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«Cè qualcosa là fuori?» Appunti sulleerie e lo Spazio nel cinema di fantascienza
di Lorenzo Lasagna
12 dicembre 2020
Nel capitolo Tracce aliene del saggio The Weird and the Eerie, Mark Fisher fa unosservazione interessante: «Lidea di spazio profondo scrive genera immediatamente un senso di eerie, a causa delle questioni di agentività che non può fare a meno di sollevare. Esiste qualcosa lassù e se esistono agenti, di che natura sono? Per questo è sconfortante notare come leerie sia stranamente assente da tanta produzione fantascientifica»[1].
Si tratta di un rilievo assai pertinente, al punto che stupisce come nessuno abbia posto la questione prima di lui.
Il critico inglese, tuttavia, non darà profondità alla sua intuizione. Si limiterà a prenderne atto, volgendosi alle (poche) opere di fantascienza nelle quali leerie sia in qualche misura presente.
A noi piacerebbe tornare alla sua domanda, e indagare (senza pretesa di sistematicità) le implicazioni della successiva, «sconfortante», constatazione.
Leerie: una definizione.
Anzitutto, è necessario dare una chiara definizione del concetto di eerieper come lo stesso Fisher ebbe a impiegarlo nel suo lavoro critico.
Leerie potrebbe essere presentato come la particolare sfumatura del perturbante che viene suscitata da una situazione (o da un oggetto: ad esempio un luogo, un rumore, unimmagine) caratterizzata «da un eccesso o da un difetto di agentività»[2]. Ne siamo turbati perché constatiamo una traccia di presenza laddove ci saremmo aspettati unassenza, o al contrario perché ci si rivela unassenza laddove ci saremmo attesi una qualche presenza.
Due concetti sono strettamente implicati nellesperienza eerie. Il primo è appunto lagentività: la proprietà di qualcosa che richiama lesistenza di una sostanza (personale o impersonale) agente.
Il secondo concetto (sul quale tuttavia Fisher non si soffermò) è la non-linearità, vale a dire la significazione allusiva o differita, o comunque sia indiretta: un rimando a qualcosa che non si dà nella sua pienezza (né come del tutto presente, né come del tutto assente).
Come cercheremo tra poco di mostrare, è questultima caratteristica a rendere leerie un processo intrinsecamente simbolico. Leccesso o il difetto (di agentività), infatti, non vanno intesi in senso meramente quantitativo, ma in senso qualitativo: entrambi implicano un non darsi mai alla visione o alla comprensione, se non per una via come dicevamo puramente allusiva, un modo che eccede lalternativa tra il vuoto e pieno. Quella delleerie è perciò senzaltro unesperienza propria, non derivata, ma anche fatalmente discontinua e mancante.
Leerie nella fantascienza.
Ebbene, il vuoto dello Spazio cosmico (con la sua estensione inafferrabile, loscurità ancestrale, la dismisura e il carico di enigmi che solleva intorno al prima, al dopo, allesistenza di una fine e di un principio) dovrebbe costituire un ambito elettivo per questo tipo di esperienza. E invece ha ragione Fisher: il genere fantascientifico con poche e parziali eccezioni non ha mai seriamente coltivato il sentimento delleerie.
Non si tratta di un rifiuto antiintellettualistico. La fantascienza non è scevra da implicazioni concettuali varie e ricorrenti, ma quando sussistono esse riguardano tuttaltro: principalmente temi sociologici (in quale società vivremo), tecnologici (quanto verremo messi in discussione, come specie, dallo sviluppo delle macchine intelligenti, e quali sfide esse porteranno alla nostra natura umana), oppure antropologici (quali razze incontreremo e quale rapporto sarà possibile instaurare con esse). Ma per qualche ragione, linquietudine e la meraviglia che afferravano Immanuel Kant quando alzava gli occhi al cielo stellato, non rientrano tra questi.
Anche il correlato sensoriale delliconografia fantascientifica, esattamente come quello concettuale, sembra tenersi molto lontano dalle sfumature eerie. Il repertorio delle sensazioni fantascientifiche è di regola dominato dai toni forti, intensi, rotondi. In una parola: pieni.
Certo, lo Spazio comprime la gamma degli stimoli sensoriali, che riduce a quelli di natura visiva. Nelle immensità cosmiche non vi è aria che possa trasportare i suoni, né alcunché da gustare o da odorare, e ben poco da toccare. Chiunque voglia rappresentare lo Spazio in modo rigoroso, ha perciò una sola alternativa: impiegare i concetti, o servirsi delle immagini.
Così, abbiamo deciso di concentrare la nostra attenzione su un linguaggio che fosse direttamente legato alla visione, come il cinema, e abbiamo provato a esaminare alcune tra le più note produzioni del genere fantascientifico-spaziale, alla ricerca di indizi che possano aiutarci a comprendere come funziona in concreto la legge di Fisher[3].
