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Qual è il sentimento veramente etico?
di Marco Baldino

28 aprile 2014 - 16 giugno 2016



CONSENSO UNIVERSALE E ILLICEITÀ MORALE

Non esiste nessun caso di consenso universale. In verità l’assunto di Roberta De Monticelli: «L’ultima parola della coscienza personale [?] non può essere scritta in forma di legge di uno Stato in tutti i casi in cui non c’è consenso universale sull’illiceità morale di determinati comportamenti» (“Repubblica”, 25 gennaio 2009), andrebbe riscritto, credo, nel modo seguente: l’ultima parola della “coscienza personale” non può essere scritta in forma di legge di uno Stato in tutti quei casi in cui la “stragrande maggioranza” dei cittadini (persone, opinione pubblica) non conviene sull’illiceità morale di determinati comportamenti.

Ora, tale maggioranza, per quanto grande, o stragrande, non comprende me che considero moralmente lecito ammazzare le professoresse. Lecito? Ma questo è relativismo morale, magari sancito dallo Stato! Forse si potrebbe dire che mi sento “libero”, in fondo alla mia coscienza personale, di ammazzare le professoresse. E infatti lo Stato tenta di legare la coscienze personali con leggi, limiti, controlli, interdizioni, punizioni, oppure, in ossequio alla superiore panscopia dell’approccio gesuitico, lasciando che il catechismo, la persuasione attiva, la vigilanza severa e discreta di un occhio che sorveglia la coscienza dall’interno, si mettano al posto della legge.

Lasciar fare alla coscienza personale è invece, lo dobbiamo ammettere, mero relativismo morale. Sicché la forbice non è tra moralità e teocrazia, tra moralità e ingerenza statale, la forbice è tra relativismo e catechismo o, per dir meglio, tra arbitrio e norma. Il problema non è: se non c’è accordo universale allora la coscienza (personale) è legittimata a fare da sé, perché l’accordo universale non c’è mai; il problema, semmai, è fino a che punto l’arbitrio del singolo è in grado di agire senza scatenare nella comunità una reazione normalizzatrice.

Tale problema, per essere sdipanato, richiede l’ausilio della termodinamica degli stati stabili: qual è la soglia oltre la quale l’agire “arbitrario” del singolo non scatena nella comunità una reazione normalizzatrice? È un problema di intelligenza della prassi concreta. Tagliata fuori la moralità, perché non si tratta di un agire secondo il massimo bene di tutti, ma secondo il bene proprio per quanto possibile, rimane la questione del rapporto tra la comunità normativa da un lato e il singolo eccedente dall’altro.

Vi sono quindi due specie di approccio, quello di coloro che vorrebbero spuntarla in linea di diritto (destinati allo scacco, lo vedremo infatti con la legge sul testamento biologico) e quella di coloro che sapendo che il diritto è dalla parte dello comunità normativa, dello Stato, della Chiesa, che Stato e Chiesa tendono a regolare l’ultima parola della coscienza personale proprio perché sanno che l’universale è una mera finzione, vorrebbero spuntarla in linea di fatto. Si tratta, per questi ultimi, di sfruttare le zone d’ombra del diritto, di rendersi possibili gesti di libertà prima che la comunità normativa (per esempio perché non ha ancora sviluppato certi strumenti normativi) possa reagire degradando la libertà ad arbitrio e sostituendovi un sistema di regole che viene sì detto “vera libertà”, ma che nella sostanza non è che libertà normalizzata.

Il problema andrebbe infatti così riformulato: l’ultima parola della “coscienza personale” è una parola libera solo fintanto che una legge dello Stato, o un determinato dedicarsi alla cura dell’anima, non intervengono a riportare quell’arbitraria libertà nell’alveo di una normale liceità. In quest’ottica si valuta l’efficacia.

In assenza di regole certe è più sensato basarsi sulla pietà di un medico — dico per fare un esempio — piuttosto che battersi per avere regole certe.

Più grande della regola a tutti comune è l’irregolare compassione del singolo per il singolo — irregolare, appunto, senza cioè doversi spingere fino a cercare una radice metafisica di questo sentimento.


IMPULSI E CONCETTI

In ogni caso è certo che Schopenhauer pone la compassione a fondamento della morale, perché scrive: «il quotidiano fenomeno della compassione, cioè della partecipazione indipendente da ogni altro riguardo, [del singolo] alla sofferenza di un altro [singolo] e con ciò all’impedimento o annullamento del dolore» è il primordiale fenomeno dell’etica, anche se è chiaro che egoismo e malvagità sono impulsi altrettanto fondamentali e determinano l’agire ben più della compassione. Ma solo la compassione è fondamento della morale, ovvero del principio neminem laede, imo omnes, quantum potes, juva [non danneggiare nessuno, anzi per quanto puoi aiuta]. La compassione è per Schopenhauer «il grande mistero dell’etica, il suo fenomeno primordiale». E con ciò voglio anche dire che in Schopenhauer il rapporto tra pulsioni e concetti è un po’ incartato.

Nietzsche ha risolto questo problema considerando l’evoluzione (divenire) come l’unica cosa che è. L’intelletto interpreta le pulsioni e le può comprendere perché intelletto e pulsioni sono fatti della stessa materia. Non c’è mediazione, non c’è la mediazone della rappresentazione, i concetti sono a loro volta delle forze, anche se molto meno efficaci. Nietzsche fondava la morale dell’oltreuomo sull’evoluzione degli aggregati di pulsioni; diceva che la coscienza, come l’intelletto, è sì un prodotto di tale evoluzione, ma molto più antico e quindi molto più esperto, quindi molto più capace di orientare l’agire, che è sempre espressione dell’istinto di conservazione, della spinta a mantenersi nell’essere (= nella vita). Quello di Nietzsche è un sistema coerente, basato sull’idea di evoluzione e di valore. Trovo invece che l’idea di una mediazione tra pulsione e concetto sia artificiosa. Reintroduce infatti il problema della mediazione e, mutatis mutandis, della sostanza: da dove parte il mediatore per mediare? Qual è il suo terreno proprio?

