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Animalisation e retentissement: Bachelard tra Blanchot e Artaud
di Giuseppe Crivella

23 febbraio 2015




Introduzione

Il presente studio nasce da una doppia motivazione: in primis tentare un approccio schiettamente comparativistico ad una serie di spunti e problemi che l’opera di Gaston Bachelard ha messo in risalto in modo sempre più pregnante in quella strana terra di mezzo che è l’estetica o, se vogliamo, una critica letteraria sempre più imbevuta di questioni prettamente filosofiche; in secondo luogo questo saggio nasce da una riflessione alquanto aggiornata e approfondita sul concetto di immagine e sulla possibilità di estrapolare una filosofia dell’immagine dalla speculazione dell’autore della Psychanalyse du feu.

Molte delle posizioni qui espresse pertanto muovono dalle opere di Bachelard, ma vengono rilette attraverso una serie di filtri critici e di prestiti tematici afferenti ad altri autori, i quali si sono in ogni modo mossi lungo la scia del grande epistemologo francese. Non sarà allora un caso che il testo a cui ci rifaremo sovente durante le nostre analisi è quello insuperato e insuperabile per chiarezza espositiva e vastità d’orizzonti di Giuseppe Sertoli, pubblicato nel 1972 e intitolato Le immagini e la realtà. [1] Nel primo capitolo quindi prenderemo in esame in modo alquanto dettagliato il problema delle immagini nella filosofia di Bachelard, puntando ad una messa a fuoco della questione sulla base delle puntuali analisi che Sertoli sviluppa nel saggio appena evocato.

Oltre a questo autore però ci è parso necessario rifarci ad almeno altri due filosofi: il primo è Maurice Blanchot, il quale viene qui esplicitamente e ripetutamente chiamato in causa nel secondo capitolo incentrato sulla figura di Lautréamont in quanto egli, esattamente come Bachelard, ha dedicato una accuratissima monografia all’opera del poeta di Montevideo. Alla luce di ciò ci è sembrato illuminante tentare un accostamento tra i due autori al fine di sottolineare non tanto le differenze tra di essi, ma piuttosto le sottili e profonde, seppur non immediatamente evidenti, analogie che è possibile ravvisare tra le loro rispettive letture. Tema portante di questa seconda sezione sarà allora la nozione di animalisation — formulata da Bachelard e ripresa poi da Blanchot, sebbene in accezione fortemente ampliata — attraverso la quale sarà possibile mettere in luce la pregnanza critica di un ricco plesso di concetti che ricorrono negli studi dei due autori.

Per quanto riguarda il terzo capitolo è Jacques Garelli il filosofo che abbiamo deciso di chiamare in causa: “discepolo” eccellente di Merleau-Ponty, poeta, fenomenologo e studioso di estetica, lettore acuto e originale del “secondo” Heidegger, egli nel 1982 ha dedicato una interessantissima monografia alla poesia e al teatro di Antonin Artaud, analizzati sotto il profilo tematico di una problematizzazione del concetto di /lieu/; a partire da ciò abbiamo cercato di sovrapporre le conclusioni a cui perviene Garelli a quelle consegnate da Bachelard nel suo testo intitolato La poétique de l’espace, al fine di far nascere un dialogo tra i due autori mediante il quale cogliere con maggior precisione il significato e la funzione del retentissement, sia nel pensiero dell’uno che in quello dell’altro, pur rispettando naturalmente le ovvie difformità che non possono non risaltare tra i due.

In sede di conclusioni torneremo con maggior attenzione al problema dell’immagine nel tentativo di fornire una risposta alla domanda posta in apertura, ovvero se sia possibile enucleare dalla filosofia dell’immaginazione di Bachelard una sorta di inedita e forse per troppo tempo trascurata imagologia tramite la quale rileggere ancora una volta tutta l’opera di questo grande pensatore, la quale non smette di imporsi alla nostra attenzione col segno di una innegabile e inesauribile attualità.


1. Bachelard e la questione dell’immagine

Sebbene il tema dell’immagine sia presente e senza dubbio ricorrente in tutta la produzione bachelardiana dedicata all’immaginazione materiale, è forse solo con i saggi raccolti nel 1970 che essa viene in evidenza, precisandosi con una chiarezza che non lascia alcuna incertezza sulla sua reale centralità all’interno della riflessione di Bachelard. Con la prima sezione di Le droit de rêver quest’ultimo infatti abbandona le opere letterarie per porsi di fronte ad una serie di testi visivi da cui egli fa sorgere dei rilievi che non possono non risultare fondamentali per la nostra indagine.

Spostandosi con una funambolica disinvoltura da Chagall e Flocon, ponendosi con sguardo apparentemente vergine dinanzi alle opere di Monet e Segall, Waroquier e Marcoussis, Bachelard conduce il suo occhio verso una vertiginosa risalita che culmina a scoprire le origini della luce, [2] il luogo aurorale e notturno in cui l’immagine si dispiega lungo un immenso orizzonte di solitudini, proliferante da se stessa e attraverso se stessa, come la tela del ragno, come un turbine immobile e cristallino che vibra, trema e si dipana attraverso quella invisibile dialettica della profondità che fa del cielo una carne dormiente e scova nei penetrali del sole una noirceur che tormenta la vista portandola insensibilmente a riflettere su se stessa, tramutandola in quella conscience visuelle multiple d’un oeil à facettes. [3]

Ma qual è la tesi portante di Bachelard? Se passiamo in rassegna i saggi di questa prima parte dell’opera non possiamo trascurare il fatto che l’autore più e più volte si impegna a trasformare l’atto stesso della visione in una zona di transizione verso il pensiero puro, verso la riflessione ripiegata su se stessa, attingendo così ad un bacino di risorse speculative che forse la meditazione del testo letterario non gli aveva mai saputo riservare. Pensiero e immagine palesano qui allora una complicità tortuosa ma solida, proficua e inaspettata: il primo penetra nelle cose rappresentate, si sviluppa in esse cercando di mettervi ordine, tentando un approccio che si muove verso la coordinazione dei sensi e dei nessi ravvisabili all’interno dell’opera. L’immagine però interviene sopravanzando quest’operazione di organizzazione minuta: essa trasforma gli oggetti in riflessi, percorre la superfici della tela secondo un movimento radiale, non rettilineo, pluridirezionale, ricorrendo a quell’onirismo geometrico [4] con cui Bachelard designa in modo felicemente ossimorico la minuta ruminazione dello sguardo.

In tal senso non deve stupire l’esito paradossale a cui giunge l’autore in uno degli scritti più lunghi e più impegnativi della raccolta, Introduction à la dynamique du paysage, [5] ove si arriva a parlare di un oeil-paysage in cui l’acqua appare come uno sguardo per il quale
la prunelle est un puits et sur les cercles de l’iris s’en vont les barques à voiles. Puis vient la zone de limpidité, le grand bassin des larmes. Mais tout cela est si vaste que les peines sont légères. L’oeil est un monde en train de regarder. [6]
È più che lampante il sottile sistema di rovesciamenti che Bachelard mette in opera in questo passaggio. Non solo l’immagine guarda, non solo essa diventa una sorta di visione impersonale puntata sull’occhio che cerca di scrutarla, ma improvvisamente essa diviene anche lo spazio di una imponderabile germinazione di figure e possibilità formali inaspettate. È quindi nell’immagine che si sostanzia e si rivela quella puissance de l’imagination dynamique [7] la quale porta ad una canalizzazione precisa delle forze creatrici in disordine. Proprio in apertura del saggio succitato, l’autore per rendere conto di questo stato di cose conia un termine piuttosto evocativo, cosmodrame; [8] con esso Bachelard non vuole indicare null’altro che quel processo di diluizione delle astrazioni concettuali provocate dall’usura delle parole, tramite cui è possibile risvegliare il potere metamorfico degli elementi. [9]

Per Bachelard le immagini sono viventi e pulsanti, in esse cova il mistero di una forza primordiale che scuote l’universo nelle sue forme sclerotizzate riportandolo ad essere quell’uovo cosmico dal seno del quale la dialettica di contente e contenuto riceve i primi contraccolpi dando poi luogo ad una generazione spontanea di figure, aspetti, strutture che mano a mano finiscono con il condensarsi in una serie di conformazioni statiche e invarianti.