Tarkovskij: leerie confinato sulla Terra.
Ci sembra significativo il fatto che tra i due capolavori di fantascienza realizzati dal regista russo Andrej Tarkovskij (parliamo naturalmente di Solaris del 1972, e di Stalker del 1979), quello maggiormente intriso di eerie sia il secondo, ambientato per intero sulla Terra. Nel primo (che si svolge invece a bordo di una stazione orbitale in prossimità di un mondo alieno), gli elementi eerie rivestono unimportanza decisamente marginale, e in ogni caso afferiscono al pianeta intorno al quale ruota la stazione mai allo Spazio cosmico in quanto tale. Sappiamo che durante la lavorazione del film, Tarkovskij si lamentò spesso degli ostacoli che liconografia spaziale poneva al suo lavoro[4], ed è chiaro come a differenza di quanto accadrà appunto in Stalker in Solaris lo sforzo del regista fosse volto soprattutto a dominare lambientazione e limitarne limpatto, per lasciare che la vicenda si concentrasse intorno ai personaggi e alla valenza drammatica delle loro vicende. Slavoj Zizek (che a nostro avviso aveva gravemente frainteso la pellicola del 1972[5]), ha scritto parole molto sensate a proposito di Stalker. La misteriosa Zona in cui lazione si svolge, segnala a suo dire«leccesso di un Luogo (deserto) rispetto alla materia e agli elementi», e il suo enigma risiede in una sorta di dismisura interrogante, che ci rinvia oltre, verso «il vuoto che sostiene il desiderio»[6] formula che ci sembra del tutto coerente allesperienza eerie. In Tarkovskij, potremmo concludere, il quesito dellagentività non fa segno dal silenzio degli spazi interplanetari, ma sembra avere bisogno di uninteriorità e di supporti immaginativi di ordine terrestre.
Carpenter: leerie come parodia.
Un esempio inatteso di eerie si trova nel primo lungometraggio diretto da John Carpenter. Dark Star (1974) è una sconclusionata commedia fantascientifica che racconta le peripezie di un gruppo di astronauti dediti alla distruzione di stelle instabili. Tra loro figura Talby (caricatura del mistico nichilista della controcultura hippie), il quale ha abbandonato il lavoro e trascorre le sue giornate nella torretta-osservatorio dellastronave, in attesa che uno sciame di asteroidi lo catturi e lo trascini alla deriva per leternità. Ad un certo momento, lo sciame cosmico farà effettivamente la sua comparsa e permetterà allastronauta di coronare il suo desiderio. Sebbene estemporaneo, lo scorcio (che riecheggia, volgendola in chiave grottesca, la sequenza lisergica di 2001: Odissea nello spazio) figura curiosamente tra i casi più lampanti di eerie spaziale in cui ci siamo imbattuti; esso occupa la scena conclusiva del film, funzionando addirittura da scioglimento della vicenda (anche se il suo impatto risulta fortemente ridimensionato dal tono parodistico dellinsieme).
Alien: lo Spazio come minaccia radicale.
Alien di Ridley Scott (1979) è solo nominalmente il primo atto di un ciclo cinematografico che ad oggi (tra sequel, prequel e crossover) raggruppa qualcosa come nove lungometraggi. Unanalisi attenta ce lo rivela in realtà come unopera dai tratti peculiari che linserimento in un universo narrativo più ampio finirà purtroppo col disperdere o col far passare in secondo piano. Restando al tema della nostra indagine, Alien è lunica opera del ciclo eponimo nella quale lo Spazio agisca un ruolo proprio e svolga una funzione non riducibile a scenografia. Se Il pianeta proibito aveva raffigurato lo Spazio come labisso nel quale si agitano i fantasmi dellInconscio, e 2001 di Kubrick aveva concepito lidea di uno Spazio come scaturigine di significati ultimi, Alien stabilisce i canoni dello Spazio come minaccia radicale. Facciamo notare come tale radicalità si ridimensioni drasticamente negli episodi successivi della saga, e questo già a partire dal divertente sequel di James Cameron, che è in buona sostanza un western con gli alieni al posto dei pellerossa.
Scott lavora sulla dismisura: il suo equipaggio viaggia addormentato e indifeso a bordo di unastronave vuota e immensa, sbarca su un pianeta violentemente ostile, dove simbatte in manufatti alieni (anche fisicamente) di una difformità inconcepibile, e infine sostiene uno scontro allultimo sangue contro un nemico unico, ma dalle molte e sconcertanti forme. Anche lenigmatica Compagnia per cui lavora lequipaggio appare con le sembianze di unentità kafkiana, misteriosa e sovraordinata, ben diversa dallalgida azienda corporate che conosceremo negli sviluppi della saga. Del resto, tutte le successive elaborazioni delluniverso narrativo di Alien, volte a conferire maggiore coerenza al quadro dinsieme, finiranno col normalizzare langoscia che il primo episodio aveva saputo creare.
