Kasparhauser





Rivista di cultura filosofica

2018

Home


Ricerche


Culture Desk


Ateliers


Chi siamo


Info



La letteratura minore nell’argot di Céline
di Maurizio Montanari

17 marzo 2018*

Una letteratura minore non è la letteratura d’una lingua minore ma quella che una minoranza fa in una lingua maggiore.
(Deleuze e Guattari, Franz Kafka, per una letteratura minore)



LETTINI POSTUMI. QUELLA TENTAZIONE DA EVITARE

Jacques Lacan esaminò a fondo la vita e le opere di James Joyce, enucleando dai suoi scritti quell’elemento, la scrittura, capace di sostenere un soggetto in difetto della metafora paterna, e pertanto legato ad una precarietà dell’essere più esposta ai venti della vita. Lo chiamò sinthomo, ponedolo al di là del sintomo guaribile, inaugurando una feconda prospettiva clinica grazie alla quale fu possibile isolare, una per una, soggetto per soggetto, quelle ‘doti’ personali (artistiche, espressive, letterarie) le quali fungono da strumento non organico di supplenza e di sostegno. Al di là del giudizio artistico. In altre parole, una medicina con la quale operare una sorta di guarigione permanente di uno stato precario sottostante. Nel film Fuga da Alcatraz il cattivo direttore del penitenziario fa portare via la tavolozza dei colori ed i pennelli al detenuto Chester Dalton ‘Doc’, che aveva fatto della pittura il punto di tenuta di una insostenibile vita da ergastolano. E lui, si mozza le dita. Se da un lato questo ha permesso agli analisti una sorta di ‘innovazione’ nel trattamento clinico di tanti individui, potendo isolare l’elemento curativo da loro stessi fabbricato aiutandoli nel renderlo più maneggiabile, dall’altro ha inaugurato una moda piuttosto arida: stilare diagnosi ex post dell’autore (defuntissimo) attraverso una lettura, rigorosamente a posteriori, clinica e scarnificata, delle sue opere. Questo passa per una grottesca ricostruzione di ‘setting’ virtuali nei quali l’artista diventa immaginario ‘paziente’ e si sdraia sul lettino ad uso della celebrità di chi sforna il libro. Il tutto senza considerare che si diventa ‘paziente’ solo se c’è una sofferenza che richiede. Questo è ciò che non va fatto.


LETTERATURA E TESTIMONIANZA

Questa grottesca modalità vale massimamente per gli scrittori. Deleuze e Guattari sostengono che Kafka e la sua scrittura senza Edipo e senza la Lettera al Padre, siano di difficile collocazione, ma puntano decisamente il dito sull’eccessiva stratificazione clinica e analitica di ogni suo gesto, di ogni sua movenza. Scrivono: «Noi crediamo soltanto a una politica di Kafka, che non è né immaginaria né simbolica. Crediamo a una o più macchine di Kafka, che non sono né struttura né fantasma». [1] L’eccesso di lettura dell’invenzione personale di ciascuno, sia esso un letterato o meno, la uccide. Nevrotico o psicotico, insomma, chissenefrega.

Un esempio di ciò lo troviamo nel modo col quale Albert Camus, ma soprattutto Louis Ferdinand Céline, hanno utilizzato la scrittura per supplire ad una divisione originaria, un esilio interiore che si è protratto per tutta la vita. Si pensi a quanto Camus si presterebbe a questa lettura ‘clinicizzata’, in particolare il suo Jacques del Primo uomo. Privo di padre, assoggettato ad un femminile violento, sadico, e capriccioso. Viene salvato da “un padre”, il professore, che interviene e pone un interdetto tra lui e la nonna, aprendo al giovane la strada degli studi che lo renderà Albert Camus. Se solo questo fosse, nulla resterebbe delle atmosfere torride di separazione e solitudine descritte ne La peste e Lo straniero. Algerino vestito da francese, Parigino con nostalgia dell’Africa. Una scissione ab origine, una rottura mai rimarginata, un senso della separazione scritto nella pelle che lo porta a riflettere sulla solitudine dell’esiliato. “Si può essere felice e solitario?”, o ancora: “Chi pensa alle loro solitudini?” scrive, mentre la peste divide in due la città, mariti da mogli, fratelli da sorelle. Camus non poteva non sostenere, sino alla fine, una riconciliazione tra la Francia occupante e l’Algeria, divenuta preda di estremismi. Nella sua ultima produzione (raccolta negli scritti politici Mi rivolto dunque sono) assiste impotente al conflitto tra una nazione che deve essere liberata da un invasore feroce, ma al contempo epurata dalla violenza integralista che ripudiava in toto. E per questo scrive articoli, rilascia interviste. Piega il suo francese colto alla comprensione di fatti di attualità. Nel suo scrivere, le due anime di Camus, sempre conviventi, non possono che condurlo ad una equidistanza, propria di chi possiede un’anima scissa tra due appartenenze, egualmente forti ed egualmente incisive. Egli dunque non può che ricucire, per tutta la vita e nel corso di tanti suoi racconti, le sponde di due terre entrambe native.

