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I tempi passano, i poeti restano
Un contributo alla monografia Contro la poesia
di Walter Valeri
3 febbraio 2020
Con la stessa melanconica melodia duna vecchia canzone che ricordava ai radio ascoltatori come i tempi passano e le mamme imbiancano, oggi, in occasione della bellissima notizia della pubblicazione dellopera omnia di Ferruccio Benzoni, Con la mia sete intatta (a cura di Dario Bertini, introduzione di Massimo Raffaelli, Marcos y Marcos, 2020), noi possiamo ricordare a noi stessi e agli altri che se i tempi passano i poeti restano; magari ingolfati in un chiacchiericcio telematico che non dà pace; verosimilmente sbigottiti dal proliferare sulla rete di versi sconcertanti, numero esponenziale di festival, rubriche, premi letterari, trebbi inverosimili, edizioni di collane a pagamento perniciose. Tutte cose ormai ripetute sino alla nausea.
Io stesso, di tanto in tanto, pubblico dei versi su Facebook; a volte ne modifico addirittura di vecchi, rimbastisco vecchi componimenti per il vestiario del giorno, come una sorta di partogenesi della parola. Mi diverte. È un pret-a-porter per mendicati della parola o per i mie pochi ipocriti lettori. Alcuni, molto sbrigativamente chiamano questa baraonda compulsiva, prossima al petel, orgia fantasmatica, unossessione infantile del linguaggio, refusi da sottobosco, eccetera. Ma poco o nulla mi importa di loro. Altri immaginano che i poeti e le poetesse restino fra noi, costi quel che costi, per ricordarci che nulla è perduto nellarte del dire, nulla risulta sociologicamente o terapeuticamente vano. Non a caso Tutto è già stato, tutto si ripete, attimo dolce è solo il riconoscere, lo scriveva già Osip Mandelstam in un campo di concentramento stalinista, poco prima di morire avvelenato dai rifiuti.
E allora? A mio parere, i poeti restano fra noi per ricordarci che il diritto alla parola e allascolto sono sacri. Restano come rami intangibili nella stretta del vento, per sussurrare parole che, quando veramente poetiche sono evasive e politiche allo stesso tempo, capaci di lasciarsi alle spalle i campi di concentramento, pericolose per loro stessa natura e a detta di Alda Merini: da maneggiarsi con cura. Meglio dire: con molta cura. Non esistono poeti rivoluzionari, basta con queste chiacchiere. Esiste la funzione rivoluzionaria della poesia, questo sì. Non a caso lo scapestrato Esenin, poco prima di essere suicidato dalla polizia di Stalin, rispose allimperativo di una manciata di letterati male in arnese: la rivoluzione avrà la mia mira, ma non la mia lira. Dunque i poeti restano per dirci cose sostanzialmente assurde per ricordarci, come diceva Quintiliano mentre tentava di organizzare e potare gli arbusti della retorica: verum est quia absurdum est. Vale a dire, per i poeti: anche gli angeli hanno una vita sessuale non indifferente; magari per confezionarci piccoli sacrifici verbali, primaverili trasgressioni erotiche, ecc. Non certo per mirabolanti carriere economiche, resumée o mappe per fronti coronate da rametti di rosmarino, o carneficine editoriali perpetrate col ditino alzato.
