Kasparhauser





Rivista di cultura filosofica

2013


Home


Monografie


Culture Desk


Ateliers


Chi siamo


Info



Dostoevkij: Le notti bianche.
Una patologia del racconto

di Daniel Filoni

30 aprile 2013



A mia madre

La vita è dappertutto, la vita è in noi stessi e non fuori
di noi. Accanto a me ci saranno degli esseri umani
ed essere uomo fra uomini, e restarlo per sempre,
in nessuna sventura avvilirsi o perdersi d’animo,
ecco in cosa consiste la vita, ecco il suo compito
.

F. M. Dostoevskij



“Sii benedetta per il minuto di luce e felicità che desti a un altro cuore solitario, riconoscente! Dio mio! Un intero minuto di felicità! È forse poco sia pure in tutta la vita di un uomo (1)?”.

Sono queste le parole con le quali si conclude l’avvincente romanzo/racconto: Le notti bianche, di Fëdor Dostoevskij. Sicché tutta la storia potrebbe riassumersi, nel suo andamento discendente, in queste quattro battute finali. Il romanzo, come si vede, risulta costruito intorno a un accordo tematico fondamentale: il ritmo della narrazione alterna la solitudine del protagonista, nella quale si compie l’ascesa nella natura (mondo della fantasia), e la successiva fase del ritorno in città, dell’incontro con la fanciulla (mondo della ragione), dove il sognatore riversa sugli uomini il suo messaggio, nel tentativo di accompagnarli oltre il loro limite.

Dostoevskij, qui, a differenza delle opere successive, delinea, con stile leggero, una realtà ancora incorrotta e incontaminata, lontana dall’atmosfera delle strade degradate e malsane descritte nei testi più maturi. In effetti, Le notti bianche rappresenterà per l’autore una sorta di vittoria, di tregua, un baluginare improvviso di luce, prima delle drammatiche vicissitudini biografiche cui andrà, inesorabilmente, incontro. Arrestato nel 49 e condannato a morte, graziato solo in un ultimo momento davanti al patibolo, l’autore di Delitto e Castigo non scriverà più nulla di così limpido e disteso. Però, — sta bene tenerlo a mente — nonostante l’aura che in questo racconto si percepisce, questo non è un romanzo da leggersi tanto per trascorrere qualche ora spensierata; impossibile tenersi al di fuori della storia; ci si sta dentro, ci si vive, si passeggia per i vicoli luminescenti delle notti di maggio con il protagonista/sognatore, ci si trasforma — grazie alla forma carica di pathos — in sognatori. La storia si svolge in cinque notti, il teatro è la splendida Pietroburgo (rarefatta e radiosa per l’occasione), che, con l’esplodere della primavera e il dileguarsi dei suoi abitanti, si presenta agli occhi illuminati del protagonista come un fantasmagorico deserto (Mi pareva che tutta Pietroburgo minacciasse di trasformarsi in un deserto). In effetti, è una Pietroburgo atipica, quella presentata qui da Dostoevskij, — quella dei prati oltre le case — lontana dalle sinistre atmosfere descritte nei romanzi di Gogol’. Pietroburgo appare come una città limpida e distesa, la quale prepara, con il suo incanto, l’incontro tra i due personaggi/protagonisti. Infatti, Pietroburgo, in quest’opera e a differenza di altri romanzi, si mostra come uno spazio sereno che riflette l’andamento magico del racconto.

E qui, forse, sta il grande merito delle Notti bianche di Dostoevskij, anche al di là della bellezza formale e dello stile forbito rivelati dai critici.

Se gettiamo uno sguardo d’insieme al percorso che ancora dobbiamo compiere, dopo avere determinato alcuni aspetti generali del racconto, ci troviamo di fronte a quattro passaggi principali: la questione della natura/sogno, quella della solitudine, il tema dell’amore e infine quello del tempo. Ai fini della nostra analisi tenderemo di far chiarezza su tali questioni.

