linguaggio, come meccanismo di segni ripetibili, non è la parola ma è il numero. La dialettica tra la morte (fine) dellorganismo e linfinito del meccanismo si rispecchiano nella scrittura del numero, ma non nella parola del linguaggio. E infine si rivela il significato dellaffermazione il linguaggio è una tecnologia: ovvero si mostra la volontà di fare del linguaggio, proprio della sua provenienza naturale, loggetto della tecnologia.
La scienza come compimento della filosofia consiste proprio in questo: che lesito della conoscenza non sia più nemmeno la mediazione del significato, la rappresentazione, ma un quantum, un fatto ipotetico, ideale (149), un reale irrappresentabile al di fuori della macchina, fuori dallacceleratore di particelle o fuori dallalgoritmo dei server (103). Ma lerrore, lillusione epistemologica implicita è che il fantasma del numero sia lanima non vivente della macchina illusione che non coglie lunivocità della segno oggettivante, la chiusura che esso opera in relazione al darsi del linguaggio, allinfanzia del linguaggio: più reale della realtà è il trauma del caos, lessere sorgivo, la parola. Per quanta certezza raggiunga la realtà dellideale, e certamente il processo scientifico lavora per un miglioramento continuo di questo gradiente, il suo fondamento manca. Se il senso è solo retrospezione che produce senso, allora loggettivazione, la neutralizzazione del senso è solo inversione astratta di quella retrospezione, è solo una rappresentazione ribaltata dove il senso è astratto e poi rispecchiato nella sua origine, è la produzione di un circolo che assume la forma dellannullamento, del vuoto di senso. Nella sua coerenza e limpidezza, proprio il discorso di Ferraris, che è tutto un discorso sul linguaggio, ne è un chiaro esempio: dire del linguaggio in quanto cosa fortuita è una rappresentazione volutamente insignificante, ovvero unastrazione possibile solo a partire dallesistenza irrevocabile del linguaggio. È solo unamnesia, una rimozione volontaria o involontaria. E da questo punto di vista, la svolta heideggeriana verso lapertura del senso, lessere estatico del pensiero, resta un gesto del pensiero ben più radicale, perché cerca di guardare direttamente la luce, non di agire sulla retrospezione ma di orientarsi verso la provenienza: non di oggettivare il limite annullandolo come limite ovvero: il senso è un emergere fortuito, un fatto, un ipotesi di senso ovvero in ultima istanza non-senso ma di interrogarlo in quanto limite domanda sullessere.
6. Il mito dellautenticità
Uno degli esiti di più vasta portata della ricostruzione di Ferraris dellintelligenza (o spirito) come processo combinatorio, gestaltico e involontario (142) è la scomparsa della dimensione magico-pentecostale, come la chiama Ferraris (144), ovvero mitologica, e con essa innanzitutto del mito fondativo delluomo, luomo autentico pretecnologico (99) che poi sarebbe stato corrotto dalla tecnologia. Ferraris è giunto qui attraverso diversi passi: non è possibile distinguere uomo e tecnologia, non è possibile distinguere linguaggio e tecnologia, non è possibile distinguere linguaggio e scrittura, quindi non esiste più nessuna preistoria e nessuna infanzia delluomo. Tutto l'uomo è tecnologico, certo, nella misura in cui tutto il reale è iterazione, memoria materiale. Credo tuttavia che qui Ferraris sottovaluti la natura del mito, ovvero la capacità del mito, ineguagliata da qualsiasi altra dimensione delluomo, di assegnare e consegnare lorigine del mondo fuori dal mondo, alla parola. Cerco di spiegarmi riprendendo il discorso di Ferraris: perché lo strumento che incorpora il lavoro morto riducendo il lavoro vivo (145), che lo capitalizza, trattiene anche una parte del vantaggio generato dal processo, che come tale non è più a disposizione delluomo se non attraverso lo strumento. Ferraris insite ripetutamente sul fatto che luomo è padrone della tecnologia perché la tecnologia ha solo lo scopo che lorganismo le ha dato, tuttavia non riflette, non tanto sullautonomia che la tecnologia avrebbe assunto, quanto su quella che luomo ha ceduto (che Ferraris liquida con ironia parlando di vittimismo e pigrizia, ma lironia non basta): se ora tutti gli uomini volessero riscattare il valore che hanno capitalizzato nelle macchine, anche a costo di disperdere tutto il plus valore generato, non potrebbero