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Le montagne proibite
Appunti sull’arte e la produzione di senso nella società antisimbolica [1]

di Lorenzo Lasagna

20 febbraio 2019


«Una legge proibisce formalmente di occuparci delle montagne: né salirci né parlarne e neppure guardarle, possibilmente. “Possibilmente” così dice la parola del legislatore con una pretesa che egli stesso evidentemente giudicava eccessiva. Perché esse stanno sempre sopra la città, dalla parte del settentrione, giorno e notte, col loro splendore».

Comincia così un breve racconto di Dino Buzzati intitolato Le montagne sono proibite, incluso in Paura alla Scala del 1949. Di cosa parla, esattamente, questa breve prosa di sei pagine scarse che anche molti appassionati del suo autore ignorano o hanno dimenticato?
Difficile rispondere senza tenersi all’interno di una traccia molto netta, di uno schema definito.
Come appare chiaro sin dal titolo, il racconto narra di un divieto: l’ingiunzione (“formale”) a non alzare lo sguardo verso le montagne. Ad un certo punto il divieto è divenuto legge, e le persone vi si sono conformate. Nessuno alzi lo sguardo.

È insolito che un testo di Buzzati si presti tanto facilmente — senza resistere — ad una riduzione interpretativa. La norma della sua scrittura è diversa: Buzzati gioca di solito sull’apertura simbolica, che è un modo di significazione indiretto, privo di rimandi certi o pienamente accessibili. Questo racconto invece somiglia ad un rebus per principianti o per bambini: la soluzione è lì, alla portata di tutti.
Se Buzzati ha fatto un’eccezione così lampante alla sua regola di scrittura, ho sempre pensato, dev’essere stato per un valido motivo. Proviamo a capire.

Le montagne proibite rappresentano quasi certamente il significante di una perdita: probabilmente l’altezza, le distanze inaccessibili, le scaturigini profonde. Nell’obbligo di rifuggirle e di abbassare gli sguardi, ad esserci impedita è allora qualche tensione verso l’altrove. Per di più, l’interdizione non è qualcosa di accidentale: è un dettato sociale che si è fatto legge. Per decretazione qualcuno ha stabilito un divieto e lo ha imposto.

Difficile non accorgersi ben presto che la favola narra di noi, uomini della tarda postmodernità, orfani di ogni trascendenza e di ogni senso radicale dell’alterità. Il divieto di guardare le montagne (è la nostra ipotesi) concerne infatti un oggetto speciale, anzi un quasi-oggetto: il simbolo.

L’idea secondo cui vivremmo in un’epoca anti-simbolica mi è stata suggerita da Vittorio Bustaffa, pittore e disegnatore con cui ho collaboro per l’illustrazione di racconti e di romanzi. Un giorno, mentre ci soffermavamo su alcuni passaggi di un testo, mi ha fatto notare come l’impiego della significazione per simboli sia ormai una rarità.
Mi sono fermato a riflettere. Vittorio aveva ragione: è bastato compilare un veloce elenco per rendermi conto che ai nostri giorni, anche nella produzione artistica che si ispira ai linguaggi e ai sottolinguaggi del fantastico, del poetico, dello spirituale, il simbolo è diventato un ospite sgradito. Sono così tornato con la memoria a Dino Buzzati, un autore che (in termini di fortuna e di considerazione) certamente pagò la sua predilezione per i simboli in un’epoca di realismo militante, ma che a differenza di altri intellettuali del suo tempo — ad esempio, Cesare Pavese — non si rassegnò, né mai cercò di stabilire un compromesso tra i due piani (simbolo e realtà).

Nell’epoca che stiamo vivendo — non importa quale linguaggio si utilizzi, a quale sottocultura si appartenga — ogni forma espressiva viene confinata nel piano della realtà. Realtà — si noti da subito — non significa di per sé necessariamente verità. Realtà significa essenzialmente oggettività disponibile — semplificando: adaequatio rei et intellectus. Corrispondenza. Ontologicamente, una simile idea di realtà è in definitiva quella di una verità mantenuta al suo livello più elementare — insomma, una categoria di ordine puramente gnoseologico.
Non è un caso che l’interdizione immaginata da Buzzati non si limiti al compimento dell’atto: oggetto del divieto non è solo il recarsi sulle montagne, ma è tutta la creazione di senso che si sviluppa intorno a quell’atto. Ciò che preme è impedire una rappresentazione sensata dell’oggetto interdetto: divieto di guardare, anzitutto, e poi naturalmente di parlare, ossia di significare la percezione e l’atto.