Il punto da chiarire è tuttavia: quellangoscia è un sentimento eerie? In parte sicuramente sì, e tra i meglio rappresentati. La sensazione di buio, di gelo e persino di umidità che attanaglia i personaggi (e gli spettatori) possiede unevidente qualità agentiva: è lattributo tangibile di una sostanza assente. Ma la personificazione di quella sostanza nella concretissima figura dellalieno risulta troppo marcata e troppo plastica per lasciare davvero aperte le domande di senso che la sua apparizione aveva sollevato, tanto che nella parte conclusiva del film lincontro con la creatura si risolve in unarchetipica battuta di caccia, avvitandosi intorno a dinamiche di predazione e sopravvivenza del tutto simili a quelle che costituiranno negli anni a venire il nucleo delle varianti più commerciali di Alien, come Predator (1987) e Pitch Black (2000).
Punto di non ritorno: ripiegamento sul weird.
Un caso di eerie spaziale mancato è rappresentato da Event Horizon del 1997 (Punto di non ritorno nella versione italiana), film che dello Spazio fornisce una visione cupa e disturbante, ma che probabilmente per una mirata scelta di produzione strada facendo scivola (o ripiega) dalleerie al weird, cioè dallinquietudine legata allagentività, verso il turbamento più concreto che deriva dallapparire di una presenza-fuori-posto (stiamo ancora utilizzando la distinzione proposta da Fisher[7]). La trama del film, diretto da Paul W.S. Anderson, ricalca il topos del vaso di Pandora tecnologico, nella fattispecie la catastrofe che segue al primo salto umano nelliperspazio. Dalla singolarità astronomica che lesperimento ha prodotto (un buco nero artificiale), fuoriescono forze ed entità che, varcando la soglia posta al confine tra universi, portano il caos (anche morale) in quello che abitiamo noi. Lo spettatore si trova a dover fare i conti con il tema weird per eccellenza: loltrepassamento. Dellatmosfera eerie che era stata efficacemente tratteggiata nei primi minuti di pellicola, non rimane nulla: il weird prende il sopravvento.
Si potrebbe obiettare che la cosa non stupisce, dal momento che lo schema generativo del weird è molto più duttile e apportatore di sviluppi narrativi rispetto a quello delleerie, il quale invece meglio si adatta ad altri linguaggi (ad esempio limmagine fissa sia essa dipinto, scultura, fotografia la prosa breve, la musica[8]). In ogni caso, leerie chiede allo spettatore un patto di fruizione decisamente più maturo.
E' unobiezione corretta, che ci dà tuttavia risposte parziali. Spiega perché leerie non abbondi nel cinema di fantascienza, ma non ci dice quali forze siano effettivamente allopera nei (pochi) esempi riusciti di cui disponiamo.
Interstellar: leerie come ambientazione.
Tra essi, Fisher menziona Interstellar di Christopher Nolan (2014), una space-opera in verità molto sopravvalutata, della quale ci si ricorda più per la trasposizione narrativa di alcuni paradossi relativistici che non per le atmosfere. Lo Spazio vi gioca un ruolo in chiave eerie, soprattutto nella parte che tocca i diversi pianeti sui quali il genere umano cerca scampo dallestinzione. Ciò che però la visione del film rende chiaro (un punto che Fisher sembra ignorare, o ritenere non decisivo) è il fatto che in quei passaggi la questione dellagentività permanga strettamente funzionale (per non dire servile) allimpianto della sceneggiatura, mancando in ultima analisi di forza propria. Sappiamo che a Nolan non interessano le complicazioni simboliche: qui come altrove egli si tiene su un piano densamente intellettuale e para-fisico, e non a caso i più convinti endorsement al suo film sono giunti da scienziati, soprattutto astrofisici. Le sequenze che ambienta nello spazio profondo possiedono un freddo taglio documentaristico che è molto piaciuto ai cultori della hard science-fiction, ma di certo non può toccare le corde della fascinazione o dellevocazione. Il cosmo di Nolan, a ben vedere, esercita unattrattiva oggettuale, di tipo essenzialmente anatomico. Di conseguenza, se pure Interstellar offre qualche assaggio del registro eerie, non ne fa mai il proprio nucleo stilistico.
Moon: identità e interiorità.
Moon di Duncan Jones (2009) è un film fantascientifico di atmosfera rétro, che ripropone leterno tema dellidentità personale di fronte allo sviluppo delle intelligenze artificiali. Girato allinsegna di una rigorosa unità di tempo, luogo e azione, è ambientato in un insediamento scientifico lunare presso il quale lavora in solitaria loperatore minerario Sam Bell, che è in pratica anche lunico personaggio del film. Il largo utilizzo di effetti speciali analogici premia la resa delle ambientazioni, che ritrovano la marcata fisicità del cinema pre-digitale e scongiurano gli effetti di de-materializzazione tipici delle immagini in CGI.
