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Se il tempo è una caligine d’eternità perente
Linguaggio, soggetto e storia in Dino Campana
di Giuseppe Crivella

16 aprile 2015





Nel 1913 un giovane ed oscuro poeta nato meno di trent’anni prima vicino Faenza si recò presso la redazione di Lacerba al fine di lasciare tra le mani di Soffici e Papini un preziosissimo manoscritto che, neppure a dirlo, pochi mesi dopo proprio Soffici avrebbe smarrito nel corso di un trasloco [1]. Quel giovane, che si presentava «con capelli e barba di un biondo acceso, la faccia piena e di color rosso, illuminata da un paio di occhi celesti che esprimevano a un tempo sincerità e timidezza come quelli di certi bambini o di certi campagnoli» [2], era Dino Campana, mentre l’incartamento andato perduto conteneva la prima stesura dei Canti Orfici.

Probabilmente per questo maudit della letteratura italiana non poteva esserci miglior debutto di una scomparsa come quella che interessò i suoi Canti, quasi a simboleggiare una sorta di immenso lapsus tentato dalla futura storia letteraria italiana nei confronti di un autore scomodo perché di difficile collocabilità all’interno delle sue schematizzazioni. I Canti Orfici tuttavia già l’anno successivo — cioè, precisamente un secolo fa — fortunatamente riapparvero grazie ad un paziente lavoro di ricostruzione mnemonica e riscrittura integrale perseguito da Campana con l’ausilio di alcuni impiegati del Municipio di Marradi per la stesura.

Da allora però essi non smettono di essere una presenza sottilmente inquietante all’interno del vasto e mobilissimo panorama letterario italiano, ora osannati, ora dimenticati, a volte derubricati come tracce possenti di un impeto lirico che non è riuscito a maturare perché travolto dal suo stesso furore espressivo, altre volte visti — ad esempio da Solmi [3] — come il fragoroso punto d’incontro tra la grazia dell’ispirazione e la misteriosa alchimia del verbo. Emblematico è senz’altro questo passo:

Io poeta notturno
Vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo,
Io per il tuo dolce mistero
Io per il tuo divenir taciturno
Non so se la fiamma pallida
Fu dei capelli il vivente
Segno del suo pallore,
Non so se fu un dolce vapore,
Dolce sul mio dolore,
Sorriso di un volto notturno [4].

Tutta la lirica in effetti di Campana vive e si nutre di un dissidio profondo [5]: spastica ed aerea, essa s’intrude in una levità arcana ed arcaica d’accenti fusi in un unisono étoilé ora sotto le sembianze di una metallica e vuota eco, ora sotto forma di rovente urlo scagliato contro la livida sonnolenza di spente divinità notturne torpidamente prossime all’estinzione. In tal modo il poeta costringe il nostro pensiero a confrontarsi con un’idea di lingua — di lingua gelidamente poetica — intesa quale dissestato territorio ove sperimentare tutta l’estraneità di un dire precipitato nelle più riposte fibre del reale, nella sua viscida compagine votata ad una decomposizione lentissima, pressoché inavvertibile, di un dire fattosi voce oscura proveniente da un occhio nomade e incorporeo che abita e attraversa le cose mostrandocene la sezione turpemente sanguinante.

Campana vive in un mondo di parvenze crepuscolari. La precarietà che le affligge, la loro prossimità a uno sfacelo sempre più imminente, l’irreversibilità di un corso storico che ha raggiunto il suo stadio estremo si riflettono tutti senza resto nelle forzature che la sua lingua è costretta a subire ricorrendo, ad esempio, spesso a binomi aggettivali che divaricano la cosa designata in una implacabile duplicità di aspetti: il fiore e la piaga, diventano qui le stimmate di una di un’agonia vissuta con lussurioso compiacimento. Da una parte troviamo l’anomalo sorgere di nuove forze vitali da un humus di corruzione e disfacimento, tanto più infettato di morte quanto più fecondo e prolifico: il fiore sorge come emblema di una bellezza improvvisa e assurda, terminale e forse velatamente stomachevole, perché ormai inassimilabile al contesto di definitività dei tempi in seno a cui si pone.