Di fronte a ciò, l’immagine affiora dalla profondità delle cose con movimenti aerei, recando al suo fondo uno spazio di immaginazione ancora inoccupato, libero, fluido, aperto a commistioni apparentemente inammissibili, come quelle tra il vivente e l’inorganico, [10] oppure tra l’impalpabilità della luce e la fosca inerzia della materia, le quali nelle immagini contemplate da Bachelard per un attimo si scambiano di posto, confondono le rispettive proprietà dando corpo ad una formicolante alchimia di trasmutazioni, in cui l’energia riposta della materia avvolge l’irradiazione libera e fluttuante della luce in una nebulosa conflagrazione di alfabeti minerali e invertebrati, ai limiti dei quali l’universo stesso sembra essere la smarrita ipotesi di un impenitente rêveur.

L’immagine è pertanto lo spazio di controverse reversibilità, mediante la quale la verticalità dell’essere materiale s’imprime sulla retina col peso di una costruzione che fa del lontano e del piccolo i parametri di un mondo turbolento, in contorsione, sezionato in un sistema di zone in cui l’immaginazione dispiega i suoi volumi, fa sorgere superfici e prospettive reciprocamente comunicanti, puntando in tal modo alla instaurazione di un labirintico sogno, le cui molli spirali sono deputate a catturare l’universo prima che questo si cristallizzi in un deserto arcipelago di scheletrici segni.

L’immagine è tale solo se rappresenta ciò che Bachelard definisce l’être en vibration, ovvero la realtà ricondotta alla sua radice dinamica, attiva, propulsiva, disgregante le indebite pietrificazioni concettuali di un pensiero che sembra aver perso ogni aderenza con la recondita ma necessaria e inestirpabile vitalità e vibratilità della materia. Ciò a cui perviene l’autore di Le droit de rêver è un géotropisme de l’imagination [11] dal punto centrale del quale «s’émeut le drame du monde, [la] conspiration sourde des éléments finit par créer un monde matériellement dramatique où les forces comisques reprennent le rôle que leur avainet attribué les mythes primitifs». [12]

Avviandoci verso le conclusioni di questa prima sezione, ci pare utile ora soffermarci un attimo sulle osservazioni di Sertoli a proposito di questo problema, onde far poi discendere da esse una serie di punti fermi da cui muovere per le analisi da affrontare nei capitolo seguenti. Sulla scorta di quanto egli dice nei capitoli centrali del suo saggio possiamo dunque notare che:

1) l’immagine bachelardiana non è un reperto inerte, non appartiene a una dimensione psichica morta, ma piuttosto attinge le sue forze da strati mentali caratterizzati da dinamicità e fluidità. Essa riconduce l’universo al suo stato nascente, anzi, ce lo mostra come in emanazione, colto nell’atto stesso di differenziarsi per poter divenire, per poter trasformarsi, per poter dispiegare pienamente tutte le sue virtualità morfiche; [13]

2) ogni immagine va intesa come una forma srealizzata, animata da un moto di allontanamento dalle ferree classificazioni che cementano la nostra idea di realtà. Sulla scorta di molte analisi di Bachelard stesso, fonction de l’irréel [14] Sertoli chiama questo aspetto derealizzante dell’immagine, aspetto tramite cui essa si carica di un incontenibile essor, il quale dissolve la statica compattezza del dato concettuale in una mossa dilatazione di trazioni oniriche a cui la realtà prende parte con assorbendo in sé un quid di capacità produttiva — poetica, potremmo anche dire — grazie a cui il mondo stesso è trasceso verso una surréalité che sembra spostarsi pericolosamente e felicemente verso le plaghe ignote di una continua cosmogonia dell’infinitesimo;

3) alla luce di ciò, l’immagine e l’immaginario abitano il cuore informe della materia, la travagliano dall’interno prima che questa esca modellata dalle mani dell’uomo, la solcano e la sommuovono ricavando in seno ad essa uno spazio astratto di ipotesi formali inattuate così che senza problemi è possibile postulare l’esistenza di una ontologia dell’immaginario. [15] L’immaginazione materiale regge tutta l’architettura teorica del vasto disegno bachelardiano perché è solo tramite essa che le immagini possono trovare un principio di legittimazione all’interno del rapporto dell’uomo col mondo. Solo l’immaginazione materiale infatti permette al pensiero di risalire al di qua delle categorie e delle classificazioni scientifiche, verso quel pre-categoriale che forse anche la fenomenologia husserliana, a partire dagli anni ’20 in poi, ha cercato di intercettare e interrogare;

4) l’immagine è un’entità assoluta. L’affermazione può sembrare forte e paradossale, ma Bachelard sa bene che l’immagine non è uno “strumento” scientifico, non appartiene propriamente all’artiglieria epistemologica e, in egual modo, non si lascia imbrigliare nella semplice estetica di derivazione romantica. L’immagine è una sorta di inestinguibile mormorio [16] che salda l’intuizione e il concetto, facendo in modo che una interpenetrazione continua tra i due non smetta di scuotere dall’interno le ossificazioni del secondo e di vivificare dall’esterno — con apporti di derivazioni altre — le formazioni della prima.

Ciò a cui punta Bachelard è dunque la delineazione di una fenomenologia dell’immaginazione [17] grazie a cui imparare a vivere l’essere dell’immagine come quella distanza entro cui l’universo sia libero di dispiegare tutta la propria ontologie penombrale. [18] Chiamando in causa direttamente Sertoli possiamo dunque sostenere che
l’immaginazione non è espressione della natura, di una realtà comunque data, bensì è invenzione di un au de-là: au de-là delle strutture biologiche, del suo medesimo “passato” organico, della natura e insomma di tutto quanto il reale dato. L’immaginazione è “profezia” di ciò che non c’è, l’instaurazione di una surrealtà che è una assoluta nouveauté. [19]
Si tratterà ora di mappare i confini e la fisionomia di questa nouveauté, al fine di vedere meglio come suddetta fenomenologia dell’immaginazione operi all’interno della riflessione bachelardiana. I due saggi che seguono si propongono, anche solo a titolo esemplificativo, di attuare in modo puntuale e capillare questo progetto.


2. Immagine e animalisation. Lautréamont tra Bachelard e Blanchot

Come noto è alla cosiddetta immaginazione materiale che Bachelard dedica buona parte della sua produzione di critica tematica; tali saggi si collocano nell’arco di anni che va dal 1946 al 1958. Ma due opere un po’ difformi da questi precedono [20] e seguono tale corpus. Essi sono il Lautréamont [21] e La poétique de l’espace [22], pubblicati rispettivamente nel 1939 e nel 1957. Come è possibile desumere già solo da uno sguardo fugace alle date di uscita dei due titoli, tale scritti aprono e chiudono la produzione di filosofia della poesia [23], ponendosi però al tempo stesso in uno spazio di meditazione afferente ma diverso a quello delle altre opere di critica tematica.

Tralasciando per il momento La poétique de l’espace, ci soffermeremo in questa sezione sul Lautréamont allo scopo di mettere in evidenza gli aspetti salienti di questa primissima opera di fenomenologia dell’immagine, in modo tale da poterne desumere dei caratteri chiari e definiti, che poi cercheremo di far convergere sulla seconda opera succitata, così da cercare di dimostrare la solidità e la compattezza speculativa del discorso bachelardiano in un arco di tempo piuttosto prolungato.