Sulla carta i presupposti tecnici e di scrittura per ottenere un film eerie ci sarebbero tutti, ma Duncan non li sfrutta. Lo spazio simbolico della sua narrazione è infatti sin dallinizio intimo e marcatamente riflessivo. In coerenza con il taglio psicologico ed esistenziale della vicenda, in Moon lesterno e il di-fuori non sono dimensioni rilevanti. Si tratta di una scelta registica conseguente ma netta, che impedisce a monte ogni possibile influenza eerie.
2001: Odissea nello Spazio.
La quarta sequenza di 2001: Odissea nello Spazio (quella che segue lincidente con lelaboratore HAL) rappresenta con tutta probabilità il più notevole ed esteso topos di eerie cosmico che il cinema di fantascienza abbia creato. Significativamente, Kubrick lha costruita come un flusso di pura visione: un percorso dimmagini liquide e destrutturate. Egli rinuncia in partenza a qualunque intenzione narrativa, esaltando la dimensione percettiva delle immagini. Ancora oggi lo spettatore fatica a collocare la quarta sequenza nellimpianto generale del film a fianco delle tre precedenti (lalba delluomo, la scoperta del monolite lunare, la missione verso Giove), le quali (per quanto intrise di elementi simbolici soprattutto la seconda) mantenevano una forma narrativa tutto sommato lineare.
Kubrick, a ben vedere, ha fatto lunica cosa sensata per ricavare dallo Spazio un effetto eerie: ha dilatato la struttura del suo testo, e ha costruito ad uso dello spettatore una scena fortemente esperienziale.
Sebbene la critica enfatizzi spesso la piena aderenza di 2001 alle conoscenze scientifiche dellepoca, la principale differenza rispetto allapproccio di Nolan sta nella completa assenza di razionalizzazioni e di spiegazioni (per quanto ipotetiche o congetturali). La quarta sequenza, al di là di ogni altra considerazione, si svolge sotto i nostri occhi. Accade. Genera emozioni e suscita stupore, turbamento (o persino qualche genere di esperienza estatica), senza risolvere né le une né gli altri in uno schema o in una teoria. A dispetto della sua scientificità, il registro dellopera di Kubrick è giocato proprio sul differimento, sullampia divaricazione tra segno e senso. Laccadere, inoltre, in quanto darsi non regolato da principi di causalità, è senzaltro uno dei modi più ricorrenti nei quali leerie si manifesta.
Lo Spazio come scandalo dellagentività.
Torniamo al fondo teoretico di tutta la questione. Anzitutto, osserviamo come il cosmo sia una località con caratteristiche topologiche affatto peculiari. Da un lato, non lo possiamo trattare come uno spazio assoluto di tipo newtoniano (un riferimento matematico sciolto da categorie contingenti), per il semplice fatto che esso possiede contenuti (per quanto residuali) di ordine fenomenico. Nello Spazio il vuoto è pur sempre increspato da qualcosa: una luce, unonda, un grumo di materia. Daltro canto, a rigore, non possiamo nemmeno catalogarlo tra i luoghi, poiché leffetto immediato che la sua fenomenicità produce su di noi, è la consapevolezza della sua natura non-oggettuale e non-sostanziale. Semplificando, potremmo dire che il cosmo non è abbastanza vuoto per essere uno spazio matematico, e non è abbastanza pieno per essere un luogo. E' in questa doppia negazione che sorge il quesito (scandaloso) dellagentività: se davvero in esso non cè nulla, perché lo Spazio contiene materia ed energia? E se invece al contrario là fuori cè qualcosa, che cosa potrà davvero esserci?
Una volta messa a fuoco questa premessa, ecco che la legge di Fisher appare assai meno paradossale. Raccontare uno spazio così povero di materia, e nondimeno così denso di rimandi ad unagentività inafferrabile, è unimpresa complicata sia sul piano figurativo, sia (forse ancor di più) su quello del racconto. Non a caso è la musica, in forza del suo linguaggio non rappresentativo, ad aver espresso lambivalenza cosmica del vuoto/non-vuoto meglio di quanto abbiano fatto cinema e letteratura.