I tempi sono cambiati, le sfide sono diverse, forse smisurate per le forze della poesia, anche quella dei migliori. Oggi la scena dei linguaggi contempla la scomparsa di ogni scenario. Questo sì. La memoria viene utilizzata soprattutto per dimenticare. Loscurantismo invoca più luce, mentre chi la luce dovrebbe mantenere viva e vegeta, si preoccupa di miniaturizzarla, blandirla in piccole conventicole, cautele ossimoriche, bisbigliate in salottini letterari o alberghetti sussiegosi. Così in questo bailamme di lustrini orripilanti, la logica dei privilegi prolifera, accanendosi sui più deboli, sui più timidi. Vincono i privilegi, anche quelli falsi, in una loro forma arrogante, impunita. Vincono quelle ragioni sociali, editoriali, esistenziali ed economiche che quotidianamente producono (o non producono più) i privilegi e li giustificano. Il fanatismo utilizza con fare pugilistico o guanti di velluto parole come: amore, amicizia, lealtà e onore quasi fossero degli elettrodomestici da attivare ad ore stabilite; ne offuscano manipolandole la rintracciabilità anche minima, anche creaturale. I cultori dellinfelicità in versi hanno invaso i cortili sotto casa, mutato pelle ma non il loro statuto, ruolo auto-consolatorio, il patetico vizio, lacredine in versi che si disfa nei corridoi dellapocalisse prossima ventura con titoli di raccolte strappa cuore o gridolini che grondano di sangue altrui. Un intorbidimento egotistico del pensiero poetico utile solo alle convenienze moraleggianti di poche centinaia di addetti ai lavori, riottosi, come conseguenza di interessi privati in atti pubblici. O, viceversa, interessi planetari catastrofici in vite private. Perché quarantanni di cultura di massa, lo spessore sinistro delle cose, messo al mondo dal consumismo e derivati, hanno operato ad ogni livello.
La poesia che in alcuni rari casi, sino alla fine degli anni 70, gli si opponeva come luogo ideale, ha esaurito la sua fase testimoniale. Ciò che rimane, come un ciclone filmato di spalle, sta allagando e spazzando via tutto. Compreso le sue rare opposizioni. Ne è specchio e testimone lo stato di degrado, insicurezza, nevrosi privata e collettiva, impoverimento del linguaggio comune che ci circonda. Mentre noi tutti sappiamo che la poesia è chiaramente unamorosa presenza, non una geremiade: è uneresia che non cerca il rogo, perché anche i roghi sono stati consumati. Un poeta non si crede un martire, una vittima innocente del potere organizzato. È inutile sostenerlo. Il poeta non è vittima, ma nella sua contraddizione, è un vincitore alla fine, un vincitore che porta a termine una partita abbandonata dallavversario. Sono parole di Alfonso Gatto. Anchio ne sono convinto. Le parole della poesia, quando è poesia autentica, sono parole di verità. Parole che includono, dialogano, incutono rispetto, allontanano ogni discriminazione e soffrono il ghigno dellingiustizia.
Non è facile esistere (più che resistere) per la poesia che non si identifica con la storia dei vincitori, seppure temporanei, come disse Calvino. Né con la presunta innocenza delle vittime. Quasi impossibile produrre momenti di cultura autonoma in tempi recessivi, ostili alla solidarietà, alletica, ad interessi che non coincidano con la pura logica del profitto. Quasi impossibile, ma non del tutto impossibile. E allora? Forse (dico forse) i poeti esistono ancora (e solo) per cose umilissime: continuare a ricevere buste color mattone, manoscritti gonfi di lamenti, fastidiose insistenze; per rispondere ai messaggi di tutti messaggi che spesso stanno tra il ridicolo e limmaginario. Poi, quando capita, per scrivere versi, ma senza spocchia. Oppure, molto più semplicemente, per ribadire che, come in tutte le arti, anche nellars poetica lunica cosa certa è che nulla è certo. I poeti restano fra noi con limbianco dei capelli. Restano con il problema della pensione, il ruminante sfrigolio della frittata dimenticata sul fuoco. Resta il loro bisogno di una stanza calda, un bacio, un po di pace e possibilmente qualche ora di silenzio.
Anni fa assieme a Ferruccio Benzoni e Stefano Simoncelli ho avuto lonore di ascoltare dalla voce di Fortini, di fronte ad un piatto di patate, agnello al forno e barbera in caraffa, una frase che ancora mi ronza nelle orecchie, quasi indelebile: Spesso la Musa bacia la fronte degli indegni. Lo disse dopo aver recitato in francese alcuni frammenti dei Fiori del male di Baudelaire. Poi, con occhi luciferini, la Pentecoste del Manzoni. Una serata indimenticabile. Persino Il dolore contiene in sé un lato comico che non va trascurato, se non ricordo male. I versi dei poeti sono sempre e solamente le scaglie della triglia moribonda. Montale, ostile a ogni canone letterario, checché se ne pensi di lui, più di ogni altro ha avuto agio e tempo per chiarirlo. Ma poi non è detto.
Ferruccio Benzoni e Walter Valeri alla Biennale di Venezia 1976
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