Tale fiore è allora il gemello deforme della piaga, l’accompagna, la circonda, sembra corteggiarla: suppurante e frastagliata, essa è la traccia amorfa di una nuova fecondità, di una fertilità di morte di decesso, estinzione, fertilità della fine e del tracollo di un mondo che ancora tuttavia si protrae nel labirinto convulso della Storia col movimento spastico di una creatura mutilata. Vi è soprattutto una prosa che ben testimonia e rappresenta questo stato di cose: il museo:
Nel corpo dell’antico palazzo rosso affocato nel meriggio sordo l’ombra cova sulla rozza parete delle nude stampe scheletriche [...]. Ribera: il passo di danza del satiro aguzzo su Sileno osceno briaco. L’eco dei secchi accordi chiaramente rifluente nell’ombra che è sorda [...]. Un delicato busto di adolescente, luce gioconda dello spirito italiano sorride, una bianca purità virginea conservata nei delicati incavi del marmo. Grandi figure della tradizione classica chiudono la loro forza tra le ciglia [6].
In esso l’occhio è colto in corpo a corpo con i quadri della tradizione [7], nude stampe scheletriche da cui si sprigiona un respiro intriso di sepolcro. Il museo, dinanzi allo sguardi di Campana, diventa mausoleo, la forza e l’imponenza delle rappresentazioni descritte sono quelle di una civiltà ormai trascorsa, simulacri e non più segni di una grandezza che abita solo le stanze disabitate della memoria, una memoria impersonale, consegnata all’identità neutra di polverosi supporti esterni alla vicenda propriamente umana, una memoria spenta e frammentaria, prossima allo sgretolamento per il peso di quel «carico di nera scienza catalogale» [8] a cui Campana fa riferimento in un’altra prosa di poco posteriore a questa. È la luce stessa ad impregnarsi di qualcosa di catastrofico, come se la rovina fosse così possente e pervasiva da sfociare perfino nell’immateriale, corrompendolo e adulterandolo, contagiando coi sui molesti ma vibranti sentori di morte anche ciò che afferisce all’incorporeo e all’immateriale.

È come se la impetuosa ondata dello storicismo hegeliano si fosse d’improvviso ritirata svelando un paesaggio ignoto di fessure rocciose dove si aggirano ubriache di passato ombre senza memoria. Campana lo dice più volte a chiare lettere:
si levava la fortezza dello spirito, le enormi rocce gettate in cataste da una legge violenta verso il cielo, pacificate dalla natura prima che le aveva coperte di verdi selve, purificate poi da uno spirito d’amore infinito: la meta che aveva pacificato gli urti dell’ideale che avevano fatto strazio, a cui erano sacre le pure commozioni della mia vita [9].
Questo stato di cose appare però descritto con estrema pregnanza soprattutto in una lirica espunta dall’autore stesso dai Canti e poi reinserita, come intermezzo vagamente rimbaudiano, tra due celebri prose datate settembre e una delle quali intitolata Il ritorno:

SALGO (nello spazio, fuori del tempo)

L’acqua il vento
la sanità delle prime cose —
Il lavoro umano sull’elemento
Liquido — la natura che conduce
Strati di rocce su strati — il vento
Che scherza nella valle — ed ombra del vento
La nuvola — il lontano ammonimento
Del fiume nella valle —
E la rovina del contrafforte — la frana
La vittoria dell’elemento — il vento
Che scherza nella valle.
Su la lunghissima valle che sale in scale
La casetta di sasso sul faticoso verde:
La bianca immagine dell’elemento [10].

Da questa immagine bianca, che occlude ogni ritorno trasfigurandone il movimento in una sclerotizzazione circolare di tempi morti, i quali scandiscono la durata inerte di un presente non eterno sebbene immobile, paralizzato in divenire diventato deriva, Campana sente salire una nenia primordiale, monotona e irritante. Il tempo sprofonda in un fervere incosciente di vaste forme disumane: da esse il passato — prefigurazione esplicita di un avvenire sempre più vicino — balena con le sembianze tragiche di lapidi spezzate, torri barbare corrose, casupole desolate, mura di chiese e conventi aggredite da una vegetazione che ne crepa le commessure, ne schianta la tenuta, le spinge verso un lentissimo ma inesorabile crollo.