Mi è capitato di scrivere racconti e romanzi ambientati in uno spazio cosmico eerie. Molto presto mi sono reso conto che lostacolo principale posto sul mio cammino era la rappresentazione degli oggetti, resa ardua dalla consapevolezza che in quel genere di ambiente lo status di qualunque cosa scivola inesorabilmente verso la non-oggettività. Nello spazio gli enti godono di unesistenza labile, effimera, che decade rapidamente verso il nulla. Ed anzi: il loro significato sta precisamente in questo decadere, ed è proprio il decadere (o il sorgere momentaneo) degli oggetti a produrre leffetto eerie: lente è un lampeggiamento veloce nella direzione del suo annullamento, mentre il nulla è la cornice di un possibile, enigmatico sorgimento. Questo essere (o non essere) obliquo è la prova che nelleerie il rimando ad altro (un altro che mai si mostrerà come oggetto) costituisce il senso stesso dellente.
La fantascienza mainstream non può naturalmente reggere il peso di una simile complessità, e infatti una volta giocata la carta del cosmo come metafora dellesplorazione e delleterna Frontiera il format della space-opera viene derubricato a semplice curiosità rétro (e soppiantata da altri sottogeneri, come la fantascienza sociologica, il cyberpunk o la hard science-fiction), per poi essere recuperato in forma addomesticata come metafora politica (si pensi alledificante ruolo della Federazione delluniverso di Star Trek), convertendone il potenziale eerie a rassicurante motivo didascalico o cinematico (la navigazione stellare a bordo dellEnterprise non ci trasmette spavento, inquietudine o timore; è unesperienza paragonabile a una corsa in motocicletta o ad un giro sulle montagne russe, qualcosa che regala emozioni intense ma dozzinali).
Restando nellambito della cultura pop, non troppo diversa è lintonazione delliconografia cosmica new age, ricca di immagini coloratissime di stelle, nebulose e galassie, il cui tono finalizzato al raggiungimento di uno stato psichico appagato e sintonico oscilla tra lafflato introspettivo, il motivo ornamentale e la composizione kitsch.
Bachelard e la reverie dellimmensità.
Non è però solamente la sottocultura new age ad offrirci della contemplazione cosmica una versione pacificante. Ci sono interpretazioni critiche che seguono direttrici del tutto analoghe partendo da fonti testuali alte. Ci riferiamo soprattutto a Gaston Bachelard, secondo il quale ogni poetica dellimmensità si risolve in una forma di immaginazione intima e tranquillizzante, di tipo fusionale.
«Sulla strada della reverie dimmensità, il vero prodotto è la coscienza di ingrandimento. Ci sentiamo promossi alla dignità di essere che ammira [...] acquistiamo coscienza della grandezza, restituendoci così a unattività naturale del nostro essere immensificante [...]. Limmensità è in noi [...], limmensità è uno dei caratteri dinamici della reverie tranquilla»[9].
Non vogliamo naturalmente negare che esista unampia produzione letteraria e poetica appartenente a questo filone; tuttavia, non è lì che troveremo le risposte di cui siamo alla ricerca. Leerie non attiene alla bachelardiana reverie dimmensità, quanto piuttosto a forme dimmaginazione della dismisura, del non-risolto e del non-compiutamente-presente (o del non-compiutamente-assente), forme più prossime a categorie filosofiche come langoscia o il perturbamento, e perciò situate allopposto di stati psichici sintonici come la fusione tra esteriorità e interiorità.
Dove conduce il quesito dellagentività?
Domandiamoci quindi: da cosa scaturisce il quesito dellagentività, e dove conduce?
Mark Fisher punta al cuore dellinterrogativo, ma anche nel suo saggio più maturo, al momento di fornire le possibili spiegazioni si lascia ricatturare dal più scontato tra i paradigmi interpretativi: quello economicistico. Nelle sue pagine leerie è presentato in ultima analisi come una conseguenza (psicanaliticamente connotata) dei rapporti sociali creati dal neoliberismo: tutto qui. Si tratta di una formulazione sorprendentemente riduttiva[10], che colpisce il lettore per levidente sproporzione tra la vastità della domanda e lesiguità della risposta.
La Cosa lacaniana.
Pur privo della brillantezza che sprigiona dalle pagine di Mark Fisher, Slavoj Zizek fa un deciso passo in avanti applicando al problema quello che potremmo definire un punto di vista lacaniano, nel quale perno di tutto il ragionamento è il concetto di Cosa, vale a dire il nucleo irraggiungibile che resiste ad ogni rappresentazione e ad ogni verbalizzazione.
Zizek spiega che «Jacques Lacan definisce larte stessa in riferimento alla Cosa: [...] larte in quanto tale è sempre organizzata intorno al Vuoto centrale della Cosa impossibile e reale»[11]. Talvolta lattenzione si appunta su«una Cosa impossibile e/o traumatica, come la Cosa Aliena nei film horror di fantascienza»[12]. «Cosa succederebbe si domanda allora Zizek se il vero orrore coincidesse con lapparizione di Qualcosa [...] laddove ci aspetteremmo di trovare il Nulla?»[13].
Seguendo tale ipotesi di lavoro, leerie cosmico sarebbe il sentimento, o leffetto emotivo, che ci coglie quando proviamo ad afferrare il Vuoto originario della Cosa.