A una ragazza bruna e affascinante è stata fatta una promessa di matrimonio. Essa trascorre un intero anno nell’attesa dell’incontro con l’amato. Tutti gli avvenimenti avvengono prima della narrazione, tutto viene presentato, dall’autore, in modo tale da far coincidere la storia che sta per verificarsi ai fatti svoltisi in precedenza.

La visione preliminare di tale intreccio narrativo (se la teniamo a mente) consentirà a noi di tenere in mano un filo conduttore, una chiave, per tentare di penetrare in una realtà frammentaria che si presenta, per di più, nella forma (poco accogliente per un’interpretazione che vuole essere critico/filosofica) romanzesca.

Ora si tratta di intendere quale significato assuma, in questo racconto, il termine/concetto: natura, e, inoltre, quale sia la portata della critica che vi si rivolge.

Il romanzo prende inizio con la descrizione dell’afflizione provata dal sognatore, il quale, per distrarsi della partenza degli altri abitanti, compie una passeggiata, oltre i palazzi e le strade della città, fino a un verde prato pianeggiante.

Sicché, non avendo egli, in quel mattino, una meta precisa, finisce per oltrepassare le strade, giungendo, infine, nel bel mezzo della verdeggiante campagna.

Avevo camminato molto e a lungo, sicché, al mio solito, avevo già avuto il tempo di dimenticare affatto dove fossi, quando a un tratto mi trovai una barriera. Di colpo mi sentii allegro, varcai la barriera e mi avvicinai in mezzo ai campi seminati e ai prati, senza provare stanchezza, ma sentendo solo con tutto il mio essere che un peso mi stava cadendo dall’anima. Tutti i passanti mi guardavano con tanta affabilità che pareva proprio fossero lì lì per salutarmi; tutti erano contenti, chissà di che, e tutti dal primo all’ultimo fumavano dei sigari. E anch’io ero lieto come non mi era mai accaduto. Come se d’improvviso mi fossi trovato in Italia: così fortemente la natura aveva colpito me, cittadino mezzo malato e per poco non asfissiato fra le mura della città. (2)

In primo luogo, la natura, qui, viene presentata come una dimensione catartica, in antitesi al mondo corrotto della città amministrata razionalmente. La natura, in questo racconto ma anche in altri scritti — così da divenire un topos letterario — , è il luogo in cui l’animo riesce a pervenire alla consapevolezza della propria profondità. In effetti, solo a contatto con la natura — pare qui metter in evidenza Dostoevskij — l’uomo si riappropria della sua dimensione originaria, più autentica.

C’è qualcosa che commuove in modo indicibile nella nostra natura pietroburghese, quando essa, al giungere della primavera, rivela a un tratto tutta la sua possanza, tutte le forze largite dal cielo, si ammanta, si agghinda, si screzia di colori. (3)

Ma la questione è ben altrimenti complessa. Non si tratta, per quanto concerne questo racconto, solamente, di appurare le bellezze estetiche del cosmo naturale.

Così, se spingiamo la lettura nel profondo, altri orizzonti di senso si dischiudono a contatto con questa realtà. È luogo comune, per alcuni scrittori, nelle loro opere, — al di là delle descrizioni naturalistiche — porre in antitesi città e campagna, così da far sorgere una tensione, una dialettica, tra la dimensione della città — luogo della razionalità — e quella della campagna, dei boschi — luogo dell’inconscio e della magia —. Tale rapporto che si instaura tra l’esistenza intesa come natura-inconscio/città-ragione segna un punto problematico nell’intero discorso.