Innanzitutto è necessario chiedersi perché questo testo ancora oggi susciti così tanto interesse. [24] La risposta non è semplice, ma crediamo che molti degli elementi che rendono tale saggio estremamente interessante si trovano nel fatto che in esso viene anticipato un complesso di motivi e spunti che in un secondo momento Bachelard preciserà e chiarirà con dovizia di esempi. L’argomentazione dell’autore però è già dalle prime battute orientata alla instaurazione di quella fenomenologia dell’immaginazione, di cui parlerà esplicitamente nell’opera del 1957, e nel corso del Lautréamont vi fa riferimento parlando di una phénoménologie de l’agression pure. [25]

Ma perché parlare di una fenomenologia dell’aggressione? E perché dell’aggressione pura? La risposta, se scorriamo il testo, non tarda ad arrivare: per Bachelard parlare di aggressione pura significa parlare di quello stranissimo processo che egli denomina animalisation [26] e col quale si designa la trasformazione della forma — qui propriamente animale — in una forza, in un plesso di forze orientate ma fluide, in un sistema articolato e reticolare di funzioni dirette precisamente nel senso di un’aggressione. Ecco come viene presentata fin dalle prime battute tale situazione:
chez Lautréamont […] la vie animalisée est la marque d’une richesse et d’une mobilité des impulsions subjectives. C’est l’excès du vouloir-vivre qui déforme les êtres et qui détermine les métamorphoses. [27]
Per Bachelard dunque l’animalisation è un’azione che crea le sue forme, la messa in opera di una densa e possente metatropia [28] che dissolve i coaguli del mondo in una pluralità di impulsions, le quali a loro volta si incarnano in un potenziale biologico di controverse attuazioni animali che coesistono e si accavallano in un magma metamorfico — non a caso Bachelard parla qui di suranimal [29] ove le frontiere tra le varie fisionomie bestiali sono evaporate e le forme risultano mobili e deliranti. Proprio sulla scorta di queste osservazioni è possibile vedere come in Lautréamont venga a formarsi un singolarissimo bestiario dato dall’incrocio di tre coordinate:
1) un fattore d’evoluzione ambigua; [30]
2) un complesso di coefficienti dinamici; [31]
3) la traduzione delle sintesi d’immagini in sintesi d’atto. [32]
Ma in che modo questi tre dati si combinano tra loro dando luogo a quella potenza teratologica che caratterizza l’immaginazione ducassiana? Per Bachelard non v’è alcun dubbio: il fattore d’evoluzione — la prima coordinata — è legata alla dimensione propriamente funzionale del concetto di aggressione; se è vero che essa non è vincolata ad una forma definita, ma dipende da un raffinato gioco di energie plasticamente libere, l’evoluzione va intesa qui come uno specimen particolarmente ricco del concetto di trasformazione. L’ambiguità risiede nel fatto che il bestiario ducassiano non obbedisce a una sistematica che sia in grado di classificare gli animali sulla base delle loro caratteristiche fisiche definite (e definitive), ma obbedisce a tutt’altra logica, che è quella in base alla quale suddette formazioni animali sembrano poter trascorrere le une nelle altre unicamente grazie alla sovrapponibilità di nuclei funzionali, che rendono le varie fisionomie di volta in volta assunte del tutto intercambiabili tra di loro.

I coefficienti dinamici — la seconda coordinata — intervengono esattamente in questo frangente, essi polarizzano in modo esasperato alcune zone dell’animale, facendo in modo che questo si condensi attorno ad una sua caratteristica organica che viene a coincidere tout court con l’espletamento della funzione aggressiva declinata secondo modalità tanto variabili quanto equivalenti. L’animale tradizionale, continua Bachelard, condensa in sé delle funzioni pure di aggressione inventiva [33] le quali, di attuazione in attuazione, mostrano l’immaginazione in atto, ovvero mostrano il modo in cui l’immaginazione s’impossessa del mondo delle forme per tradurlo in un vibrante caos di impulsi metamorfici a cui non c’è possibilità di porre argine.

Solo in tal senso diviene comprensibile la terza coordinata — la traduzione delle sintesi d’immagini in sintesi d’atto — con la quale Bachelard arriva a toccare e a inquadrare il nocciolo duro del complesso ducassiano: se è vero che tutta la creazione di Lautréamont obbedisce ai dettami — taciti e forse non del tutto consci nell’autore stesso — di una fenomenologia della crudeltà, [34] allora bisognerà dire che tutto l’universo ducassiano è percorso e travagliato da movimenti densamente metamorfici che diluiscono le immagini su cui fanno presa in un circuito aperto di formazioni organiche, le quali non sono deputate a salvaguardare la coerenza del complesso animale su cui operano, ma piuttosto obbediscono a una sorta di sinergia funzionale, ad una fisiologia elementare, il cui scopo è la conservazione dell’istinto d’aggressione, declinato secondo linee formali sempre diverse e nuove:
l’instinct offensif continue un mouvement avec une volonté sufisante pour que la trajectoire devienne une fibre, un nerf, un muscle. La joie cruelle d’écarteler écarte, aiguise et multiplie les doigts. Les rapports du moral et du physique sont donc rappports de formation. Le vouloir-attaquer forme la point. La défense (coquille ou carapace) est ronde. L’attaque […] est pointue. [35]
Immaginazione motrice, schemi dinamici, sinergia immaginativa [36] sono solo alcune delle formule che Bachelard usa più volte nel corso del testo per chiarire sempre meglio tale stato di cose. Il bestiario di Ducasse non si concretizza mai in un quadro fisso di forme; esso prolifera, si arricchisce e muta di continuo. In esso una contaminazione inesausta di figure immaginarie dà luogo a sempre nuove soluzioni animalizzanti. Si tratta, come osserva l’autore stesso, di una genesi spezzettata, ebete, eteroclita, basata sulla confusione organica, ma al tempo stesso radicata in quella homotétie mécanique [37] che trasforma l’attivismo dell’immaginazione in una serie di sintesi mostruose.

Ma che ne è dell’immagine in tutto questo processo? In che modo la faculté animalisante incontra la questione dell’immagine posta da noi in apertura come portante? È soprattutto nelle conclusioni all’opera del ’39 che tale problema viene impostato con una certa chiarezza. Qui infatti Bachelard sviluppa alcune considerazioni che non solo colgono in pieno il nostro tema, ma anticipano una serie di riflessioni che nei saggi successivi l’autore affronterà con sempre maggior rigore. [38]

Come visto finora, l’immaginazione possiede della linee di forza elastiche e tenaci. Esse intervengono sulla realtà, nella realtà, animando, dinamizzando la materia, mettendola in azione attraverso un gioco sperimentale di infrazioni e forzature formali che finiscono con l’alienare l’immagine del mondo che l’uomo eredita dalle conoscenze pregresse. Il complesso ducassiano opera su queste immagini mettendo in atto una sensibilità allucinatoria [39] che finisce con lo scuotere la fauna psichica del soggetto, spingendo quest’ultimo verso una regione di metamorfosi ove l’antitesi tra varie possibilità organiche non si dà. Col Lautréamont siamo quindi ad un passo dalla tematizzazione di quella conscience rêvante che tanta parte avrà nella produzione futura del grande epistemologo. Ma ciò che ci interessa qui è un’espressione che Bachelard usa per la prima volta: image active. [40]