Leerie come categoria ontologica.
Linterpretazione psicanalitica delleerie non è ovviamente lunica possibile, né la più radicale. Ce ne sono altre, come quella che si può ricavare portando lanalisi sul piano ontologico, che leggono lesperienza eerie come un correlato della più antica (e ripetuta) questione metafisica: il rapporto tra ente ed essere. Non si è forse affermato che la metafisica nasce dinnanzi allo sbigottimento che ci coglie quando realizziamo il fatto che cè qualcosa invece del Nulla?
Per questa via sarebbe forse possibile sottrarre lintero spettro di manifestazioni del perturbante ad una riduttiva lettura psichica, e presentarlo come categoria filosofica pura, in analogia a figure come langoscia heideggeriana o la nausea sartriana.
Come lo stesso Zizek a un certo punto riconosce[14], la domanda circa lagentività, non sottende solamente il rapporto simbolico (mancato) con la Cosa lacaniana, ma il più generale rapporto filosofico tra luomo e lessere. Essa sarebbe una forma del quesito fondamentale che ci poniamo al cospetto del mondo, e che ci predispone alla trascendenza entro una dimensione di senso.
Tre ordini di simulacri.
Questo breve excursus teoretico dimostra le potenzialità ontologiche delleerie cosmico argomento che richiederebbe una trattazione a parte. A noi preme ora capire qualcosa di molto più semplice: perché la fantascienza abbia scacciato leerie dai propri domini.
Uninteressante spiegazione evolutiva viene fornita da Jean Baudrillard in Tre ordini di simulacri, breve saggio (non privo di punti oscuri) sulla parabola della fantascienza nella modernità[15], dallutopia preindustriale al postmoderno. La terza ed ultima fase (la nostra) è quella dei simulacri di simulazione, produzioni finzionali (fictionelles) che «non costituiscono più un immaginario in rapporto al reale»[16], ma sono atti immanenti e si risolvono in se stessi. I simulacri del terzo ordine «non lasciano più spazio ad alcun tipo di trascendenza immaginaria»[17], perché non hanno più un riferimento esterno. Noi stessi «non possiamo più immaginare altri universi: la grazia della trascendenza ci è stata negata anche su questo terreno»[18]. Il motivo è semplice: «Quando un sistema raggiunge i suoi limiti e si satura, si produce una reversione: accade unaltra cosa, anche nellimmaginario»[19]. Ebbene, emancipandosi da ogni riferimento ad una realtà oggettiva, il nostro immaginario si sarebbe di fatto chiuso su se stesso.
Eclissi del trascendente.
Lintuizione di Baudrillard è interessante. Secondo quanto afferma, nel paradigma dellipermodernità non ci sarebbe più posto per la quota di trascendenza (seppur minima, differita) che è necessaria al prodursi delleerie.
Nella stessa direzione puntano alcune riflessioni di Byung-Chul Han sul bello, riflessioni che costituiscono unutile linea di ragionamento anche per la nostra indagine.
Sostiene Han che la società tardomoderna porta il bello a coincidere con il piacevole: «Il soggetto fortificato della modernità positivizza il bello trasformandolo in oggetto di piacere. Il bello viene perciò opposto al sublime che, a causa della sua negatività, non suscita sulle prime alcuna immediata sensazione di piacere»[20].
Ogni frattura e ogni asperità, ogni opacità e ogni differimento vengono banditi dallesperienza estetica, che assume i tratti autoerotici di un godimento soggettivo e riflessivo. Bello è ciò che dà piacere. Un piacere pienamente fruibile, levigato e ripulito di ogni ambiguità.
«Nel bello digitale è del tutto eliminata la negatività [...] [E]sso è completamente levigato e non deve contenere alcuna incrinatura» [21]. «Lattuale società, ossessionata dalla pulizia e dalligiene, è una società della positività che prova disgusto per ogni forma di negatività»[22]. «Alla luce della ragione igienica viene avvertita come sporca ogni ambivalenza, ogni mistero»[23].
Il declino delleerie nella fantascienza, potrebbe forse inscriversi in questo movimento più generale di eclissi del bello nel trionfo del piacevole?
Naturalmente leerie non coincide con lesperienza estetica, pur condividendo con essa alcuni aspetti. Leerie non è il bello. Ma ad esso lo accomunano tratti sostanziali quali il distanziamento, il differimento simbolico, la trascendenza di senso.
Come lesperienza estetica in generale, anche il perturbante occupa nella nostra epoca uno spazio debole, residuale; fatalmente, esso è ricatturato (come tutto) in una dimensione immanente. Dal piano del perturbante siamo scivolati sempre più su quello del disturbante, che è un piano più cinetico, meccanico, funzionale. A disturbarci (nella finzione come nella realtà) sono le vicissitudini dei corpi, e giusto qualche aspetto relativo alle (dis)funzioni psichiche degli individui (psicosi, psicopatologie, perversioni)[24].