Facendo mente locale, ci accorgiamo che nelle sue molteplici varianti teoretiche (oggettivismo, realismo critico, positivismo, meccanicismo, riduzionismo, strutturalismo) il canone di realtà ha operato esattamente come i legislatori del racconto di Buzzati: praticando una amputazione di senso attraverso la negazione del differimento, del rimando ad altro.
Nei paradigmi del realismo la funzione descrittiva (la sola consentita) è denotazione, un atto neutro che ha nell’aderenza al piano oggettivo delle cose la sua principale giustificazione teorica. Chi denota riproduce, riflette. E nell’adesione o nell’aderenza a ciò che riproduce, ha il suo alibi. La realtà è auto-evidente. C’è sempre un’ottima ragione per invocare il realismo.

Il senso evocato dal simbolo è invece di ordine diverso: esso è differito e non-presente; non sussiste e non gode di alcuna oggettività. Il che, detto in altre parole, significa che il simbolo non possiede qualità ascrivibili ad un atto conoscitivo di tipo intellettuale. Pertanto, il realismo non può sussumerlo né spiegarlo.

Bloccare il rimando di senso e costringerlo all’interno delle sole funzioni rappresentative, obbedisce prima di tutto ad un elementare bisogno economico: valorizzare il pieno (la materia immediatamente disponibile, senza bolle e senza anfratti) e proteggere dall’horror vacui del differimento e dello scivolamento verso il fuori — un po’ come mettere il tappo in una vasca per evitare che il contenuto vada perso.
Una società come la nostra, pervasa dall’informazione digitale, tende abbastanza naturalmente a funzionare in questo modo, e a concepire ogni possibile senso come interpolazione, ovvero come relazione diretta tra segni. Tutto ciò che serve oggi per attivare un processo semantico soddisfacente è: decodificazione (abbinamento di significante e significato), riproducibilità (identità e replicabilità del segno, ma anche dell’intero processo), e naturalmente velocità (essendo in tale contesto il tempo una dimensione priva di valore, ed anzi in definitiva un ingombro).
L’oggetto della nostra conoscenza diventa così qualcosa di conchiuso, di massivo e descrivibile solo in termini di proprietà riferibili a sé stesso, o tutt’al più (in talune costruzioni filosofiche) all’attività conoscitiva del soggetto. Lo stesso ambito di realtà viene a configurarsi come sistema, vale a dire come totalità di elementi posti in relazione funzionale tra loro. Non inganni l’impossibilità di circoscrivere il sistema, di tracciarne i confini: le relazioni tra i suoi elementi sono sì indeterminate, ma non mai suscettibili di oltrepassamento.

Proviamo a capire meglio lo scarto tra i due paradigmi. Cosa distingue la cosa (che è puro oggetto) dal simbolo (che è un ente aperto al differimento e all’illuminazione portata dal senso)? Nulla di per sé. Sul piano ontologico, l’oggetto in quanto segno e l’oggetto in quanto simbolo possono al limite coincidere nello stesso ente. La differenza è qualcosa che si trova di fuori, ma che non consiste in un altro oggetto.

Per comprendere questo punto, si consideri — a contrariis — il lavoro che sul fantastico ha svolto Roger Caillois, mantenendosi fedele al modus razionalizzante: «Sono attratto dal mistero. Non ch’io mi abbandoni con compiacimento alla seduzione della magia o alla poesia del meraviglioso. La verità è un’altra: non mi piace non capire [.] Infatti, invece di considerar subito l’indecifrato indecifrabile e rimanere dinanzi a lui affascinato e appagato, io lo considero, al contrario, come qualcosa ‘da decifrare’, con il fermo proposito di giungere in qualche modo, se possibile, a capo dell’enigma» [2].

Il simbolo è molto simile all’indecifrato indecifrabile di Caillois (sebbene raramente, a dire il vero, la relazione con un simile non-oggetto ‘appagh’). Ma “indecifrato indecifrabile” non equivale a dire insensato, indifferente o aleatorio. È anzi esattamente l’opposto. Il simbolo postula una comprensione, nella forma di un riconoscimento preliminare, senza la quale nessuna luce può meccanicisticamente illuminarlo da di fuori. Il che significa che non vi è una regola oggettiva per distinguere il simbolo da un oggetto o da un segno. Tutti gli oggetti e i segni possono farsi simboli. Ma solo colui che si è aperto alla simbolizzazione li riconosce in quanto tali.

Che differenza c’è, allora, tra l’auto-evidenza propria dell’adaequatio e questa modalità originaria che abbiamo definito riconoscimento? Anzitutto, il riconoscimento non è auto-evidente, ma interpellante. Gli anonimi personaggi del racconto di Buzzati sono ben consapevoli di questo fatto: la forza del riconoscimento continua ad operare anche in un mondo completamente reificato, nonostante le ingiunzioni e i divieti. Il divieto stesso, anzi, assume valore solo di fronte al persistere un appello. «Malviste sono le scarpe chiodate, le capre, i bastoni ferrati, i fregi con le aquile, cose e immagini che possono comunque richiamare il ricordo delle montagne», scrive Buzzati. Se l’oggettività era affidata all’automatismo gnoseologico, il simbolo riluce e chiama, evocando il di fuori.