E sogno solamente ogni giorno che infine una buona volta ne incontrerò qualcuna. Ah, se voi sapeste quante volte fui innamorato a questa maniera... (segue una battuta di Nàstenka) Ma di nessuno, di un ideale, di colei che vedo nei miei sogni. Io creo nelle mie fantasticherie interi romanzi. (4)

D’altronde, anche Shakespeare, nella sua opera: Il sogno di una notte di mezza estate compie un’operazione simile a quella compiuta qui da Dostoevskij . Anche in Il sogno di una notte di mezza estate è presente un contrasto tra il mondo dei boschi/inconscio e quello della città/ragione (dialettica che risulterà determinante per lo svolgersi della narrazione). Questo espediente serve di solito a chi scrive per aprire una spazio che permetta, al di là degli schemi e delle categorie fisse dell’intelletto, di portare a manifestazione il fantastico, il magico; che permetta l’apertura di uno spazio in cui sia concesso il pervenire in superficie — a manifestazione — degli impulsi e delle pulsioni inconsce.

Io sono un sognatore; e vivo così poco di una vita reale e istanti come questo di adesso ne conto di rado, da non poter fare a meno di rinnovare questi istanti nei miei sogni. (5)

E, ancora: la fantasia non è solo una funzione del sogno, ma è una funzione della veglia. Essa è uno stato elementare dello spirito, che precede la più matura funzione dell’intelletto. La fantasia è la ragione dei primitivi e dei selvaggi. Ma è anche una facoltà dell’arte. L’arte è, per molti versi, lo stadio primitivo, elementare, dello spirito.

Pertanto, per quanto concerne questo punto, sia Dostoevskij che Shakespeare sembrano esser in sintonia: solo immergendosi nella dimensione della natura, ossia nella realtà trasfigurante/originaria dell’inconscio, risulta possibile l’innescarsi di quel dispositivo magico che dà vita a eventi e situazioni non dominati dalla ragione, non imbrigliati e schematizzati dalle categorie dell’intelletto.

In certo qual modo involontariamente essa (la natura) mi ricorda la ragazza gracile e malaticcia che voi guardate a volte con rimpianto, a volte con amore compassionevole, a volte poi semplicemente non la notate, ma che in un tratto, in un istante, in non so qual maniera diventa inesprimibilmente bella. (6)

In questa accezione, dunque, la natura, come detto poc’anzi, appare come una dimensione anteriore, più originaria e vera rispetto a quella della città (facciamo bene a tenere questo passaggio a mente per seguire lo svolgersi del racconto). Sicché, solo in virtù dell’immersione nella natura, in queste opere, lo spazio del romanzo si dilata e si dischiude per la dimensione magica, sì da trasformare lo sfondo narrativo, costituendo e preparando la scena per l’incontro. Nelle Notti bianche, dunque, questa realtà naturale non costituisce solamente una cornice, bensì rappresenterà una sorta di prologo, di tema introduttivo, funzionale alla narrazione stessa. Il tema della natura, qui, avrà la funzione di ampliare, con il suo respiro, la parabola del racconto. Ma, soprattutto, l’immersione nel cosmo originario, similmente ad una partitura musicale, nella quale il tema principale si manifesta velatamente in un primo momento per poi esplodere, soltanto, in tutta la sua potenza, successivamente, si configura come una sorta di preludio musicale, all’interno del quale solo in un secondo tempo — con il ritorno in città del sognatore —, sarà possibile il verificarsi del magico incontro, con la sua travolgente esplosione di pathos.

Dopo esserci soffermati sulla questione della natura e del sogno passiamo ad analizzare l’altro tema fondamentale, quello relativo alla solitudine del protagonista. In virtù di questa analisi, potremmo dire che, tutta l’opera è costituita dall’alternarsi di solitudine/malinconia e di incontro/partecipazione.

La solitudine, in questo racconto, è la dimensione che ospita, accoglie e caratterizza meglio di ogni altra il protagonista:

Perché, ecco, sono oramai otto anni che vivo a Pietroburgo e non ho saputo allacciare quasi nemmeno una conoscenza. (7)

Senza questa realtà misteriosa e melanconica, che costituisce il carattere del sognatore (sotto ogni aspetto), molti dei suoi tratti peculiari perderebbero di forza e intensità. Sicché solo venendo a capo di questo spinoso tema si potranno delineare, in modo esaustivo, i tratti e le peculiarità del protagonista.