Molto più forte è stata la tentazione di ridurre l’opera, specie quella finale, di Louis Ferdinand Céline al canto rabbioso di un vecchio isolato preda di un declino paranoico condito da invettive deliranti. Quando Deleuze e Guattari parlano di “letteratura minore” non intendono una letteratura di una lingua minore, ma “quello che una minoranza fa di una lingua maggiore”. Più di tutti il dr Destouches incarnò questo spirito di riterritorializzazione delle parole, desideroso di forgiare una lingua nuova, inappartenente e volutamente non omogenea, un argot per sfrondare un francese ritenuto ormai vecchio ed inutile, inadatto a descrivere il declino di una guerra e di una nazione. Decorato per i suoi meriti nella prima guerra mondiale, seguirà un declino legato alle sue scelte, alla scrittura dei Pamphlet, al suo antisemitismo. La sua inappartenenza radicale, sia al regime di Vichy che alla Francia Repubblicana, l’esilio, e la condanna per “indegnità nazionale” sono la lente attraverso la quale leggere la trasformazione del suo argot, che da nuovo strumento di lettura la realtà, muta in veicolo di odio puro verso tutto quel mondo che gli negherà sino alla fine il riconoscimento letterario ed umano. «Di grande, di rivoluzionario, non c’è che il minore. Odiate ogni letteratura da padroni» scrivono Deleuze e Guattari. Ecco dunque la forza della lingua di Céline, portatrice di un messaggio senza compiacimenti, lontana da lusinghe. Scritta per testimoniare e non per apparire. «Quanti stili, o generi, o movimenti letterari, sognano una cosa sola: assumere una funzione maggiore del linguaggio, offrire i propri servizi come lingua di stato» ricordano Deleuze e Guattari. Questo è l’argot di Céline. Uno strumento per superare il francese, «una vecchia lingua, decrepita, disseccata dagli accademici e dai gesuiti (...) che non riesce a prendere dentro di se né la realtà, né la verità» (…). [2] La penna di Céline dunque come potente strumento per sfrondare gli abbellimenti inutili, una lingua nuova per narrare due guerre ed i suoi sopravvissuti, per smascherare ogni orpello manieristico dei suoi concittadini riducendoli a due o tre movimenti, violenti, bassi e prevedibili. Un linguaggio per inquadrare la tragicità di un secolo sul quale Destouches, da buon medico che aveva visto centinaia di poveri sofferenti, non poteva tacere. Deleuze e Guattari scrivono che: «il secondo carattere delle letterature minori consiste nel fatto che in esse tutto è politica. Nelle ‘grandi’ letterature, invece, il fatto individuale (familiare, coniugale, ecc.) tende a congiungersi con altri fatti altrettanto individuali, mentre il contesto sociale serve solo da contorno e sfondo». L’argot è infatti una neo lingua utile a narrare il mondo che il protagonista di Matrix ha la dannazione di vedere: le orrende macerie fumanti dietro il plastico e fasullo rivestimento che il sistema opera per gabbare i suoi abitanti. Come sostiene Paolo Badellino: «l’argot è una lingua che ripesca nel diabolico calderone le parole una ad una, quasi con le pinze, acquistando via via sicurezza, esattamente come accade allo psicoanalista che si fa via via più sicuro man mano che il paziente gli fornisce nuovi elementi». [3]