Che cosa designa tale formula? Innanzitutto quello stato di metamorfosi permanente che abbiamo visto reggere e scandire tutta la fenomenologia ducassiana; in secondo luogo quell’ardito e raffinato processo di liberazione dalle pastoie del reale col quale il soggetto può muoversi verso la reinvenzione di un mondo proiettato in una trascendenza lontana ove le immagini che da esso ci giungono siano il precipitato di azioni, reazioni, riattivazioni di energie plasmatrici che implodono nella materia col fremito disgregante di una immaginazione aperta su esiti formali non inibiti dalle anguste paratie di una causalità seccamente scientifica. In terzo luogo l’immagine attiva denuncia la possibilità stessa di briser les image; [41] nel corso del Lautrèamont noi in sostanza assistiamo ad una sorta di guerra intestina tra due tipologie profondamente diverse di immagini: da un lato esse sono sclerotizzate, paralizzate in una concrezione morta di sedimentazioni da cui il pensiero è come intrappolato, sepolto in essa e condotto all’inerzia fino quasi alla scomparsa di ogni slancio timidamente inventivo. A questo tipo di immagini si contrappone un’ondata rovente e disordinata di fantasie [42] la quale travolge e avvolge suddette immagini in un turbine di traiettorie morfiche [43] diverse, altre da quelle che avevano presieduto la loro solidificazione, al fine di proiettarle all’interno di mobili processi di dynamisation, [44] che espandono il reale in un ragnatela di realizzazioni parallele e laterali, in seno a cui tutte le fossilizzazione ottenute in nome di uno sforzo di obiettività misurano la loro assoluta staticità immaginativa e la loro totale inerzia creatrice. Ricorrendo ad un gioco di parole potremmo dire che ogni imagination des formes va intesa come una imagination déforme, ovvero come un’immaginazione che deforma la morta congerie di immagini in cui spesso incapsuliamo il mondo. Giustamente Sertoli chiosa:
il trasformarsi in immagine della realtà è un dépassement di quella stessa realtà (ecco perché il surreale è, per Bachelard, immagine) […]. Le immagini vanno al di là dei loro “modelli”, che redimono nella misura in cui li srealizzano. [45]
A fronte di tutta la riflessione sull’immaginazione materiale che verrà, possiamo quindi dire che l’animalisation ducassiana è il primissimo esempio di srealizzazione che ci offre Bachelard. Probabilmente però nessuno meglio di Blanchot ha definito tale statuto dell’immagine: egli infatti in un saggio del ’63 dedicato proprio a Lautréamont parla di essa come di una impressione d’infinito [46] lasciata in noi dalle sue potenzialità perversamente metamorfiche.

Ma quali sono i punti di contatto e le differenze tra questi due autori? In effetti va detto subito che Blanchot per buona parte del suo testo amplia molte delle posizioni bachelardiane soffermandosi anche su aspetti degli Chants tralasciatida Bachelard. Si vedano ad esempio i passi sull’oceano e le riflessioni sulle figure della chioma, della meteora, del turbine, dello sguardo. In essi il mistero ipnotizzante e l’ossessione ciclica [47] della metamorfosi vengono analizzati su basi che ricordano molto da vicino il saggio del ’39. Si legga a titolo d’esempio questo estratto:
chi non vede che la tensione impressa al suo linguaggio e al suo essere da una violenza così forte da non permettergli di riposare nell’eccesso di una sola passione, e chi non vede che questa instabilità che lo obbliga a oltrepassare la forma dei sentimenti, può indurlo a oltrepassare qualsiasi forma? Chi non avverte la specie di vertigine attraverso cui Maldoror entra in contatto con quella potenza indefinita che è l’oceano, seno primordiale delle metamorfosi, elemento originariamente puro, originariamente oscuro, sostanza diffusa, senza forma e aperta a tutte le forme, esistenza compatta come la pietra e tuttavia vivente, pienezza sempre una e sempre altra e in cui chi penetra diviene altro? [48]
In quell’impressione d’infinito, per Blanchot, Lautréamont capta e divora tutto, in una sorta di cosmica peristalsi psichica che porta l’universo stesso ad assumere le fattezze di un estremo rottame fiammeggiante scagliato in una eternità di pietra.

Entrambi gli autori inoltre si confrontano con gli Chants al fine di mettere alla prova un metodo critico ben preciso. Vi è però una sottile differenza: Bachelard parte da Ducasse, il suo studio dedicato all’opera del Conte è solo il punto di inizio di una riflessione che poi si snoderà nei decenni seguenti confermando, ampliando, modificando alcune delle conclusioni a cui egli giunge in questo scritto del ’39; per Blanchot Lautréamont è il punto d’arrivo di una indagine iniziata verso la fine degli anni ’30 e che solo per vie traverse, potremmo dire, culmina negli Chants. Il suo Lautréamont infatti è il primo grande testo diffusamente critico, composto con la esplicita intenzione di sottoporre a verifica l’efficacia di metodo d’analisi del testo letterario che fino ad allora aveva avuto numerose applicazioni, ma sempre piuttosto parziali. [49]

Nonostante questa differenza, è possibile identificare tra i nuclei portanti della riflessione di Blanchot, ciò che egli stesso denomina potenza d’immagine [50] da cui deriva che
chacun des êtres nouveaux [sorti dalla fantasia ducassiana], quoique précipité dans les cycles des métamorphoses par l’ivresse et l’exaltation, éprouve le besoin de se perdre dans je ne sais quelle matière stagnante, de devenir aussi quelque chose qui colle et qui adhère, da s’unir à une masse informe, sans laquelle il n’y a plus de métamorphose possible, si celle-ci est avant tout, sous le prétexte d’une forme différente, la prise de contact avec une absence de forme, avec la densité et l’opacité de la matière pure. [51]
Anche qui l’immagine opera per rottura, dispersione, esplosioni vulcaniche di strati sotterranei incandescenti, dietro il cui apparente disordine domina un attento scrupolo per la composizione, l’organizzazione, la certosina orchestrazione del caos, quasi perseguendo una lucidità conquistata per crescita di buio. Se per Bachelard si trattava di portare la visione ad uno stadio d’essere pre-categoriale, per Blanchot è necessario condurre l’uomo e il mondo in uno spazio di rappresentazione dove sia possibile tratteggiare in modo ravvicinato la vita prenatale, spostandosi in direzione dell’ignoto, là dove le immagini obbediscono simultaneamente ad una duplice tendenza, ora centripeta, per cui tutte le cose cercano di tornare verso quel centro oscuro in cui tutto assomiglia a tutto, ove forme e dimensioni vengono come livellate in una media stazionaria di virtualità plastiche tenute a freno, ora centrifughe, a causa delle quale tutte le cose si respingono e confliggono nello spazio di una permutazione continua e feroce:
[nel corso degli Chants] tutto su ripete, tutto torna sempre in superficie, per poi immergersi in profondità, e poi riemergere e di nuovo sparire. Si pensa a una sorta di gravitazione planetaria che mediante leggi di complessità estrema imporrebbe, con periodicità esattamente calcolata, il ritorno davanti ai nostri occhi di tutti questi corpuscoli, nei brevi istanti in cui si compongono e formano un insieme visibile, prima di disgregarsi per portare a termine la parte notturna del loro percorso. [Tali corpuscoli] riappaiono però altri da quelli che erano: hanno subito una trasformazione spesso radicale, è come se fossero esplosi durante il viaggio o avessero tratto, dai rapporti momentanei stabiliti con altri corpi, nuove possibilità di natura e di forma. [52]
Ecco convergere finalmente i discorsi dei nostri due autori: nuove possibilità di natura e di forma, scrive Blanchot; Bachelard nella stessa accezione aveva parlato della dynamisation/animalisation come di quella forza di espansione e fratturazione attraverso cui il soggetto può emanciparsi dalle categorie dell’intelletto, liberarsi dagli stati fossili della rimozione intellettuale, in modo da fare dell’immaginazione «une fonction d’essai, de risque, d’imprudence, de création». [53]