Afferma allora Campana, in testo intitolato Biologia: «essendo una carogna in decomposizione abbraccio l’universo. Guardate il mio cromatismo, i miei verdi e violetti. Guardate al resto, il mio scheletro, ci sono dunque esisto» [11]. Qui il decesso della storia e la decomposizione dell’uomo si aprono su una natura imbevuta di una grazia spietata e inconsapevole. Dove il poeta incontra sfacelo, lì avverte anche la rinascita dell’organico pre-umano. Come già visto, il fiore e la piaga costituiscono i versanti simmetrici di una fenomenologia sinistramente bifronte. Non è un caso dunque che in un testo intitolato Il diario della nuova Italia il poeta parli proprio de «la realtà come dimostrazione dell’attuazione dello spirito» [12], alludendo, con toni smaccatamente ironici ad una realtà che invece si profila quale luogo elettivo per il conclamarsi di una barbarie senza termine e senza causa, dimensione di una stagnazione plumbea su cui l’oblio si proietta con la propria sagoma pallida e silenziosa. Nell’autore dei Canti è così possibile intercettare quel sentimento primordiale che Osvald Spengler in uno dei passi più significativi della sua monumentale opera dedicata al Tramonto dell’Occidente definisce angoscia cosmica:
del presente si sente lo svanire; del passato la caducità. Tale è la radice dell’eterna angoscia per l’irrevocabile, per l’ormai realizzato, per il definitivo, per la caducità, per il mondo stesso in quanto atto esaurito nel quale, col limite della nascita, è in pari tempo posto quello della morte, l’angoscia dell’istante in cui il possibile è divenuto reale, in cui la vita è interamente compiuta e conchiusa […]. È la pro onda angoscia cosmica dell’anima infantile, che mai abbandona l’uomo superiore, il credente, il poeta, l’artista nella sua sconfinata solitudine; è l’angoscia di fronte a potenze estranee, che grandi e minacciose si ergono entro il nuovo mondo che albeggia, dietro la maschera dei fenomeni sensibili […]. Come una segreta melodia non a tutti percepibile, l’angoscia trapela attraverso il linguaggio delle forme di ogni vera opera d’arte [13].
Il tempo si arresta perché colto nella sua sustruzione verticale, come un sedimentarsi vorticoso di residui minerali che si fanno immagini, figure e simboli svuotati di una storia polverizzatasi. In una orribile gravitazione di ceneri, frantumi e resti informi, i quali bruciano sublimi nelle fornaci insaziabili del mondo, vi è soprattutto un’immagine che svetta e condensa in sé questo stato di cose sebbene compaia una sola volta [14]: «l’eterno errante» [15], formula senza dubbio oscura, densamente anodina, criptica per non dire anfibolica. In essa si sostanzia non solo tutta la grandissima inventività linguistica del poeta di Marradi, ma anche la sua capacità di forgiare figure le quali, pur nella loro terribile astrazione lirica, sono in grado di produrre un’immagine di vastissima risonanza semantica. Nel caso specifico qui i due termini — /eterno/ e /errante/ — vengono affiancati d’improvviso, in modo fulmineo e repentino, quasi a farne sprizzare faville di irrazionalità che si propagano su tutto il testo [16] in forza della loro intrinseca ambivalenza: desunti entrambi da una zona grammaticalmente grigia, essi possono valere sia come aggettivi, sia come sostantivi; affiancandoli, Campana impone al lettore una scelta radicale e esclusiva tra due opzioni sostanzialmente equivalenti: far valere solo uno di essi in qualità di attributo o viceversa. Ma perché tutto ciò? Unicamente per ottenere un’oscillazione semantica non solo infinita, ma di volta in volta transitante da un termine all’altro, così che ora sia l’erranza a diventare l’attributo dell’eternità — ottenendo in tal modo una violentissima contradictio in adjecto che smonta tutta la tradizione metafisica primo-ottocentesca — ora sia invece l’eterno a tramutarsi in nella componente essenziale dell’errare — in modo da trasfigurare la peregrinazione fisico-psichica del poeta in un torturante valore trascendente del suo dato crudamente esistenziale.