Finita la guerra, attraversata la Germania distrutta, patito l’esilio a Sigmaringen, arriva l’isolamento. La sua condanna a morte letteraria da parte dell’intellighenzia francese che lo vuole ignobile e dimenticato. È a quel punto che il suo argot muta in una «lingua dell’odio che stende secco il lettore... l’annichilisce!... Una lingua che non si fa con un glossario, ma con le immagini dell’odio». [4] Sprezzante verso la sua Francia ingrata, un tempo amata sino a sprofondare nei deliri di arianesimo e purezza del popolo francese, da reietto sceglie una sepoltura da vivo. Chiuso in un esilio volontario dentro al ventre della nazione, incombe su di essa con la sua invettiva. Il dr Destouches perde ogni possibile Patria, ed il suo francese compie un’ultima trasformazione, divenendo solo un arma per colpire e uno strumento per sopravvivere. Colpire in modo sordo e trasversale la schiera dei suoi nemici, ormai talmente fitta da costituire un assedio invincibile, anche per la sua parola. Guadagnare un anticipo per comprare la lavatrice. [5] «Ciò che Céline ha fatto del francese — ribadiscono Deleuze e Guattari — seguendo un’altra linea, l’esclamativo spinto all’estremo. L’evoluzione sintattica di Céline: dal Voyage a Mort à crédit, poi da Mort à crédit sino a Guignol’s band — dopo, Céline non ebbe più niente da dire, a parte le sue disgrazie, non ebbe cioè più voglia di scrivere, aveva solo bisogno di soldi. E vanno sempre a finire così le linee di fuga del linguaggio: il silenzio, l’interrotto, l’interminabile, o peggio. Ma che creazione folle intanto, che macchina di scrittura! Tutti lodavano ancora Céline per il Voyage quando lui era già molto più avanti, in Mort à crédit, poi nel prodigioso Guignol’s Band, in cui la lingua aveva ormai solo intensità».

Leggendo in filigrana Da un Castello all’altro si ha a che fare con una scrittura che pare aver perso ogni possibile speranza di riscatto, di riabilitazione. Parole che non trovano più la forza di fare sosta in quella pietà e passioni che solo uno stolto non può non scorgere nel Viaggio al termine della notte. [6] Si tratta di una raffica ad alzo zero, contro tutto e tutti, l’ultima bomba a rancore esplosa consapevole che nulla e nessuno mai gli ridarà il posto agognato.Come ben scrive Francesco Biamonti: «ce l’ha con tutti, in definitiva: con Sartre, con Aragon, con Vailland che aveva giurato di ucciderlo, con Elsa Triolet, con Claudel, con Montherlant... I suoi nemici sono dappertutto, dalla Costa Azzurra alla Scandinavia, nelle case editrici, nel bunker di BerlinoW. È lo stesso Céline che lo confessa: «I nazisti mi detestano al pari dei socialisti, e i comunisti anche, senza contare Henri de Régnier o Comoedia. Si intendono tutti quando si tratta di sputarmi addosso. Tutto è permesso tranne che dubitare dell’Uomo. Allora non c’è più niente da ridere. Ho fatto la prova. Ma io me ne frego, di tutti. Non chiedo nulla a nessuno». [7]

Nel 1945 appare su Le Temps Modernes uno scritto di Jean-Paul Sartre dal titolo “Ritratto di un antisemita”. L’obiettivo dell’autore de La Nausea è Louis Ferdinad Céline, il Bardamu di Viaggio al termine della notte, tacciato di collaborazionismo e di simpatie filonaziste. La deriva antisemita di Céline sancita dalla sua produzione (Bagatelles pour un massacre, 1937, L’École des cadavres, 1938 e Les Beaux draps, 1941) non è mai stata messa in discussione dai suoi cultori e tantomeno dai suoi detrattori. Nell’Aprile del 1945 viene spiccato da un tribunale francese un mandato di cattura per Céline accusato di tradimento. Al netto di questa verità, Céline non fu mai organico al regime di Vichy, e nemmeno all’establishment nazista. Tra il 1941 e il 1944 pubblicò infatti un articolo, venticinque lettere, e tre interviste. La sua inappartenenza strutturale si evince dal fatto che alcune delle sue opere vennero ostacolate sia dal Governo di Vichy che dai tedeschi. Questo non gli eviterà di essere messo all’indice, allorquando iniziarono le epurazioni dei collaborazionisti che avevano, a vario titolo, sostenuto il governo di Vichy. Furono 40.000 i francesi messi all’indice, alcuni dei quali condannati a morte.