Nulla di ciò che ci trascende ci riguarda, oramai, e pertanto nulla realmente ci perturba. Anche il genere fantascientifico, che dopo lunghi anni di letargo dà qualche segno di risveglio, non è più interessato alloltre-soglia, al non conosciuto, ma concepisce se stesso espressamente come prolungamento e come protesi del reale.
Le opere fantascientifiche alle quali attribuiamo maggior valore non sono allora quelle che ci hanno dischiuso nuovi significati o aperto varchi di senso, ma quelle che hanno saputo anticipare il nostro presente, cioè prolungare e prevedere nel modo più preciso e dettagliato levoluzione della realtà.
Al simbolico, che è una dimensione imprescindibile per accedere ad una qualunque forma di eerie, luomo del ventunesimo secolo preferisce il verosimile. All Unheimliche (il perturbante), lo Heimliche (il rassicurante o tuttal più i suoi rovesciamenti funzionali: lo strano e il raccapricciante).
E dunque abbastanza naturale che il turbamento e la solitudine degli spazi stellari non interessino più a nessuno, e che la nostra attenzione oggi si appunti di preferenza su livelli di esperienza più vicini, disponibili e pronti alluso. Cè sempre unottima ragione per essere realisti.
Certo, la spiegazione evolutiva da sola non basta. Leerie non è mai stato coltivato dalla fantascienza, neppure da quella modernista degli esordi. Alla sua eclissi non fa da contraltare alcuna età delloro. Ma forse la combinazione di fattori evolutivi e fattori per così dire genetici fornisce una buona ipotesi di lavoro, utile in entrambe le direzioni: comprendere cosa sia davvero leerie, e comprendere cosa sia davvero la fantascienza.
Conclusioni.
Limpossibilità da parte del genere fantascientifico di codificare una variante cosmica delleerie sembra avere ragioni in parte tecniche, in parte culturali.
La fantascienza degli esordi, ben incardinata in una grammatica di genere, era molto eccitata dalle potenzialità insite nello sfruttamento dei temi tecnici e scientifici, e per motivazioni analoghe era assai poco propensa a praticare lintrospezione o la filosofia (si pensi alla fatica che fecero autori lontani dai cliché del genere, ad esempio Ray Bradbury, a farsi accreditare presso editori e riviste). Quando finalmente essa si emancipò dal suo status minoritario per aprirsi allautorialità (lo spartiacque è sempre 2001: Odissea nello Spazio), era già in agguato la svolta digitale o come direbbe Baudrillard lera dei simulacri del terzo ordine, col suo rigetto pregiudiziale di ogni esperienza del trascendente e del simbolico.
La natura sfuggente del sentimento eerie, e la conseguente difficoltà ad applicarvi tecniche narrative di facile impiego, hanno ulteriormente marginalizzato la sua presenza nelle opere di genere, spesso a tutto vantaggio del weird (dimensione infatti prediletta dai grandi classici: da Lovecraft a Wells, da Lewis Carroll a Poe e Hoffmann).
Concludendo questa breve riflessione, la storia delleerie nella fantascienza esattamente come notava Mark Fisher è la storia di un connubio teoricamente fecondo, ma in definitiva mancato; né sembra plausibile che in un prossimo futuro autori e correnti possano ritrovare interesse ad approfondire una tonalità emotiva e simbolica di così complessa costruzione e natura, oltretutto in netto contrasto con lo spirito dei tempi.
Resta il rammarico (lo stesso di Fisher) per una strada che avrebbe potuto condurre a dense e interessanti realizzazioni, e invece sessantaquattro anni dopo luscita de Il pianeta proibito di Fred Wilcox rimane poco più di una curiosità o di una suggestione iconografica.
NOTE
[1] M. Fisher, The weird and the eerie. Lo strano e linquietante nel mondo contemporaneo, Minimum Fax (Roma) 2018, p. 131.
[2] «L'eerie riguarda le più fondamentali domande metafisiche che si possano porre, domande che riguardano l'esistenza e la non esistenza: Perché qui c'è qualcosa quando non dovrebbe esserci niente? Perché qui non c'è niente quando dovrebbe esserci qualcosa? » (op. cit., p. 13. Corsivo dell'autore). «Il senso dell'eerie è di rado ancorato a spazi domestici e circoscritti e abitati: lo incontriamo più di frequente in paesaggi parzialmente svuotati dalla presenza umana. Che cos'è avvenuto per originare quelle rovine, quell'assenza? Che genere di entità è coinvolta? [.] [L]'eerie è fondamentalmente legato a questioni di agentività (agency). Che tipo di agente opera in questo caso? Ed esiste veramente un agente? » (op. cit., p. 11. Corsivo dell'autore).