Alla luce di ciò, il dire poetico di Campana è una ferita sfingea che nutrono nubi e ruggini. In esso Campana è il primordiale fanciullo affannato dalle cieche ebbrezze di quel gran Nulla irrigato dal «sangue d’angioli ambigui» [17] sacrificati senza motivo alla infamia insaziata del mondo. Ungarettianamente Campana fu friabile su basi spettrali, evanescenza immobile in una consunzione al tempo stesso senza durata e senza resto, soffocato fiotto lambente un ignoto idolo marmoreo inebriato di putredine. Senza alcun dubbio pertanto la poesia di Campana punta ad un disarcionamento chirurgico di ogni facoltà seccamente intellettiva, pervenendovi però attraverso un eccesso di lucidità: la allucinazione allora è qui una sillabazione viscerale di immagini che fagocitano l’ego il quale, nel proprio interminato soccombere, si tramuta nel decerebrato taumaturgo vagante nella lingua.

Ecco allora che in Campana la tenebra si tramuta nell’invisibile ondulazione di una risacca mollemente fuori sincrono rispetto al movimento del mare che dovrebbe produrla, una risacca spettrale e remota la quale tuttavia riesce a raggiungere e a ferire il già straziato udito interiore del poeta, muovendo da acque ignote e irreali dove naufragio e approdo, deriva e ritorno, sprofondamento ed emersione incessantemente si specchiano gli uni negli altri in forza di una freddissima concitazione intellettuale che tende ad «attorcersi di misteriosi portenti neri» [18].

Qualcosa di tagliente si libera furioso dalle pagine dei Canti: la parola qui diventa materia, carne, organo reciso da un corpo ancora palpitante d’una vita esule, invischiata nell’alito fosco di una marcescenza cosmica. Ma non è soltanto un mondo in sfacelo ciò che egli ritrae, è piuttosto un’atmosfera venata d’una esuberante decrepitezza nella cui scheletrica sublimità l’effimero avvolge tutta la convalescenza dell’eterno in un soffio putrido, in un turbinare fermo ed ipnotico di solitudini colte sul palcoscenico di uno spettacolo che, seppur destinato a mettere in scena la fine di tutte le cose, in realtà non riesce a terminare, finendo col prolungarsi parodisticamente in una dolorosa sequela di repliche senza costrutto. In Campana è possibile individuare senza alcuna perplessità quello stadio gotico dello spirito davanti alle generazioni passate e al tempo trascorso, stadio gotico per la cui definizione è necessario rifarsi ancora una volta a Spengler:
Una massa immensa si esseri umani, una corrente indomabile che prorompe da uno oscuro passato, da dove il nostro senso del tempo non ha più un potere organizzativo e dove l’inquieta fantasia, l’angoscia, ci ha fatto proiettare magicamente l’imagine dei periodo geologici della terra per nascondervi un enigma che non si può più sciogliere; una corrente che volge verso un futuro parimenti oscuro e senza tempo: ecco lo sfondo dell’imagine faustiana della storia mondiale. La monotona marea di innumerevoli generazioni agita la vasta superficie. Tratti di luce che si dilatano. Bagliori fugaci che danzano e passano turbando il limpido specchio delle acque. Ecco che cosa sono le generazioni, i ceppi, i popoli, le razze [...]. Quando in essi la forza formatrice si spegne […] anche i caratteri fisiognomici, linguistici e spirituali si dissolvono e il fenomeno si discioglie nuovamente nel caos delle generazioni […]: esse generano maestosi cerchi d’onde, appaiono d’un tratto, si espandono in magnifiche linee, poi si abbassano, scompaiono e lo specchio delle acque ridiviene solitario e stagnate [19].
Campana trasformò la lingua in una catastrofe ardente; il fluire contratto e scontroso dei suoi versi assomiglia sovente ad un mareggiare indomito di voci avanzanti nella sanguigna voluttà del vano, quasi un’empia trasvolata attraverso i multiformi velari del finito, al contatto dei quali il suo stesso corpo s’annebbia in un sudario di luce nel cui meridiano dirompere il mistero e il gemito si trasfondono l’uno nell’altro come forme bronzee alla perentorietà delle quali non resta che opporre la screziata carcassa di un dire poetico sospeso tra il canto e l’anatema.