Il “Conseil National des écrivains” fu l’organo deputato a stilare un elenco dei libri impubblicabili perché scritti da intellettuali compromessi con il regime. La voce di Sartre fu assai determinante nel volere la messa al bando di Céline, desiderando che Destouches venisse ignorato al suo ritorno in patria.

Nel 1947 dopo aver appreso della pubblicazione del testo di Sartre (che recava le parole: «Se Céline ha potuto sostenere le tesi socialiste dei nazisti, è perché era pagato») prende carta e penna e scrive A l’agité du Bocal, violento e dissacrante pamphlet rivolto contro Sartre, nel quale, tra le altre cose mette in luce cosa nasconda la veemenza delle accuse rivolte contro di lui: Sartre, il censore, il resistente, aveva avuto la possibilità di mettere in scena una sua opera teatrale Les Mouches in piena occupazione al teatro cittadino, con presenza di militari tedeschi. La frase «Il fallait bien vivre» pronunciata da Simone de Beauvoir, compagna di Sartre, segna un periodo ben stigmatizzato da Frederic Spotts nel suo libro The Shameful Peace: How French Artists & Intellectuals Survived the Nazi Occupation. In questo testo troviamo le parole di Sartre e della compagna «Un sottile veleno corrose le nostre migliori intenzioni» (Sartre); «Al principio ebbi un solo pensiero, non fare la fine del topo» (de Beauvoir). Picasso che continuò a lavorare sotto l’occupazione nazista disse: «Passivamente, non cedo al terrore e alla forza, ma non è coraggio, è inerzia». Quanto a Matisse, lamenta Spotts, «nel suo rifugio di Vence non avvertì nemmeno il problema morale della Resistenza».

Jean Paul Sartre, il più forte dito puntato contro gli scrittori collaborazionisti, non riuscì a nascondere allo spirito di Céline le sue pecche. Sartre, che prese posizione a favore di Israele al momento della creazione dello Stato ebraico (si veda: Riflessioni sulla questione ebraica del 1946), puntando il dito contro l’antisemitismo, si accomoda volentieri sulla cattedra parigina di Henri Dreyfus-Le Foyer, professore ebreo allontanato dall’insegnamento a causa della politica antisemita di Vichy. La de Beauvoir (la paladina del femminismo ante litteram) dirottava sul letto del ‘Cobra’ (nominativo col quale chiamava Sartre) le studentesse più accondiscendenti, oltre a lavorare per la radio nazionale francese controllata dai tedeschi. Ecco allora, lettere di odio. Lingua per colpire e smascherare le oscene verità: «Tenia (...) e filosofo, per giunta… fa un po’ di tutto… Sembra che, in bicicletta, abbia anche liberato Parigi. (…) Voi avete avuto comunque il vostro piccolo successo al “Sarha”, sotto lo stivale, con le vostre Mouches».

Ancora: «Elenchi? Elenchi? A quando quello integrale, nominativo, di tutti quelli che hanno guadagnato qualcosa con i tedeschi? Eccolo il vero elenco dei collaboratori». [8] Ultima torsione del suo francese, parole violente usate per strappare quel velo di ipocrisia che lo condanna all’oblio, in tempo di vincitori e vinti. Andrea Lombardi (curatore del blog celine.blogspot), sostiene che: «Oltre la prima rivoluzione dell’argot, Louis-Ferdinand Céline supererà l’impasse creativa dopo Morte a credito con l’ancor più straordinaria creazione della petite musique, la scrittura emozionale, dei puntini di sospensione e esclamativi per tentare di replicare pause, enfasi e ritmo del parlato ‘tridimensionale’ trasferendolo con uno sforzo stilistico immane nel ‘bidimensionale’ del segno sulla pagina. Rivoluzione, quest’ultima, che Louis-Ferdinand Céline stesso definirà sempre di gran lunga superiore a quella da lui fatta con argot/Viaggio. Il passaggio da Viaggio/argot alla Trilogia/petite musique ha il suo ponte proprio nello stile dei ‘famigerati’ pamphlet, che risultano così affatto opere minori dal punto di vista stilistico».