3. Immagine e retentissement. La questione dello spazio in Bachelard e Artaud

Abbiamo visto finora che l’animalisation è il primo caso srealizzazione che Bachelard affronta e sviluppa. Esso si colloca in limine al corpus effettivo di opere che andranno a costituire la parte sulla immaginazione materiale. Dall’altro capo di questa produzione troviamo invece un saggio dedicato allo spazio e, in particolare, alla nozione di retentissement. Sono passati circa vent’anni dal Lautréamont; in questo lasso di tempo l’autore si è concentrato principalmente [54] su ciò che più tardi verrà chiamata critica tematica; molte delle intuizioni, apparse in modo sostanzialmente embrionale nell’opera del ’39, hanno subito una radicale trasformazione, divenendo temi e termini di una fenomenologia sempre più dettagliata e ravvicinata non solo della cosiddetta conscience rêvante, ma anche e soprattutto di ciò che lo stesso Bachelard proprio in questa opera del 1957 definisce una filosofia della poesia. [55]

Ma che cosa era cambiato? È ancora una volta Giuseppe Sertoli a indicare con grande precisione lo stato di cose a cui Bachelard perviene con le ultime opere, le Poétiques: [56] innanzitutto Bachelard è arrivato a ipotizzare l’esistenza e la presenza nell’uomo di un cogito rêveur; [57] in secondo luogo la riflessione sulla materia è andata nel corso delle varie opere verso una astrazione sempre maggiore. Se il libro sullo spazio ruota attorno al problema delle immagini — di intimità, di protezione, di quiete, di felicità — è perché esse rappresentano il punto culminante dello spoglio critico di cui è stata oggetto l’immaginazione materiale: «ne La poétique de l’espace [...] ciò che dà coesione alla serie di immagini […] non è già la materia ma un valore astratto». [58]

Una filosofia della poesia, agli occhi di Bachelard, è postulabile solo sulla base di una determinazione fenomenologica delle immagini, [59] la quale è espressamente orientata a individuare «l’azione mutante della immaginazione poetica nel ravvicinato particolare delle variazioni delle immagini». [60] Azione mutante e variazione delle immagini sono formule che non possono non richiamare alla mente le nostre riflessioni sul Lautréamont. Ancora una volta l’immagine arde qui come una sorta di rarefatto cratere fenomenologico dalla superficie del quale è possibile sporgersi per osservare le traversie del fondo. Per Bachelard l’immagine poetica è un mondo per risalire verso le origini stesse del linguaggio e della visione, è il punto di contatto con la profondità riposta delle cose.

Ma in che modo è possibile attuare tale discesa? Quali sono gli strumenti offerti al filosofo mediante i quali sfiorare questa profondità? Per il Bachelard del libro sullo spazio non v’è alcuna incertezza: la via regia per condurre a buon fine quest’opera di scavo è il retentissement. Che cosa sia di preciso il retentissement non è semplice a dirsi. In effetti l’autore desume tale termine da Minkowski, ma gli imprime una curvatura talmente personale che è difficile addirittura suggerirne una traduzione [61]. In ogni caso esso opera come un fitto sistema di risonanze, vibrazioni, riverberi d’immagini nel cui spazio di irraggiamento il lettore è tenuto a porsi se desidera intercettare il sistema di figure da cui nasce la poesia che sta analizzando. Il retentissement assomiglia al tenue ma turbinoso sprigionarsi di forze psichiche attraverso le quali viene veicolata una sequenza di echi profondi che si producono come fiammate d’essere. [62] Tali fiammate ci raggiungono comunicandoci qualcosa della rêverie del poeta; tramite esse il reticolo dell’immaginazione si dipana non tanto dinanzi a noi, ma in noi, con la stessa forza d’urto delle immagini da cui sono scaturite e a cui infinitamente rimandano.

È per questo motivo che un’opera come La poétique de l’espace costituisce una sorta di psicoanalisi della pura interiorità lirica dei poeti presi in esame. Il retentissement fenomenologico [63] intercetta la vita colta nel riverbero, a volte fosco a volte splendente, di un linguaggio e di una immaginazione al fondo dei quali l’essere parlante e l’essere sognante per brevi ma intensi istanti coincidono dando luogo a rotture semantiche [64] da cui tralucono sezioni di una dimensione psichica altrimenti non percepibile, preclusa ad ogni altro tipo di accostamento.

Penetrare nella dinamica del retentissement significa vivere e recepire le immagini a partire dal punto sorgivo stesso da cui il poeta le ha tratte; significa cioè accostarsi alla loro scaturigine e sorprenderle nel loro farsi, coglierle nel processo aperto del loro infinito strutturarsi attraverso procedure di significazione più o meno determinate. Col retentissement le immagini divengono una soglia invisibile in prossimità della quale pensiero e mondo si riflettono l’uno nell’altro, scambiandosi di posto, tramutandosi l’uno nello specchio dell’altra in fondo al quale ciascuno di loro è libero di apparire all’altro con i propri caratteri completamente mutati.

Ma perché fare dello spazio il campo d’elezione in cui mettere alla prova il retentissement? Prevalentemente per tre ordini di motivi strettamente interconnessi:

1) innanzitutto lo spazio permette di rimanere ancorati a quella dimensione astratta che Bachelard aveva conquistato nel corso della sua riflessione quasi ventennale e a cui Sertoli stesso, come appena visto, attribuisce un rilievo non trascurabile; [65]

2) alla luce di ciò, il mondo poetico stesso dei vari autori presi in esame non può prescindere dal delinearsi con i tratti e i connotati di una spazialità intrisa di consistenti valorizzazioni psichiche;

3) inoltre Bachelard nota che l’immagine stessa finisce sempre col sostanziarsi in uno spazio preciso, densamente carico di valenze e vibrazioni emotive, psichiche, esistenziali. Non è allora un caso che egli parli, verso la chiusa della sezione introduttiva, della necessità di schizzare una fenomenologia del verbo abitare. [66]

Lo spazio riveste una tale importanza che Bachelard sostituisce alla psicoanalisi ciò che egli battezza topo-analisi, indicando con ciò quella forma di riflessione in cui:
lo spazio è tutto […]. Attraverso lo spazio, nello spazio rinveniamo i bei fossili della durata, concretizzati da lunghi soggiorni. L’inconscio soggiorna, i ricordi sono immobili, tanto più solidi quanto più vengono spazializzati. Localizzare un ricordo nel tempo è una preoccupazione da biografo, corrispondente soltanto a una sorta di storia esterna, una storia per l’uso esterno, da comunicare agli altri. Tesa più della biografia all’approfondimento, l’ermeneutica deve determinare i centri del destino sbarazzando la storia del suo tessuto temporale congiuntivo, senza azione sul nostro destino. Per la conoscenza dell’intimità, più urgente della determinazione delle date è la localizzazione spaziale della nostra intimità. [67]
Accettando di andare simultaneamente contro ogni freudismo e contro ogni bergsonismo, in questo passo Bachelard chiarisce due concetti chiave: lo spazio della sua fenomenologia non è né quello della psicoanalisi, né quello del biografo, ma è lo spazio immaginario, puro, astratto rispetto a ogni compromissione d’obiettività, che viene a coagularsi in immagini attorno ai valori che rimandano alla dimensione dell’intimità. Ma tale spazio ha anche un’altra caratteristica: esso è fuori dal tempo; sebbene muti, non diviene, non invecchia. La topo-analisi lavora così secondo due parametri correlati: verticalità e concentrazione. [68] Le immagini si condensano attorno a polarità ampiamente variabili, ma tutte hanno in primis un rapporto diretto con la dimensione mnestica del poeta; da questa di sviluppa un corpus di figurazioni e proiezioni immaginarie che fanno del mormorio incessante del ricordo, del desiderio — infantile o meno — della speranza, dei timori il loro bacino da cui attingere elementi di trasformazione nonché sfumature di precise valorizzazioni psichiche.