farlo, non riuscirebbero più a farlo, perché non si è trattato di un solo trasferimento meccanico e algebrico, ma della perdita di una parte della propria soggettività, che ora costituisce, seppur in modo ambiguo, unaltra soggettività o perlomeno una non soggettività umana. Per tutto il libro Ferraris motteggia sul fatto che le macchine sono costitutivamente dei supplementi e qualsiasi loro attribuzione di potere o volontà, quindi soggettività, è assurda. L'evidenza di ciò è pari all'evidenza di altre constatazioni indistinte come: domani gli uomini potrebbero abolire il denaro, potrebbero abolire le guerre, potrebbero decidere di parlare solo attraverso il linguaggio dei mimi. Ed è strano che Ferraris non rilevi che il supplemento di soggettività accumulato dalla tecnologia è un esito esattamente di quel processo di capitalizzazione che egli stesso descrive: ovvero del fatto che un processo materiale non è mai completamente reversibile. Dopo essersi spinto a ricostruire addirittura la nascita della soggettività umana in termini meramente combinatori, Ferraris dovrebbe essere lultimo a stupirsi del fatto che un processo combinatorio, dotato di una potenza di calcolo e quindi di isteresi elevatissimo, senza pari nella storia, possa far nascere da sé significati e scopi, esattamente come avvenuto nel processo evolutivo umano. Ferraris risponderebbe: ma la macchina non ha un fine, perché non è un organismo destinato a morire, non ha bisogno di guadagnare tempo. Ma ne siamo certi? Una emergente sensibilità ecologica ci insegna che nessuna risorsa è infinita, infatti anche il nostro pianeta è, lo si dice spesso, un unico organismo e proprio da un sistema di calcolo su scala globale potrebbe emergere la consapevolezza della necessità, del bisogno di gestire il rapporto tra tempo e risorse in modo consapevole: si tratta di iperbole, di esagerazioni, ma servono per mostrare i cortocircuiti del materialismo sotteso al ragionamento di Ferraris.
In altri termini: perché con la figura mitica anch'essa dell'uomo tecnologico rimane intatto il mito delluomo autentico? Perché, retrospettivamente, con il processo di capitalizzazione nasce anche la memoria, ovvero la dimensione mitologica di quel momento in cui luomo era in equilibrio, stava insieme simbolicamente, da symballein con il suo strumento, il momento in cui lo aveva già investito di un senso ma ne era ancora depositario, in cui il suo uso era interamente revocabile: certo un momento fugace, possiamo anche dire immaginario tuttavia necessario, in assenza del quale noi dovremmo assumere lessenza iniziale della tecnologia come assoggettante lumano se non è esistito almeno un istante in cui lo strumento è stato assunto dalluomo come strumento, riconosciuto ovvero determinato come strumento, allora la nascita della tecnologia non è più insieme alluomo ma è fuori e sopra luomo: lo strumento alla fine qui sarebbe luomo. La forza che contiene la tecnologia dallassumere progressivamente in sé tutta la soggettività è il mito, ovvero linterruzione della capitalizzazione e la nascita della memoria: memoria non è infatti la registrazione di tutto, ma la dimenticanza di tutto ciò che precede lultimo ricordo, il raccogliersi dellesistenza nelloblio, nellindicibile, nel mito. Dunque quel momento mitico di coappartenenza, di cogenerazione deve esistere, e rispetto a quel momento passato luomo, che ora non può più rivendicare un pari potere rispetto alla tecnica, che ora ha ceduto alla tecnica, ha capitalizzato nella tecnica molto più di quanto gli serva per rispondere al suo bisogno di adattamento e dunque non è in grado di riscattarne interamente il valore rispetto a quel momento ora luomo è meno uomo. Il mito delluomo autentico è il mito delluomo che ha creato uno strumento utile a portalo oltre il suo ambiente, nel mondo quindi un uomo già tecnologico, certo, ma in un rapporto ancora simmetrico con la tecnologia, tale per cui il valore creato era contemporaneamente in entrambi, nelluomo e nello strumento, nelluomo con lo strumento. Dal momento in cui progressivamente, tutto il valore si capitalizza nello strumento e luomo ritorna ad essere, senza strumento, completamente disadattato anzi forse ancora più disadattato di prima, allora luomo diventa la parte debole di questa relazione, e necessariamente nasce il passato, il ricordo, il mito delluomo autentico.