La sua eredità letteraria, sepolta a Medoun nella tomba col vascello, è ingombrante. Inappartenente, indocile, libera e refrattaria a qualsiasi ereditiero che abbia provato nel corso degli anni a farla propria. La sua ultima produzione è un pacco di lettere da un esilio volontario, una maledizione verso tutto ciò che gli stava attorno. Gonfia di una disperazione non addomesticabile, resta come un monito, una cicatrice mai richiusa e sanguinante, a ricordare come solo una letteratura alta, fatta cioè del medesimo impasto pulsionale del suo autore, lontana da inchini o salamelecchi col potere, sia degna di tal nome.

Il primo Luglio 1961 Céline muore. Muore in una solitudine colma di rancore e un deserto rotto solo dalla moglie Lucette e dal gatto Bebert. Muore per come è sempre stato, un parvenu della letteratura. Muore mandando «al diavolo libri e tirature! M’è capitato di scrivere quel che mi passava per la testa, però io non voglio essere altro che un semplice medico di benlieue». [9] Muore solitario ma, a differenza di Camus, per nulla felice. Il suo argot muore con lui.


* Prima pubblicazione Kasparhauser | Monografie | Lichtung. Luci, 2014. Versione ripulita da tutti gli errori e le sviste

[1] G. Deleuze, F. Guattari, Franz Kafka, per una letteratura minore, Quodlibet, Macerata 2011 (tutte le citazioni di D. e G. qua contenute, provengono da questo testo).
[2] P. Badellino in “Louis Ferdinad Céline in foto”, Effepi, 2012.
[3] Ibidem.
[4] Arts, febbraio 1957.
[5] «D. Ciò forse vuoi dire che scrivere è un bisogno? R. Sì, ma per colpa della lavatrice. La moglie pensa: “Una lavatrice, una che funziona, costa 200.000 mila franchi…” Lei ci pensa e, dato che è femmina, mica lo dice che ci pensa. Il marito, lui, sa scrivere, articoli qua e là… Lei pensa sempre alla lavatrice. E un bel giorno davanti alla vetrina gli fa: “Guarda, è uscita l’ultima Sagan, se ne parla tanto. Quante che ci guadagna a copia? 20%. Ah, 100 franchi a libro)?” Pensa sempre alla famosa lavatrice, lei!… Egli fa, a lui: “Senti, tu non potresti?… - Oh, io, no, lo sai bene - Oh, ma sì che lo potresti fare un romanzo uguale. È mica così straordinario, l’ho letto”. Allora, via! Ecco che ne arriva un altro, di romanzo! Spedito a Gallimard… Ogni anno zavorra di quattrocento romanzi, il Gallimard. Li butta nella Senna! Nessuno che se li fila! Valgono su per giù come tutti gli altri, ma non escono… Una lotteria!» Intervista a L.F. Céline di Madeleine Chapsal, http://lf-celine.blogspot.it/
[6] «Buona, ammirevole Molly, vorrei se può ancora leggermi, da un posto che non conosco, che lei sapesse che non sono cambiato per lei, che l’amo ancora e sempre, a modo mio, che lei può venire qui quando vuole a dividere il mio pane e il mio destino furtivo. Se lei non è più bella, ebbene tanto peggio! Ci arrangeremo! Ho conservato tanto della sua bellezza in me, così viva, così calda che ne ho ancora per tutti (...) se la morte, domani, venisse a prendermi, non sarei, ne sono certo, mai tanto freddo, cialtrone, volgare come gli altri, per quel tanto di gentilezza e di sogno che Molly mi ha regalato nel corso di qualche mese d’America».
[7] Céline a Elie Faure, 1934.
[8] L.F. Céline, “À l’agité du bocal”, in La lettre de Céline sur Sartre et l’existentialisme, 1948.
[9] Intervista a Semaine du Monde, 23 Luglio 1954.



Louis Ferdinand Céline
Home » Ateliers » Estetica

© 2018 kasparhauser.net