Mi venne il terrore di rimaner solo e per tre giorni interi vagabondai per la città in uno stato di profonda angoscia, proprio senza comprendere che cosa mi succedesse. (8)

E, ancora:

ma nemmeno uno, proprio nessuno m’invito, come se si fossero dimenticati di me, come se per loro io fossi realmente un estraneo. (9)

Tuttavia, anche se, in prima istanza, la solitudine richiama sentimenti e moti d’animo oscuri e torbidi, non dobbiamo credere che questa sia esiziale per l’uomo. Anche la solitudine, a ben vedere, presenta tratti positivi. Molti furono i pensatori i quali nella storia della filosofia occidentale ne rivelarono le qualità.

Ne prenderemo in esame solo tre. Dei primi due faremo solo un accenno, del terzo, invece, tratteremo in modo più ampio. Il primo è Epicuro, che durante il periodo ellenistico ne tesse, nel suo Perí physeos, un vero e proprio encomio. Vero filosofo, per il pensatore di Samo, è colui il quale, — dopo la perdita del potere e la caduta delle poleis nelle mani di Alessandro il macedone — vive lontano dagli affari pubblici, coltivando, in privato, il proprio cosmo individuale. Tant’è vero che tutta la sua filosofia potrebbe riassumersi in una esemplare formula: “Lathe biōsas”, ossia: vivi nascosto.

L’altro è il romano Lucrezio, il quale, sulla scia degli insegnamenti del maestro Epicuro, nel suo De rerum natura, invita gli uomini a coltivare la solitudine, lontano dagli affanni della politica e dal timore per gli dei. Infine, F. Nietzsche, sul quale — posta l’importanza che assume la solitudine per gran parte della sua filosofia — faremo bene a spendere qualche ulteriore parola.

Nello Zarathustra (la sua opera, se così può dirsi, capitale), nel capitolo «Die Heimkehr», Nietzsche si sofferma sul limite tra vera e falsa poesia, toccando un punto di ulteriore chiarezza e di estrema radicalità. Svolgendo la dialettica tra pienezza e dono, il filosofo tedesco insiste sulla differenza tra Verlassenheit ed Einsamkeit, tra abbandono e solitudine: «una cosa è l’essere abbandonati, un’altra la solitudine». Mentre l’abbandono è la condizione negativa prodotta dalla noncuranza della massa, la solitudine, al contrario, rappresenta la condizione di massima pienezza e di vicinanza all’essere, in cui la vita prende forma nelle azioni e nelle parole del solitario. Il solitario, se così può dirsi, appartandosi dalla schiera omologata e massificata della società restituisce alla vita la sua forza/potenza originaria.

Nietzsche, in quest’opera, sostiene — al contrario di quanto si pensa comunemente — che il solitario non abbandona la vita, non si nasconde, ma, al contrario, è colui che massimamente restituisce all’essere la parola vivificante. Inoltre, scrive il filosofo dello Zarathustra, nella solitudine, aufspringen, si dischiudono, si aprono, «alles Seins Worte und Wort-Schreine», tutte le parole dell’essere e gli scrigni dell’essere; «alles Sein», tutto l’essere, «will hier Wort werden», vuole qui diventare parola, e «alles Werden will hier von mir reden lernen», (10) tutto il divenire vuole qui imparare da me a parlare.

Oh, che cosa c’è per lui della nostra vita reale? Per il suo sguardo viziato io e voi, Nàstenka, viviamo una vita così pigra, lenta, fiacca! A suo modo di vedere, noi tutti siamo così scontenti della nostra sorte e tanto siamo oppressi dalla nostra vita! Sì, davvero, osservate come in realtà, al primo sguardo, tutto in mezzo a noi è freddo, tetro, corrucciato! “Poveretti”! Pensa il mio sognatore. (11)

Da quanto segue, nelle Notti bianche — sulla scia dei pensatori presi qui in esame — potremmo concludere che la solitudine rappresenta il luogo dell’eremitaggio, dell’abbandono, ma anche quello del riempimento, della possibilità, del superamento di sé e della creazione. Abbiamo visto come tutto questo discorso assuma un carattere radicale nel romanzo di Dostoevskij, al punto da rappresentare un crocevia imprescindibile per una descrizione del racconto.