[3] La carrellata che segue è arbitraria e non ambisce in alcun modo ad essere completa. Vi sono inclusi capolavori assoluti e opere senza pretese artistiche, classici del XX Secolo e pellicole più recenti. Lo scopo dellanalisi è duplice: sottoporre la regola di Fisher a qualche controprova sperimentale, e chiarire meglio meccanismi e contenuti dellesperienza eerie.
[4] Nel suo diario (11 agosto 1971), il regista annota: "Temo molto che in Solaris ci sia una certa commistione di generi. Questi dannati corridoi, laboratori, apparecchiature, basi di lancio. Forse è inevitabile, chi lo sa [.]. E' difficile girare. Molto. Le riprese di Rublëv sono state una passeggiata rispetto a questo caos. Cè da rincretinire con queste riprese" (A. Tarkovskij, Martirologio. Diari, Istituto Internazionale Andrej Tarkovskij (Città di Castello) 2014, p. 63).
[5] E' quanto sostengo nel mio articolo: Solaris di Andrej Tarkovskij: un approccio teoretico, in AA.VV., Andrej Tarkovskij: il tempo scolpito e leredità perduta, Kasparhauser, XXV.
[6] S. Zizek, Tarkovskij: la Cosa dallo Spazio profondo, Mimesis (Milano-Udine) 2011, p. 40.
[7] La distinzione tra i due concetti viene illustrata da Fisher nel già menzionato The weird and the eerie (op. cit.). Ad essa ci atterremo, con minime rivisitazioni e integrazioni. Per chi non abbia modo di approfondire, valga la schematizzazione che ne abbiamo ricavato: weird è linquietudine prodotta da una presenza fuori-posto (ciò che implica la violazione o la negazione di un ordine), mentre eerie è il senso di irrequietudine che ci coglie davanti ad una situazione (o ad un luogo) nella quale dovrebbe esserci qualcosa e invece non cè nulla, o nella quale non dovrebbe esserci nulla e invece cè qualcosa.
[8] Sebbene lanalisi di unopera musicale rappresenti un compito esegetico estremo (non esprimendo la musica significati circoscrivibili e non utilizzando unità concrete di senso) esistono compositori, generi e opere che possono essere definiti eerie senza ricorrere a eccessive forzature interpretative: è a nostro avviso il caso della cosiddetta Kosmische Musik e di autori come Klaus Schulze e i primissimi Tangerine Dream. Lo stesso si può affermare a proposito di certa musica elettronica realizzata per film e videogiochi (come quella del compositore americano Disasterpeace, moniker di Richard Vreeland, autore tra laltro della colonna sonora originale del film horror It follows).
[9] G. Bachelard, La poetica dello spazio, Dedalo (Bari) 2006, p. 218.
[10] Per un approfondimento si veda il nostro: L. Lasagna, Neoliberismo, rivoluzione digitale e morte del futuro. Appunti per una lettura di Realismo Capitalista di Mark Fisher, in "Kasparhauser", 20 giugno 2019.
[11] S. Zizek, Op. cit. , p. 5.
[12] Ibidem.
[13] Ibid. , p. 6.
[14] Ibid. , p. 7.
[15] Tre ordini di simulacri, in J. Baudrillard, Cyberfilosofia, Mimesis (Milano) 2010, pp. 7-17.
[16] Ibid. , p. 9.
[17] Ibidem.
[18] Ibid. , p. 10.
[19] Ibid. , p. 11.
[20] Ibid. , p. 25.
[21] Byung-Chul Han, La salvezza del bello, Nottetempo (Milano) 2019, p. 36. Corsivi dellautore.
[22] Ibid. , p.18.
[23] Ibidem.
[24] La stessa tesi, ci sembra, viene sostenuta da Giuseppe Lippi nel suo contributo introduttivo alledizione completa dei racconti di H.P. Lovecraft (Paure di oggi e di ieri: Lovecraft e il revival dell'orrore, in H.P. Lovecraft, Tutti i racconti, Mondadori (Milano) 2015). La riflessione di Lippi riguarda i destini del genere horror, ma può tranquillamente essere estesa alla fantascienza, a riprova di quanto i processi di cui ci parliamo rivestano un valore meta-culturale: «Il gusto che è prevalso nell'horror degli ultimi trent'anni con gli annessi e connessi dell'orrore del corpo e di quello sadiano teorizzati da Clive Barker ha calato i sentimenti estremi dell'angoscia in una dimensione materica, certo sanguigna. L'anima non si è soltanto reificata [.], ma è si è identificata sempre più con il corpo e meno con la mente [.]: a patto che non si intenda per mente il delirio dei molti psicopatici della narrativa e dello schermo » (Op. cit., p. XVIII).
Credit: Keith Hamshere/Getty Images
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