L’immagine, colta in questa accezione, si offre come uno spazio onninglobante, [69] punto germinale di un semantema onirico che non smette di profilarsi secondo una molteplicità sostanzialmente illimitata di configurazioni. Lo spazio allora fa parte di quei symboles moteurs [70] animati da una sorta di dinamismo archetipico grazie al quale le immagini dominanti tendono ad associarsi in una dialettica trasversale di immensità raccolta e profondità dispiegata, di intimità ora protetta ora minacciata, tutte orientate però verso quella interiorizzazione che fa dello spazio la materia sensibile di una illimitata contemplazione onirica.

Case, cassapanche e armadi, nidi, gusci, angoli sono i temi di questa contemplazione. Lo spazio, attraverso le ripercussioni del retentissiment, risuona metamorficamente in noi; le immagini, che da esso si sprigionano, hantent la nostra visione delle cose in un continuo e felice travaglio immaginario che fluidifica la nostra immagine del mondo rendendocelo intenso prima d’essere vasto. Lo spazio è così immagine assoluta: [71] le variazioni a cui esso si presta non conoscono un margine effettivo, le impregnazioni psichiche che lo spingono a mutare ininterrottamente fisionomia e nome lo attraversano da parte a parte trasformandolo in un nucleo onirico vivo, pulsante, pervaso d’un fremito dinamico inarrestabile:
muri, rocce, tronchi d’albero, costruzioni metalliche hanno perduto ogni rigidezza intorno al nucleo mobile. Da ogni parte il poeta fa scaturire immagini, ci regala un atomo di universo moltiplicandolo. Guidato dal poeta, il sognatore, spostandone il volto, rinnova il suo mondo. [Il sognatore] fa correre onde di irrealtà su ciò che era il mondo reale. Il mondo esterno, nella sua unanimità, si è trasformato in una ambiente malleabile a piacimento davanti all’unico oggetto duro e perforante, vero uovo filosofico. [72]
Ciò a cui si dedica Bachelard in questo scritto del ’57 è una poetica dello spazio sostanzialmente positiva; da essa vengono tenute fuori tutte le valorizzazioni sostanzialmente disforiche di cui lo spazio può essere imbevuto. Ma soprattutto egli nel corso della sua trattazione fa dello spazio principalmente un luogo di raccoglimento, di concentrazione e assimilazione di immagini che rimandano integralmente ad una fase di deliberato e ostinato ripiegamento del poeta su se stesso. Anche l’ottavo capitolo, per esempio, dedicato alla immensità, non sfugge a questo diagramma e prova ne sia che in questa sezione la stessa immensità è intima, legata strettamente alla solitudine del rêveur e dunque ottenuta per via concentrazione; non deve stupire allora che Bachelard parli di una immensità interiore, dell’immensità di un essere immobile che trova l’accesso verso l’illimitato unicamente nell’universo dell’io.

Sulla base di queste riflessioni forse può risultare utile un confronto con l’opera di Artaud. Bachelard infatti non è stato l’unico a collegare retentissement e spazio. Già Artaud, in una serie di scritti risalenti agli ’20-’30 aveva parlato di retentissement e soprattutto si era interrogato sulle potenzialità metamorfiche dello spazio, anzi, di uno spazio specifico, quello del corpo proprio. È stato senza dubbio Jacques Garelli a inquadrare con maggior precisione questo nesso e ad analizzarlo in uno studio del 1982 intitolato Artaud et la question du lieu. [73]

Va detto subito che in effetti le riflessioni di Garelli sopravanzano di molto sia le questioni da noi affrontate in questa sede, sia le problematiche proprie del discorso di Bachelard; ci sembra tuttavia utile tentare un accostamento tra i due perché, sulla base delle analisi di Garelli, la posizioni di Artaud sul concetto di lieu rappresentano una sorta di controparte simmetrica a La poétique de l’espace. Due elementi soprattutto ci portano ad affermare ciò:

1) Artaud, differentemente da Bachelard, sceglie di scontrarsi anche con una dimensione massicciamente disforica dello spazio. Il retentissement non procede in lui per via di raccoglimento, ma piuttosto di dissipazione;

2) se per Bachelard lo spazio era il portato immaginario di una precisa polarizzazione di stati e dati psichici, per il poeta di Marsiglia è la psiche a diventare il luogo deforme di una proliferazione ingestibile di immagini che travolgono e scompaginano letteralmente il soggetto.

È vero, anche per Artaud si tratta di investire lo spazio — come recita il titolo del terzo capitolo —, ma l’investimento qui avviene in modo totalmente difforme rispetto a Bachelard. Se per questo l’immensità dell’universo veniva recuperata penetrando nella intimità dell’uomo, in Artaud è il corpo stesso del soggetto a diventare teatro di una amplificazione metamorfica priva di limiti. Non solo, ma tale amplificazione è a sua volta doppiata da un processo di commistione tra interno ed esterno che conduce alla estinzione del soggetto in un caleidoscopio di luoghi e spazi che non smettono di sorgere l’uno nell’altro. Un dedalo di germinazioni [74] irradia da questo viluppo alienante di ibridazioni impossibili: il volume delle cose deposita il suo retentissement nell’io [75] e il pensiero stesso sorge ai bordi di esso. Citando Garelli possiamo dire che il retentissement si iscrive qui come
l’mmersion du corps dans un élément en quelque sorte gazeux et liquide où les mouvements de sortie de soi, d’absorption, d’éclatement, se ressemblent dans une Unité qui semble pulvériser ses signes dans l’illisibilité d’un alphabet sacré: le lieu même du monde en expansion. [76]
E lo stesso Artaud in Les danseurs du rituel scrive:
on se sent comme dans une onde gazeuse et qui dégage de toutes parts un incessant crépitement. Des choses sorties comme de ce qui était votre rate, votre foie, votre coeur ou vos poumons se dégagent inslassablement et éclatent dans cette atmosphère qui hésite entre le gaz et l’eau, mais semble appeler à elle les choses et leur commander de se rassembler. [77]
Lo spazio del corpo deborda oltre i propri limiti fisici diventando un imponderabile luogo di incroci materiali, scambi e transizioni di stati, compenetrazioni di ordini che vanno dall’umano all’inorganico, dall’immateriale all’animale, in un movimento di congiunzione e alterazione, eruzione e inserzione eteroclite, paradossali, destrutturanti. Usando un metafora potremmo dire che in Artaud ogni corpo è in realtà un sistema aperto di corps conducteurs [78] tramite i quali il mondo esterno diventa un immenso lieu pensant [79] dal centro del quale un inesauribile fermentare di immagini visive e sonore si libera allo stato puro.