Passiamo ora ad analizzare il tema relativo all’eros, il quale ricopre un ruolo centrale all’interno del racconto. In primo luogo, si potrebbe dire che tutto il romanzo è delineato dall’autore in modo tale da far emergere in superficie questa tragica storia d’amore. Ma, al di là di talune considerazioni impressionistiche, ben più profondi significati dischiude, qui, la potenza vivificante di tale sentimento. Infatti, la questione dell’eros, nelle Notti bianche, viene affrontata da Dostoevskij nella sua ampiezza: non solo l’amore fisico, l’eros, tra i due protagonisti emerge in superficie, ma anche quel sentimento di compassione: la pietas. Il dolore della vita diventa qui il dolore di ogni cosa. Questa forma suprema di conciliazione, d’altronde, ha una storia antica, risulta, essere la stessa espressa da Gesù nel suo rapporto con uomini.

«La potenza dell’oggettivo è infranta solo dall’amore». (12)

Da Gesù in poi, se così può dirsi, questo sentimento rappresenterà in occidente un modello etico, un ideale regolativo, una norma di vita, a cui ispirarsi. Pertanto, sarà proprio la pietas, la compassione, l’elemento che, in modo pregnante, andrà a caratterizzare gran parte delle opere dello scrittore russo. E davvero in queste righe c’è già tutto Dostoevskij , con la sua titanica umanità, ossia il genio sprofondato e partecipe ai/nei dolori dell’esistenza:

Sentite, perché noi tutti non agiamo come fratelli con fratelli? Perché anche l’uomo migliore pare sempre che nasconda qualcosa all’altro e gliela voglia tacere? Perché non dire subito francamente ciò che si ha nel cuore, quando si sa che la propria parola non sarà gettata al vento? Invece ognuno ha l’aria di essere più arcigno che non sia in realtà, come se tutti avessero paura di offendere i propri sentimenti, manifestandoli al più presto. (13)

Ci troviamo, qui, di fronte a una complessità di piani interpretativi che non sembra si possano e si debbano sacrificare l’uno all’altro, ma vadano via via raccordati ed evidenziati per consentire l’accesso più vasto ed articolato possibile alla pluralità degli aspetti riguardanti l’eros.

Proprio in tale atmosfera carica di tensione e di contrasti, ricca di aspirazioni e di speranze, si consuma la vicenda dei protagonisti. Sebbene la fanciulla fosse stata chiara fin dal principio, pregando il sognatore di non innamorarsi (Ma badate, venite ad una condizione; in primo luogo non innamoratevi di me.. Questo non si può, ve l’assicuro, per l’amicizia sono pronta, eccovi la mia mano... Ma innamorarsi non si può ve ne prego! (14)) nonostante queste esplicite premesse, l’esito dell’incontro condurrà tuttavia a scenari imprevisti: grande, d’altronde, è l’illusione che aleggia sul protagonista, avvolto nell’atmosfere vaporose di una travolgente passione. (Ma, Dio mio, come mai ho potuto pensar ciò? Come dunque son potuto essere così cieco, quando tutto ormai è già preso da un altro, quando nulla è mio; quando, infine, perfino quella sua tenerezza, quella sua sollecitudine, quel suo amore... sì, amore verso di me, altro non era che gioia per il vicino incontro con l’altro e desiderio di imporre anche a me la sua felicità!.. (15)). La posizione di ciascuno dei due vista dall’altro è qualcosa di semplicemente negativo e incomprensibile. Nàstenka vede nel sognatore una forma di amore che vorrebbe imporsi al di là della situazione reale. Il sognatore vede, invece, in Nastenkà una tenace manifestazione di amore femminile. La tragedia scaturisce dal fatto che le due leggi non possono coesistere e integrarsi, ma è necessario che si compia l’azione, la quale comporta inevitabilmente una loro reciproca esclusione, configurandosi come un destino.