Ci si potrebbe domandare come si sia originata, ad un certo punto, la sua eclissi. Come quell’appello che udivamo sia stato ridotto al silenzio. La questione è troppo ampia e troppo complessa per poter essere qui anche solo abbozzata.
In tempi recenti si sono fatte strada teorie suggestive, in specie tra certe correnti del pensiero postmoderno che individuano nel realismo una sorta di correlativo oggettivo del capitalismo maturo [3]. È una tesi plausibile, che però in definitiva non convince. Intanto, per il semplice motivo che nel corso della Storia anche le società non capitaliste hanno assunto tratti analoghi, e in secondo luogo per il fatto che talune fasi della modernità borghese (e dunque dello sviluppo capitalista) hanno coltivato saperi e linguaggi non-realistici (abbastanza significativo, ad esempio, è il fatto che il simbolismo e il decadentismo, nella retorica del socialismo reale, venissero considerati sintomi del malessere indotto dalla società borghese).

Notiamo invece, ma senza alcuna pretesa di esaurire il punto, che la fine della società simbolica coincide con una particolare fase del capitalismo maturo. Ci sembra però che il nesso causale non vada stabilito tanto con le regole di produzione e di scambio del livello economico, quanto piuttosto con l’essenza di una certa forma dello sviluppo tecnologico: quella che caratterizza la nostra epoca (e certamente anche la nostra struttura di produzione).

Più che alla natura dell’economia capitalista, il declino dei linguaggi simbolici appare conseguente al modo in cui la nostra società ha realizzato il dispiegamento della tecnica, nell’approntamento crescente di strumenti e di mezzi disponibili, e nella rimozione dell’essenza reale di quel dispiegamento (che, come ammoniva Heidegger negli anni cinquanta del ventesimo secolo, riguarda invece «un disvelamento più originario» e «l’appello di una verità» [4]). La rimozione del disvelamento che la tecnica ci propone, la sua riduzione ad apparato di apparati e a insieme di dispositivi, ha segnato radicalmente, e forse una volta per tutte, i nostri discorsi sulla verità. Che a valle di quella china è divenuta funzionamento e operabilità.

Si pensi alla religione. Il Cristianesimo, in quanto koiné filosofica dell’Occidente, è un ottimo indicatore del processo che abbiamo riassunto: il suo nucleo teologico e dogmatico, che era originariamente e primariamente simbolico (nel senso di una trascendenza fondante), sopravvive oggi nella stessa Chiesa come paradigma sociologico e come prontuario di norme morali [5]. Nel linguaggio teologico contemporaneo, per dirla con Sergio Quinzio, il posto della Resurrezione dei corpi e della Salvezza è stato definitivamente occupato da una dottrina mondana progressista e in fin dei conti anonima: «in tempi recenti la verità cristiana non è più stata annunciata nella sua integrità, ma via via ne sono stati accentuati sempre più marcatamente i risvolti e le implicazioni compatibili con la sensibilità degli uomini formatisi nell’orizzonte della cultura e del costume moderni» [6]; «il discorso che viene proposto è ormai, quasi sempre, un discorso soprattutto etico, sociale, politico, economico» [7].

Chiudiamo questa digressione teologica e torniamo al punto iniziale. Come è cambiata, con la rinuncia alla produzione simbolica, l’attività di quel variegato sottogenere dell’arte e della letteratura che si era soliti qualificare come fantastico (ne parliamo per comodità nell’accezione alta proposta da Todorov: «l’esitazione provata [.] di fronte a un avvenimento apparentemente soprannaturale» [8], che non deve risolversi né nell’insolito, né nel meraviglioso)?

È cambiata anzitutto ritirandosi dal proprio alveo come una marea che si abbassa, e cedendo spazio ad altri sottogeneri fisici o fisicalisti [9], oppure derubricando se stessa a fantasticheria (si pensi alla buona salute di cui gode il genere fantasy). Secondariamente ha reificato, reso corporeo e materico il proprio afflato originario, trasformando l’inquietudine dell’alterità che lo fondava in una vicissitudine di corpi (o di psiche, che è più o meno lo stesso: insomma funzionalizzando, come avviene nel cyberpunk), e dimenticando socchiuso il varco verso ulteriori significazioni.
Perché Buzzati aveva visto giusto: quel varco non si è richiuso una volta per tutte. C’è un nucleo vitale, che in alcune opere recenti fuoriesce dall’oscurità (si pensi a prodotti come la serie televisiva True Detective: un noir d’impianto classico, eppure costantemente minacciato dall’incombere di una dimensione estranea, che non si mostra mai, nemmeno indirettamente), e preme per uscire. Ci sono scaturigini simboliche che, nonostante tutto, fluiscono distanti, da qualche parte, come fiumi sotterranei.