Cè sempre un mito una parola al fondamento del discorso. Quello di Ferraris è il mito del fondamento mimetico, in questo confortato (o forse sconfortato) dal fatto che è lo stesso di tutta la metafisica occidentale (374, nota 13). Ma come il pensiero imita lessere? Questa domanda non ha risposta, o meglio tutto il discorso metafisico è la ricerca di questa risposta. Resta che limitazione non ha ancora trovato fondamento. Perché non è possibile uscire dal circolo del senso (152, 375), nemmeno invertendo il senso (anima) del circolo nel processo (automatico) del non-senso. Allora, certo, ha ragione Ferraris, non si tratta di trovare un atto originario, una causa, ma nemmeno di sovrascriverlo e così dimenticarlo: si tratta di riconoscere un ambito primitivo dobbiamo dare un nome a questo luogo? possiamo approssimarlo con un nome? possiamo accettare il nome di chi ha già provato a pensarlo? Per esempio, Lichtung una circostanza, allinterno della quale il circolo si dà in quanto circolo, e la parola parla.
7. In conclusione
I tentativi in corso di fare i conti con Heidegger, al di là dei diversi approcci teoretici, credo abbiano un tema in comune, il fatto cioè che il problema Heidegger sia diventato soprattutto un problema di prassi: posto che non esiste, in Occidente, una filosofia che non si misuri con lagire, anche il problema del pensiero heideggeriano sembra perdere lentamente quella forza che lo sospendeva in sé, per ridimensionarsi accanto alla domanda ma quale pratica inaugura?. Così sembrano assumere rilevanza innanzitutto le risposte che Heidegger diede in vita, prima con unambigua adesione o uningenua incomprensione dellideologia nazionalsocialista e poi con un passaggio al bosco, un inconcludente romitaggio nella sua Foresta Nera: e in entrambi i casi la prassi heideggeriana assume i contorni dellimpraticabile. Ma anche quando si cerca un confronto teoretico con il suo pensiero, esso ora si pone nella domanda: ma il pensiero di Heidegger oggi è praticabile?
La risposta è senzaltro: no. Ma questa risposta rischia di essere un profondo fraintendimento del pensiero di Heidegger e della sua portata storica se non coglie la consapevolezza, interna al pensiero heideggeriano stesso, della sua dimensione fallimentare. Il pensiero di Heidegger attraversa esplicitamente due sconfitte: quella dellanalitica esistenziale che tenta di risolvere il problema dellessere colto sul piano dellesistente concreto, ma rimane incompiuto perché insufficiente, conchiuso nellambito individuale di una decisione anticipatrice, e quello che tenta di risolverlo sul piano storico e politico ma naufraga nel dramma della Germania nazionalsocialista e nella distruzione dellEuropa nella seconda guerra mondiale. I commentatori che ridimensionano il secondo tentativo riparando sul primo, dimenticano due problemi: il suo carattere non solo incompleto ma chiaramente preparatorio, e il permanere, anche rifiutandone la lettura heideggeriana, del problema storico in sé, i cui caratteri totalizzanti e alienanti individuati da Heidegger si sono, se possibile, ancor di più radicalizzati il problema dellalienazione della società industriale di massa, delluomo nella mobilitazione totale. A questo si aggiunga il fatto che laltro pensiero critico, quello idealista e dialettico materialista, ha condotto a esiti, sul piano non solo storico ma anche culturale e politico, non certo migliori. Esito di questa empasse è che quel pensiero che veniva criticato per il suo passatismo, il suo conservatorismo reazionario, rimane lunico strumento di critica del reale, mentre i suoi detrattori assumono posizioni di giustificazione e normalizzazione del presente.