Questo dell’illusione provocata dall’eros al cospetto degli amanti è un aspetto ben noto agli scrittori sia antichi che moderni. E, davvero, non basterebbe un libro intero per esaurirne la portata in modo esaustivo. Qui, per quanto concerne questo intervento, cercheremo tuttavia di delinearne, in modo sommario, le caratteristiche.

L’amore, fin dall’antichità più remota della nostra civiltà occidentale, per la presa che ebbe sugli uomini, è apparso come una sorta di dio. L’eros, se così può dirsi, è quel fantasma/chimera capace di trasformare l’animo delle persone che ne sono colpite. Ma amore è anche un artista, grazie ad esso, infatti, gli uomini sono ispirati e diventano creatori; grazie alla sua vicinanza vivificante, essi diventano simili agli dei; amore, inoltre, è bellezza, generazione, novità e perpetuazione della specie. Vediamo a proposito — il libro più esemplare al riguardo il — Simposio di Platone quanto ha da dirci:
Infatti, o Socrate, l’amore non è desiderio del bello, come ritieni tu, ma di generare e partorire nel bello [XXV 206e]…. Perché la generazione è ciò che ci può essere di sempre nascente e di immortale in un mortale. Ed è necessario, in base alle cose che si sono ammesse, che l’immortalità si desideri insieme con il bene, se è vero che l’amore è amore di possedere il bene sempre. Da tale ragionamento consegue necessariamente che l’amore è anche amore di immortalità [XXV 207a]…. Chi sia stato educato fino a questo punto rispetto alle cose d’amore, contemplando una dopo l’altra e nel modo giusto le cose belle, costui, pervenendo ormai al termine delle cose d’amore, scorgerà immediatamente qualcosa di bello, per sua natura meraviglioso, proprio quello, o Socrate, a motivo del quale sono state sostenute tutte le fatiche di prima: in primo luogo, qualcosa che sempre è e che non nasce né perisce, non cresce né diminuisce, e inoltre non è da un lato bello e dall’altro brutto, né talora bello e talora no, né bello in relazione ad una cosa e brutto in relazione ad un’altra, né bello in una parte e brutto in un’altra parte, né in quanto bello per alcuni e brutto per altri. E neppure il bello si mostrerà a lui come un volto, o come delle mani, né come alcun’altra delle cose di cui il corpo partecipa; né si mostrerà come un discorso e come una scienza, né come qualcosa che è in qualcos’altro, ad esempio in un essere vivente, oppure in terra o in cielo o in qualcos’altro, ma si manifesterà in se stesso, per se stesso, con se stesso, come forma unica che sempre è. Invece, tutte le altre cose belle partecipano di quello in un modo tale che, anche se esse nascono e periscono, quello in nulla diventa maggiore o minore, né patisce nulla. E quando uno, partendo dalle cose di quaggiù, mediante l’amore dei giovinetti in modo retto, sollevandosi in alto comincia a vedere quel bello, egli viene a raggiungere, in un certo senso, il termine. Infatti, la giusta maniera di procedere da sé o di essere condotto da un altro nelle cose d’amore è questa: prendendo le mosse dalle cose belle di quaggiù, al fine di raggiungere quel Bello, salire sempre di più, come procedendo per gradini, da un corpo bello a due, e da due a tutti i corpi belli, e da tutti i corpi belli alle belle attività umane, e da queste alle belle conoscenze, e dalle conoscenze procedere fino a che non si pervenga a quella conoscenza che è conoscenza di null’altro se non del Bello stesso, e così, giungendo al termine, conoscere ciò che è il bello in sé. È questo il momento nella vita, o caro Socrate”, disse la straniera di Mantinea, “che più di ogni altro è degno di essere vissuto da un uomo, ossia il momento in cui un uomo contempla il bello in sé… Che cosa dunque noi dovremmo pensare, se ad uno capitasse di vedere il Bello in sé assoluto, puro, non mescolato, non affatto contaminato da carni umane e da colori e da altre piccolezze mortali, ma potesse contemplare come forma unica lo stesso Bello divino?