Ma se il corpo diventa mondo, il mondo diventa luogo e, in particolare, diventa uno specifico tipo di luogo: sappiamo bene che Artaud era uomo di teatro, pertanto lo spazio che in questo chiasma di forme e forze viene a definirsi non può non essere quello scenico. In questa sorta di ubiquità ontologica del corpo proprio, espanso fino a tramutarsi in uno spessore d’essere che ha fatto della propria étoffe mentale una propulsione dinamica tramata nella torpida resistenza di identità liquide, la scena teatrale si dilata fino ad occupare tutto l’orizzonte in cui «la forza dissociativa delle apparenze materiali» arriva in ultimo a convertirsi «in un insieme abbagliante, pieno di esplosioni, di fughe, di segreti canali, di sinuosità, in tutte le direzioni della percezione interna e esterna». [80]

Se per Bachelard la fenomenologia dell’immaginazione poetica, almeno per quanto riguarda lo spazio, si incarnava in un complesso di immagini afferenti alla sfera dell’intimità più riposta, della solitudine, nonché dell’infanzia, in Artaud lo spazio psichico deflagra in una vorticosa osmosi di immagini destinate a spazializzarsi in una specie di continuo riflusso sempre sospeso tra l’organico e il minerale: «quand je me pense, ma pensée se cherche dans l’éther d’un nouvel espace […]. Je participie à la gravitation planétaire dans les failles de mon esprit». [81]

Per fare un esempio, l’immagine bachelardiana del nido condensava una serie di valori attorno ad in indice onirico stabile seppur declinato in diverse varianti. Tale indice veniva ottenuto mettendo a fuoco una serie di tratti caratterizzanti che, pur nella loro continua permutazione, rimanevano non sono invariati, ma risultavano ad uno sguardo attento sempre reperibili e riconoscibili. [82] Il nido connetteva così il semantema del rifugio, l’idea di una dimora calda, dolce, sicura, riposta tra le foglie di un albero o comunque al riparo dallo sguardo di un ipotetico predatore; ma al tempo stesso, esso suggerisce l’immagine di una vita alata prossima a spiccare il volo. L’immaginazione, pur nella sua ricerca d’astrazione, non perde mail il contatto con i dati sensibili da cui questa prende le mosse; tali dati infatti vengono sempre da capo ricombinati fra loro, posti in attrito, calati in un intreccio di immagini in espansione, le quali dinamizzano e srealizzano il dato sensibile di partenza. Il nido diventa in ultimo un’estensione del corpo che vi si situa, iniziando così a valere come il precipitato immateriale delle energie psichiche che lo elaborano incessantemente.

In Artaud accade esattamente l’opposto: l’esprit sème son phosphore [83] e tale phosphore infiamma d’un ardore freddo e viscerale tutto l’universo. Ma la combustione cosmica in cui questo dilaga deflagra innanzitutto nel corpo, a partire dal corpo, il quale si spazializza in scena, abolendosi in quella ontologia della distanza [84] in cui l’io si trova ad essere ossessionato dalla incubazione folgorante di un altrove illocalizzabile, seppur innervato nell’erratica sensibilità del corpo proprio, mentre il soggetto si tramuta in un reticolo incrostato di forme incompiute e aberranti. Un saggio di tale stato di cose Artaud ce lo offre in un passo de L’ombilic des limbes:
une grande ferveur pensante et surpeuplée portait mon moi comme comme un abîme plein. Un vent charnel et résonnant soufflait, et le souffle même en était dense. Et des radicelles infimes peuplaient ce vent comme un réseau de veines, et leur entrecroisement fulgurait. L’espace etait mesurable et crissant, mais sans forme pénétrable. [85]
Se Bachelard, nella sua opera del ’57, aveva individuato proprio nell’immagine l’elemento in cui «il divenire ha mille forme ma l’essere non subisce alcuna dispersione», [86] in Artaud al contrario l’immagine è la dispersione stessa di un essere che ha solo divenire.


Conclusioni

Se scorriamo, anche solo rapidamente, i punti chiave da noi messi in mostra nei due capitoli precedenti, risultano innegabili almeno due dati macroscopici: in primis la centralità dell’immagine sia nel Lautréamont che ne La poétique de l’espace; in secundis il processo di precisazione e di chiarificazione di questa centralità, delineatosi nell’arco di tempo che salda il testo del ’39 a quello del ’57. Ma che cos’è qui l’immagine? Perché essa diventa così importante man mano che la riflessione procede dal Lautréamont alle due Poétiques? Una prima risposta la troviamo nel noto testo di Wunenburger dedicato a La philosophie des images:
L’immagine è […] nell’uomo la traccia di una appartenenza al mondo, alla vita o alla verità, e l’uomo trova in essa una via che è sì, ineluttabilmente, metaforica, ossia tendente a tradursi in altro da sé, ma pur sempre atta a rivendicare un’autenticità superiore a quella dell’astrazione concettuale. [87]
Un’appartenenza remota, forse indefinibile, forse dimenticata, è quella che l’immagine ci fa scoprire tra noi, il nostro corpo, la nostra psiche, e il mondo, rivissuto tramite una serie di vagli e scandagli speculativi — probabilmente sarebbe meglio dire contemplativi — che affondano nella materia prima che questa venga messa in ordine, venga disciplinata, dal pensiero concettuale. In tal modo immagine e materia rivelano il loro tenace connubio: la prima infatti incontra la seconda nel momento in cui quella è portata ad incarnarsi nelle strutture, nella oscura texture, di questa; ma la seconda, proprio nel l’attimo in cui diventa immagine, non può non tramutarsi in un plesso onirico aperto ad una serie imponderabile di accidenti morfici, da cui il soggetto riemerge con la possibilità di posare nuovamente sulle cose uno sguardo vergine. L’immagine naturalmente non è la cosa, ma essa nasce come una unità fondata su una doppia frattura: da una parte col mondo sensibile messo in forma dalle categorie della obiettivazione razionale, dall’altro con i processi intellettivi che presiedono a questa stessa obiettivazione. In tal senso la fenomenologia dell’immagine funge «da piattaforma per un modello morfogenetico o semiogenetico del pensiero astratto». [88]

Sulla base di questi presupposti possiamo dunque osservare che:

1) le immagini posseggono senza alcun dubbio una identità precisa di significazione e di trasformazione; esse si nutrono di un vasto sistema di apporti eterogenei, ma la loro funzione e la loro dinamica consistono essenzialmente nello srealizzare le compagini concettuali, proiettando su di essa un fitto plesso di forme e forze poste in tensione. L’immagine quindi è simultaneamente un bacino infinito di forze formanti [89] e di forme forzanti [90] le cristallizzazioni indebite operate da un pensiero troppo sbilanciato sul versante razionale;

2) le immagini non sono né forme simboliche né strutture metaforiche: [91] esse nascono essenzialmente da un contatto critico con la materia; qui critico va inteso in una accezione risolutamente etimologica. L’immagine penetra il mondo sensibile e lo riplasma selezionandone alcuni aspetti, alcuni tratti, alcune sfumature; il dinamismo che questa insuffla in esso, e da cui essa stessa trae sempre nuova linfa, fa in modo che la rêverie dia inevitabilmente come risultato «una rappresentazione composita, bifronte, che si nutre a monte, all’interno del soggetto, di forme archetipiche, e a valle al di fuori del soggetto, della sostanzialità materiale del mondo percepito»; [92]

3) le immagini contengono ed esprimono un potere creativo che, facendo presa sul mondo fattuale, dissalda quest’ultimo trasfigurandolo in un vuoto scagliato contro il peso della realtà, in una assenza che vale come varco verso un al di là, verso una fantasmatica trascendentale, [93] grazie a cui il nostro rapporto col mondo si tramuta in un compito infinito di continua ridefinizione e reinvenzione.

L’immagine è così una trascendenza immanente, un essere che taglia trasversalmente l’esserci del mondo affiancando vicinanza e lontananza, presenza e assenza, la positività di un’energia creatrice con la negazione che essa porta nella realtà. In essa probabilmente si palesa quella puissance du désastre che Blanchot ha cercato di definire in suo celebre testo del 1980 [94] come quello spazio del frammentario e dell’incessante, ove ogni ripetizione finisce col disfarsi a forza di ripetersi, principio creativo di uno spazio in deriva il quale nel proprio smarrimento prospetta ipotesi di un altrove, i cui confini delimitino e al tempo stesso dissimulino la presenza pressante e inafferrabile di una dimensione ora penchant vers l’asémique [95] ora predisposta ad un’irruzione d’essere aurorale. L’immagine è quindi questa spinta verso
l’éclat inapparent [d’une] clarté sans lumière […], brûlant la penséé qui la pense et l’exigeant dans cette consumation où trascendence et immanence ne sont plus que des figures flamboyantes éteintes: des répères d’écriture que l’écriture a toujours par avance perdus, celle-ci aussi bien excluant le processus sans limite que semblant inclure une fragmentation sans apparence qui suppose cependant encore une surface continue sur laquelle elle s’inscrirait, comme elle suppose l’expérience avec laquelle elle rompt. [96]
Solo in tale fenomenologia dell’immagine funzione di irreale [97] e immaginazione materiale trovano finalmente una corrispondenza precisa rivelando una collimazione esatta tra la messa in stato di emergenza del mondo e l’incandescenza dell’io.