La questione della tecnica si sviluppa in più momenti nel pensiero di Heidegger, e in alcuni sicuramente assume tinte fosche e quasi apocalittiche che vanno ridimensionate. I tentativi in questo senso, come quello di Ferraris, per una comprensione del nostro rapporto con la tecnica e delle trasformazioni che essa genera nel divenire umano, sono salutari. Tuttavia non devono ribaltarsi in quel fideismo scientista che nasce da una chiusura della domanda filosofica, di cui invece Heidegger ha saputo essere interprete e proprio nella misura in cui, in definitiva e al di là degli accenti suddetti, nel suo pensiero non è mai la tecnica il problema, ma quale umanità si compie nella tecnica:
Nessun calcolo e nessun dominio della ragione, bensì un determinato impulso: lammaestramento del mondo come volontà di potenza e la rivendicazione del dominio su tale ammaestramento. Il che poi significa: condurre al dominio unaltra forma di umanità. [9]
Heidegger concorda con Ferraris: dietro la tecnologia non cè la ragione, ma un impulso. E lammaestramento del mondo come volontà di potenza è esattamente quello che Ferraris descrive in termini di adattamento del mondo in vista della propria fine organica. Ma ora si tratta di decidere: questo rapporto è un dominio? Latto manipolatorio [10], la forma tecnologica del nostro incontro con la natura sono loriginario delluomo? Inizia qui quel nulla a cui stiamo riducendo lente? Quando diciamo che tutto luomo è tecnologico e tutta la ragione è isteresi della materia, e crediamo in questo di aver dissolto il mito della soggettività, non abbiamo fatto di questa nullificazione la sostanza della realtà? Non scompare in questo momento la consapevolezza della natura dativa delluomo, non il sogno del suo emergere auto-nomo, automatico dalla tecnologia, il sogno dellautoma, ma il suo provenire dal linguaggio?
Dunque ancora e per lappunto il subjectum! Poiché il subjectum è così, allora la fede nel progresso è la forza decisiva della mobilitazione totale nel suo dispiegarsi come potenza metafisica. Ma allora è altrettanto necessario rinunciare alla fede nel progresso come visione del mondo, poiché viene richiesta unaltra umanità che abbia un rapporto essenziale con lelementare. [11]
Però questo Heidegger lo scrive tra il 1936 e il 1940: questo ambiguo e generico rapporto essenziale con lelementare è il secondo fallimento del pensiero di Heidegger. Quando cerca di ripropone sul piano storico, ovvero collettivo e politico, ciò che aveva tentato con Essere e Tempo, egli approda infatti ad un esito ancor più radicalmente fallimentare: il tentativo di opporre al destino nichilistico di autoannullamento della società industriale, ad una società che si compie e ai annulla nella mobilitazione tecnica totale, la possibilità di un indefinito ritorno ad un ethos dal fondamento comunitario e rurale. È in questa ipotesi storica che assume un senso pregnante labbaglio del nazismo, da cui Heidegger a posteriori si ravvede, ma la cui possibilità rimane del tutto coerente al suo pensiero. Heidegger si è certamente illuso che il nazismo fosse qualcosa di diverso da ciò che è stato, ma il nazionalsocialismo immaginario di Heidegger, il destino del popolo tedesco allinterno della storia dellessere, rimane una possibilità del suo pensiero.
Questo doppio fallimento è la preziosa eredità del pensiero heideggeriano, fraintesa da chi giudica il suo esito senza pensarne la forma errata, da chi ritiene il pensiero heideggeriano superato o da superare, senza assumere la sua natura di un pensiero fallito, ma fallito perché pensiero di un fallimento: pensiero del nichilismo dellOccidente il fatto che ciò che stava all'inizio dell'Occidente sia finito e che in questa fine l'Occidente si stia compiendo come globalità tecnologica questione che sarà possibile derubricare nel momento in cui, non più la scienza, ma la filosofia riuscirà a pensare il nostro tempo in termini non nichilisti.
Forse allora, in ultima istanza, forse si tratta di provare a riflettere proprio sullesito atarassico del pensiero heideggeriano il silenzio vuoto di Baldino. Forse varrebbe la pena riflettere sullindicazione che Heidegger ha sempre attribuito a questo silenzio, perché ora non cè più nessun passo avanti da fare, piuttosto un passo in un'altra direzione, ovvero cercare di comprendere che cosa si compie, che cosa si realizza dellessere uomo che la nostra storicità ha determinato, quella configurazione planetaria che ora si dispiega di fronte a noi.
Note
[6] Platone, Cratilo, 438d.
[7] Aristotele, Etica Nicomachea, 1133b.
[8] Martin Heidegger, Annotazione su Ernst Jünger, in Ernst Jünger, Bompiani, Milano, 2013, pp. 283-285.
[9] Ivi.
[10] Al riguardo, stupende e degne di una trattazione a parte le pagine di Massa e potere di Elias Canetti, Adelphi, Milano, 1981, pp. 253-262.
[11] Martin Heidegger, Annotazione su Ernst Jünger, in Ernst Jünger, op. cit. p. 287.
Edwin Smith Surgical Papyrus, Recto column 5 (Cases 9-12)
|
|