Ancora oggi dai Canti Orfici giunge a noi la impotente piena di una parola strangolata dallo scarno afflato di un dire smarrito sull’eroso termine del silenzio, smorta incandescenza rappresasi negli strati più fondi del tacere, là dove ogni idea si sfalda nell’impreciso riverbero di memorie ormai assolte da ogni spoglia di passato ed annegate nelle schiumose movenze di un’acqua lustrale dalla cui chiusa trasparenza affiori per istanti splendidi e fatali l’estremo aspetto di tutte le cose. Espunta così dalle regioni del linguaggio la grigia — e presunta — ragionevolezza del mondo, al poeta di Marradi non resta che calcare le schiavardate assi di un teatro verbale che senza tregua precipita verso quel luogo obliquo ove la parola stessa è l’espressione stremata e mutila, soffocata e crudele di uno sguardo emanato inconsapevolmente da un cumulo d’occhi a cui siano state strappate le palpebre, e di cui il mondo s’impossessa con turbinio fitto e nauseante, tramandosi nella strabica pletora di umori e risonanze, sfioramenti e infiltrazioni, oltre i quali la realtà traspare quale debilitato polipaio di cancrenose penombre, tra cui affondare e dalle quali riemergere dopo averne inalato il soffio infero. È stato probabilmente Blumenberg a diagnosticare con maggior pregnanza questo processo di defibrillazione endogena del linguaggio in uno scritto del 1966 intitolato Sprachsituationen und immanente Poetik ora raccolto nella silloge Wirklichkeiten in denen wir leben. Sebbene lo scritto non sia dedicato a Campana, ne riportiamo un estratto poiché le osservazioni del pensatore tedesco ci sembrano profondamente concordanti col tipo di poetica messa in campo dall’autore dei Canti orfici; ecco quindi che cosa scrive Blumenberg:
la contraddizione essenziale tra linguaggio oggettivante e linguaggio poeticizzante [si acuisce] sempre di più [fino ad arrivare] ad un linguaggio poetico di inusitata violenza nei confronti della funzione referenziale, un linguaggio le cui metafore si [disturbano] e si [annientano] a vicenda, le cui immagini non si [dissolvono], e che non [ammette] alcuna interpretazione rassicurante della propria sintassi, un linguaggio in cui gli orizzonti genetici delle allusioni mitiche si [confondono] continuamente e autonomamente [20].
La poesia di Campana nasce come un vitreo fiore di ottenebramenti, le cui spezzate radici s’avvinghiano alla porosa terra del delirio, porosa perché minutamente attraversata dal lavorìo di scavo e metamorfosi di un pensiero barbaramente tellurico, storditamente animale, schiacciato dalla ossessione di una cavernosa trascendenza ove sembra consumarsi da evi immemorabili il ridicolo crepuscolo di dei impagliati.

La parola di Campana è una sorta di balbettante squarcio prodottosi in una ragione che scova la propria norma nell’anomalia e nella follia, luoghi inaccessibili in seno a cui origine e declino, galassia e radice, pensiero e pietra sconfinano infinitamente l’uno sull’altro, prede di un allucinato pathos identificativo che conduce le convulsioni di quella stessa parola a coincidere enigmaticamente col più immoto dei silenzi e al cospetto del quale «ci perdiamo in un vuoto senza fondo, come se fossimo in una sfera cava di vetro, dal vuoto della quale parli una voce di cui non sia possibile trovar la causa dentro la sfera» [21].