Se però si eccettua questo residuo, questo brillare che a stento si percepisce, nient’altro resta del simbolo: solo una regressione infelice al livello dei corpi, la funzionalizzazione psicologistica (ancora più disperata) delle coscienze, e un vago senso d’inquietudine che non sappiamo spiegarci. «E pensare», scrive Buzzati, che mai come adesso le montagne «sono state tanto vive e misteriose». Ma forse questo appello, che alcuni di noi ancora avvertono distintamente, è solo una memoria riflessa, un’eco del tempo in cui ancora guardavamo l’orizzonte in cerca di qualcosa.


[1]. Il presente articolo è una raccolta semiorganizzata di spunti relativi alla trasformazione, avvenuta negli ultimi decenni, dei linguaggi della letteratura e dell’arte appartenenti al cosiddetto genere fantastico.
[2]. Roger Caillois, Nel cuore del fantastico, Abscondita, Milano 2004.
[3]. Si veda ad esempio Realismo capitalista di Mark Fisher (Produzioni Nero, Roma 2018). Nel suo ultimo saggio, The weird and the eerie (Minimum Fax, Roma 2018), Fisher sembra tuttavia volersi spingere un passo oltre il paradigma post-marxista e post-lacaniano degli esordi, per abbracciare uno sguardo più ampio, nel quale la fascinazione del simbolico viene interpretata come una non meglio precisata apertura verso l’esterno. Tra gli scopi del suo saggio non c’è però l’indagine diretta di questa dimensione ulteriore, che viene solamente studiata nei suoi scambi e nelle sue interferenze con il piano della realtà e delle costruzioni psichiche e sociali.
[4]. M. Heidegger, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi (Mursia, Milano 1976). Curiosamente, anche in questo testo vengono incidentalmente menzionate le montagne, nel passaggio in cui il darsi della Verità, viene descritto dallo stesso Heidegger come «ciò che originariamente dispiega i monti in linee montuose e le attraversa unificandole nel loro dispiegato insieme» (ibid., p. 14).
[5]. Molto utile per comprendere questo passaggio in termini teoretici è la ricostruzione compiuta da Joseph Ratzinger in Introduzione al Cristianesimo (Queriniana, Brescia 2003). Ratzinger considera gli effetti dei mutamenti storici sul paradigma della fede, e pone in evidenza la funzione trasformatrice della modernità, nella quale viene progressivamente affermandosi (almeno da Vico e Descartes) l’idea di verità come realtà. Il pensiero tecnico, sempre secondo Ratzinger (ibid., pp. 32 e sgg.), ridurrà via via, nel corso dei secoli, la verità a fattibilità e a ripetibilità. In questo quadro, inevitabilmente, oggi «si prova la tentazione di [interpretare anche la fede] in maniera completamente diversa, introducendo un concetto di teologia politica che [la] considera [.] come un mezzo suscettibile di cambiare il mondo» (ibid., pp. 35-36). A tale declinazione politica Ratzinger contrappone una fede che, pur mantenendo «un nesso decisivo con le forze da cui è animata l’èra contemporanea"» (ibid., p.36), trovi il suo fondamento in un senso che «non può essere fabbricato empiricamente, ma solo venir ricevuto dal di fuori» una fede nella quale «l’elemento invisibile [sia] più vero e reale di quello visibile» (ibid, p.41). Risulta sin troppo facile, oggi, interpretare il passaggio di consegne tra Benedetto XVI e Francesco come il fallimento di un tale programma.
[6]. S. Quinzio, Mysterium iniquitatis, Adelphi, Milano 2009, p. 31.
[7]. Ivi, p. 32.
[8]. T. Todorov, La letteratura fantastica, Garzanti, Milano 1991, p. 28.
[9]. Potremmo elencare le tendenze più o meno recenti della produzione contemporanea di genere, dallo splatter al pulp, allo slasher, sino al genere che oggi piace chiamare torture porn (il quale non ha necessariamente a che fare con la pornografia genitale, ma rende in certo modo pornografica la rappresentazione del dolore fisico e dello scempio operabile sui corpi). Anche se l’interesse che esse suscitano resta un fatto di nicchia, la loro evoluzione ha comunque avuto per effetto un poderoso innalzamento, anche nell’arte e nella narrativa generalista, del livello di fisicizzazione della violenza (e della relativa soglia di tolleranza da parte dello spettatore/lettore medio), facendo dello stupro la figura e il punto culminante obbligato del loro sistema di significazione.



Dino Buzzati, Una fine del mondo, 1967
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