[1] G. Sertoli, Le immagini e la realtà. Saggio su Gaston Bachelard. La Nuova Italia, Firenze 1972. Da ora sempre abbreviato in nota con IR.
[2] Come recita il titolo di uno dei saggi di questa sezione, Cfr. G. Bachelard, Le droit de rêver, José Corti, Paris 1970, pp. 32-38. Si tratta di una raccolta uscita postuma. L’autore, come notano i curatori nell’avertissement posto in apertura, non solo non aveva previsto tale silloge di interventi, ma non s’era pronunciato né sulla scelta dei testi, né tantomeno sul titolo eventuale da dare loro.
[3] Ivi, p. 110.
[4] Ivi, p. 98.
[5] Ivi, pp. 70-94.
[6] Ivi, p. 91.
[7] Ivi, p. 77.
[8] Ivi, p. 69.
[9] Cfr. a questo proposito Le peintre sollicité per les éléments, pp. 38-43.
[10] Ivi, p. 36, il saggio è dedicato alle illustrazioni della Bibbia per opera di Chagall.
[11] Ivi, p. 160.
[12] Ivi, p. 136.
[13] «L’image c’est l’être qui se différencie pour être sûr de devenir». La terre et les rêveries de la volonté, José Corti, Paris 1965, p. 26.
[14] IR, pp. 249-274.
[15] Ivi, p. 229.
[16] Ivi, pp 290-303.
[17] G. Bachelard, La poetica dello spazio, trad. it. di E. Catalano, Dedalo, Bari 1975, p. 14. Da ora sempre abbreviato in nota con PE.
[18] G. Bachelard, La poétique de la rêverie, PUF, Paris 1965, p. 95.
[19] IR, p. 165.
[20] In effetti, se vogliamo seguire Sertoli, va detto che il primissimo testo sulla immaginazione materiale è di un anno anteriore al Lautréamont ed è La psychanalyse du feu.
[21] G. Bachelard, Lautréamont, José Corti, Paris, 1939, riedito poi in versione accresciuta nel 1951. Da ora sempre abbreviato in nota con L.
[22] Cfr. nota 18.
[23] PE, p. 5. Con l’eccezione naturalmente di due testi: La poétique de la rêverie e La flamme d’une chandelle, usciti entrambi nei primi anni ’60.
[24] Per una rassegna bibliografica sulla fortuna critica di Lautréamont e del Lautréamont bachelardiano cfr. F. Dalmas, Les chants du signe: transfomrations du langage chez Lautréamont et Mallarmé, Dalhousie French Studies, Vol. 67, (Summer 2004), pp. 49-61.
[25] L, p. 9.
[26] Ivi, p. 11 e 19.
[27] Ivi, p. 12.
[28] Ivi, p. 17.
[29] Ivi, p. 24.
[30] Ibid.
[31] L, p. 27.
[32] Ivi, p. 28.
[33] Ivi, p. 29.
[34] Ivi, p. 31.
[35] Ivi, p. 35.
[36] Ivi, pp. 40-41.
[37] Ivi, p. 51.
[38] Cfr. soprattutto IR, pp. 145-204.
[39] L, p. 113.
[40] Ivi, p. 105.
[41] Ivi, p. 149.
[42] Ben consapevoli della mostruosa ricchezza semantica di questo termine, ci permettiamo di precisare che qui /fantasia/ va intesa nell’accezione che le conferisce in Husserl in “Phäntasie, Bildbewusstsein, Erinnerung”, Husserliana XXIII.
[43] Ivi, p. 144.
[44] Ivi, p. 155.
[45] IR, p. 161.
[46] M. Blanchot, Lautréamont e Sade, ed. it. a cura di V. del Ninno, SE, Milano 2003, p. 188. Da ora sempre abbreviato in nota con LS.
[47] Ivi, p. 117.
[48] Ivi, p. 114.
[49] Tra il 1943 e il 1949 Blanchot pubblica due grandi raccolte di saggi sulla letteratura: Faux pas e La part du feu. In questo secondo testo è contenuto anche un saggio intitolato De Lautréamont à Miller in cui l’autore cita espressamente il saggio di Bachelard oggetto di questo nostro confronto. Cfr. nota 50.
[50] LS, p. 77.
[51] M. Blanchot, La part du feu, Gallimard, Paris 1949, p. 169.
[52] LS, p. 118.
[53] L, p. 155.
[54] I testi afferenti direttamente alla dimensione epistemologica sono Le Rationalisme appliqué (1949), L’activité rationaliste de la physique contemporaine (1951), Le matérialisme rationnel (1953).
[55] PE, p. 5.
[56] La poétique de l’espace (1957) e La poétique de la rêverie (1960). Ma a queste va aggiunta per coerenza tematica anche La flamme d’une chandelle (1962).
[57] Cfr. IR, pp. 324-332, nonché le illuminanti analisi in C. Vinti, Gaston Bachelard, une épistémologie du sujet, Mimesis, Milano 2014, pp. 148-152.
[58] IR, p. 318.
[59] PE, p. 5.
[60] Ivi. p. 8. La sottolineatura è di Bachelard stesso.
[61] Cfr. anche la nota di traduzione nell’edizione italiana, PE, p. 265.
[62] Ivi, p. 7.
[63] Ivi, p. 17.
[64] Ivi, p. 19.
[65] Cfr. la sezioni II-V del primo capitolo di PE, pp. 36-45.
[66] Ivi, p. 28.
[67] Ivi, p. 37.
[68] Ivi, p. 45.
[69] IR, p. 357.
[70] G. Bachelard, La terre et la rêverie du repos, José Corti, Paris, p. 263.
[71] PE, p. 172.
[72] PE, p. 180.
[73] J. Garelli, Artaud e la question du lieu, José Corti, Paris 1982. Da ora sempre abbreviato in nota in QL.
[74] Ivi, p. 58.
[75] Ivi, p. 70.
[76] Ivi, p. 100.
[77] A. Artaud, Les Tarahumaras, Gallimard, Paris 1971, p. 29. [78] QL, p. 84.
[79] Ivi, p. 86 ma anche pp. 121-131.
[80] A. Artaud, Il teatro e il suo doppio, a cura di G. R. Morteo e G. Neri, Einaudi, Torino 1961, p. 176.
[81] Passo di Artaud tratto da Fragment d’un journal d’enfer, citato in QL p. 39.
[82] In tal senso va intesa la nozione di immagine isomorfa di Sertoli, cfr IR, p. 278.
[83] QL, p. 73.
[84] Ivi, p. 69.
[85] Ivi, p. 102.
[86] PE, p. 261.
[87] J.J. Wunenburger, Filosofia delle immagini, trad. it, di S. Arecco, Einaudi, Torino 1999, p. 305. Da ora sempre in nota abbreviato con FI.
[88] Ivi, p. 287.
[89] IR, p. 215.
[90] Ivi, p. 178 e sgg.
[91] Per maggiori precisazioni su queste differenze cfr. IR, pp. 255-276.
[92] FI, p. 97.
[93] Ivi, p. 97. L’espressione è di Gilbert Durand. [94] M. Blanchot, L’écrture du désastre, Gallimard, Paris 1980, p. 72.
[95] Ivi, p. 87.
[96] Ivi, p. 93.
[97] PE, p. 25.

A. Masson, Ritratto di Antonin Artaud


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