Troverei inconsueta la posizione di una continuità Schopenhauer-Nietzsche sul piano della ragione, laddove io penserei più ad una rottura, ad una discontinuità. Può darsi mi sbagli, ma sono abituato a ritenere che il pensiero, in Nietzsche, sia più un lavoro di iscrizione nella lingua di tracce pulsionali (qualcosa come un’arte o una tecnologia, quasi una metallurgia delle pulsioni e delle forze), che non a un’intellezione. Per altro, se pure ciò ha un valore, abbraccio senza riserve il principio secondo cui non ci sono fatti da riconoscere nella loro oggettiva e universale afferrabilità [Verstandlichkeit] per mezzo dell’intelletto [Verstand], cioè per mezzo di una facoltà separata, ma solo letture prospettiche (penso che anche l’esempio del mattone che arriva sulla testa sia facilmente smontabile), cioè stati corporei che chiamiamo “fatti” rispetto ai quali vi sono quei certi altri stati corporei che chiamiamo “letture”. Riconosco il discorso nietzschiano della grande ragione del corpo, ma non so che significhi mediare tra corpo (che è un fortuito aggregato di forze) e qualcosa, il concetto, che forza o corpo non è.


GIOIA E COMPASSIONE

Perché il sentimento veramente etico è, con Schopenhauer, la compassione e non invece, con Spinoza, la gioia? La gioia è, in Spinoza, pienezza di vita, un’esistenza potenziata, un’esistenza intensificata, la gioia è la plenitudo vitae di contro al tempo che, invece, è emorragia di vita. La gioia ci mette sulla scia di una tradizione nobile, questo va detto, che da Spinoza, con tutte le reminiscenze antiche che lo contraddistinguono, attraverso Nietzsche conduce fino a Deleuze.

Ma l’etica implica invariabilmente uno stare presso l’altro. Non, quindi, un insistere e persistere (conatus, cupiditas), uno stare cioè intorno a sé e consistere di sé, ma un recarsi presso l’altro, a prescindere dalla propria condizione. Solo la compassione, realizza, in un certo tempo, in quanto è questo recarsi (presso l’altro) a sentire il (suo) dolore, è il sentimento conclusivamente etico. La compassione è un condursi e un agire mossi dal dolore dell’altro, per sentire il dolore dell’altro; condursi e agire assolutamente disinteressati. È l’interesse, semmai, a volere la plenitudo vitae (= gioia). L’interesse non vuole quella demenuitio che la compassione necessariamente comporta, l’interesse vuole l’in-sistenza su sé, vuole che la potenza di vita aumenti, vuole che la nostra vis existendi si intensifichi.

Schopenhauer, com’è noto, riconduce questo “sentire” a un fondamento metafisico: la comune appartenenza a quell’Uno-tutto che è la volontà. Personalmente, trovo che la compassione possa costituire essa stessa il fondamento dell’etica, senza ricorrere alla metafisica schopenahueriana. L’etica avrebbe in tal caso un fondamento sentimentale o sarebbe comunque aperta, o resa possibile, da un sentimento, nel senso che qui l’uomo è l’essere etico che è, in quanto colto dal dolore dell’altro (in verità incondivisibile) come suo proprio. L’etica sarebbe cioè causata dallo spettacolo del dolore dell’altro come dato originario. Il dolore dell’altro è la causa di quell’agire e condursi unilateralmente per altri, in vista di un interesse non incassabile, ovvero spostato in un tempo che non contempla la presenza di chi qui e ora com-patisce, che dà origine al comportamento etico, che è appunto un dare unilaterale e, quindi, una demenuitio, e non un arricchimento.

In verità non sempre e comunque, ma solo in determinate condizioni. Se la gioia è la causa finale dell’esistenza storica, dominata e dalla cupiditas e dal conatus sese conservandi (che certamente incarnano un’etica), la compassione è il fondamento di un’etica che potremmo definire post-storica, proprio perché sfugge al conatus, all’infelicità di conservarsi nel potenziamento di sé, perché dev’esser chiaro che la felicità non è la gioia e che le passioni tristi di cui parlava Spinoza non sono l’infelicità. L’infelicità è la frattura che separa la coscienza da se stessa. La tristezza, collegata al sentire il dolore dell’altro come proprio — non ogni passione triste, ma questa in specifico —, è il fondamento dell’etica post-storica.

Essa richiede un crescete accordo con la natura, in nome di un’altra umanità, di un’umanità a venire, di cui noi non sappiamo nulla e che non potrà ricambiare il gesto con cui noi ci diminuiamo. Quest’etica invoca un radicale egualitarismo bio-sferico, anch’esso unilaterale e puramente in perdita e quindi triste nel senso di Spinoza. Ma anche l’impossibilità etica (per l’appunto) di respingere, per esempio, l’appello all’omogeneità sociale lanciato dalle masse povere dei continenti in crescita del pianeta, la loro aspirazione alla felicità, induce in noi tristezza, la tristezza del loro dolore e, contestualmente, la diminuzione della nostra pienezza di vita. Questo tratto, che appartiene come nessun altro alla nostra epoca, implica un condursi unilaterale, irriscuotibile e disinteressato presso l’altro. È etico, ma non è gioioso, è anzi uno dei tratti di quello specifico dolore di ciò che oggi chiamiamo “crisi”.
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