Nel poeta di Marradi il culmine del divenire storico, l’effetto epocale della ferrea Entwicklung hegeliana si spegne in qualcosa di preistorico, in un panorama scheletrico di epifanie lugubri e striscianti da cui non è data altra via di fuga — da non confondersi con una via di salvezza, la quale non è assolutamente ammessa — che una ostinata e quasi catatonica pratica poetica in cui venga a trasfondersi il denso precipitato di una vitrea estasi contemplativa, in cui l’afflato visionario è rappresentato da una ossessione bulimica dello sguardo di fronte al quale lo sostanze solo in modo passeggero sono delle forme, sorprese, narrate, fermate nel momento della loro consumazione, del loro transito verso altro, del loro annullamento in una liquida asimbolia ove finisce con l’insabbiarsi il pensiero stesso. Non a caso, una lirica dal titolo emblematico — Traguardo — afferma:

Dall’alta ripida china
Movente precipite turbine
Vivente nocchiero
Come grido del turbine;
Bolgia rocciosa di grida di turbe
(Sosta) al traguardo del turbine
Un bronzeo corpo nel lancio leggero.
Oscilla muto de la vertigine stretta tra rocce: la via
Bianco serpente calpesto dai piedi del turbine
S’annoda si snoda (tra la fuga lenta di grida le rocce)
Rientran lo sguardo vertigine, brune [22].

Ma accedere allo spazio del preistorico significa anche penetrare nuovamente nella fase epigenetica del mondo e della realtà, risalire verso l’ancestrale è sprofondare nella tumultuosa chiarità lunare di un frangente arcaico ove le forze mitopoietiche della parola e dell’immaginazione umana possono ricaricarsi di nuova linfa, attingere a una originaria potenzialità espressiva di cui la congestione orfica della poesia di Campana è senza alcun dubbio fedele manifestazione.


[1] D. Campana, Canti Orfici e altri scritti, a cura di C. Bo e A. Bongiorno, Mondadori, Milano, 1972, p. XX.
[2] Cfr Carlo Pariani, Vita non romanzata di Dino Campana, a cura di T. Gianotti, Ponte delle Grazie, Firenze, 1994, p. 67.
[3] Cfr. La fiera letteraria, IV, 1928, 35, consultabile presso il sito http://www.campanadino.it/index.php?option=com_content&view=article&id=162:sergio-solmi-recensione-ai-canti-orfici-del-1928&catid=40:studi&Itemid=60.
[4] Campana, Op cit., 17, La chimera, dalla serie dei Notturni.
[5] Ben espresso dalla seconda stesura di Dualismo, Ivi, p. 145.
[6] Ivi, p. 42.
[7] H. Friedrich, Op cit., p. 272. L’autore riporta una lirica di Benn, tratta dalle Poesie statiche, molto simile al testo di Campana qui preso in esame.
[8] Ivi, p. 47.
[9] Ivi, p. 27. Sottolineatura nostra.
[10] Ivi, p. 29.
[11] Ivi, p. 155.
[12] Ivi, p. 167.
[13] O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente, a cura di J. Evola e S. Zecchi, Guanda, Parma, 1992, pp. 132-133.
[14] All’interno delle tumultuose riscritture di Campana molte immagini di volta in volta si ripetono – variate o meno – si trasformano, passano da un testo all’altro. Tuttavia non crediamo che, in sede interpretativa, la rilevanza di tali immagini sia da valutarsi unicamente sulla base della loro media statistica di ripresentazione. Anche un’immagine che compaia una sola volta può recare in sé un portato semantico più che rilevante.
[15] D. Campana, Op. cit, p. 51.
[16] Ivi, p. 50, il titolo è Pampa.
[17] Ivi, p. 114.
[18] Ivi, p. 98.
[19] O. Spengler, Op cit., pp. 172-173.
[20] H. Blumenberg, Le realtà in cui viviamo, ed. it. a cura di M. Cometa, Milano, Feltrinelli, 1987, p. 127. Blumenberg scrive al futuro, postulando una poetica immanente ancora da realizzarsi. Poiché noi riteniamo invece che la poesia di Campana incarni già in toto queste caratteristiche ci siamo permessi di riportare il brano sostituendo in parentesi quadre al futuro dell’originale il presente.
[21] A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, a cura di A. Vigliani e G. Vattimo, Mondadori, Milano, 2002, p. 397.
[22] D. Campana, Op. cit., p. 128.

Odilon Redon, L’oeil ballon (1878)


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