… Non pensi, piuttosto, che qui, guardando la bellezza solamente con ciò con cui è visibile, costui partorirà non già pure immagini di virtù, dal momento che non si accosta ad una pura immagine di bello, ma partorirà virtù vere, dal momento che si accosta al Bello vero? E non credi che, generando e coltivando virtù vera, sarà caro agli dei e sarà, se mai lo fu un altro uomo, egli pure immortale? [XXIX 211a-212e]
Nonostante tali premesse poste da Platone sarebbe un errore, per quanto riguarda questo intervento, ritenere l’eros un sentimento totalmente positivo per gli uomini. L’amore, invece, è un sentimento ambivalente, mutevole nelle sue sembianze, capace, in virtù della sua potenza, di distruggere tutto ciò che gli si contrappone. Sono note le grandi catastrofi provocate dall’eros: una smisurata quantità di libri ne testimonia le tragiche conseguenze. In effetti, anche Platone, da quanto visto poc’anzi, è molto chiaro e preciso sull’aspetto ambivalente di questo sentimento. Faremo bene, dunque, a tenere ciò a mente, per quanto concerne la nostra analisi sulle Notti bianche, poiché è proprio tale ambivalenza che disegna e caratterizza lo status dei due protagonisti. Il sognatore ama Nàstenka (È una cosa inattuabile, ma io vi amo, Nàstenka! Ecco quel che c’è! Be’, ora tutto è detto! (16)) ? Quel è la forza di questa passione? Nàstenka condivide questo sentimento con il protagonista? Fino a che punto Nàstenka desidera che l’amato della promessa torni al suo capezzale (Io non lo conosco più, non lo amo più, io lo di...menti...cherò (17))? L’amore è un sentimento che dipende esclusivamente degli uomini, o, piuttosto, esorbita dalle loro capacità — dynamis — (Ma no, no, non sono colpevole; ne ho la sensazione, lo sento, perché il cuore mi dice che ho ragione… (18))? È questo il nido di problemi presente nel racconto; sono queste le domande, difficili, a cui il romanzo di Dostoevskij invita a rispondere; questa, inoltre, è l’ambivalenza, l’illusorietà, che aleggia sull’intero romanzo, al cospetto della quale non è affatto semplice venire a capo.

Per completezza, spenderemo qualche parola sul tema del tempo. In effetti, nonostante il percorso compiuto, per capire la complessità del romanzo, è alla struttura del tempo che bisogna volgersi.


Il Tempo

Viviamo sulla linea del tempo
Lineare contorno edipico
Foglie uccise dal vento.

Tu che sei il nostro maestro già dal principio
Tempo,
e ci insegni che per riuscire all’opera bella
siamo carnefici nell’artificio.

Mostra ai cuori increduli l’eternità che
fa nascere albero e frutto,
la spiga radiosa che si trasforma in grano,
l’uva gentile che da vino usto.

Non sentite la morte distante quando
c’è Apollo nel cielo dorato e
splende il suo elmo come diamante?

(Tempo) Sei padre e figlio.
Circolo e intuizione…. (19)

Perpetuo costruire e perpetua distruzione di vite e di forme. Sicché ciò che all’uomo appare come una vicenda reale altro non è che una realtà trasfigurata dei processi vitali che accadono sotto l’apparente superficie. A proposito del frammento 52 di Eraclito, Nietzsche aveva formulato nella Nascita della tragedia e nello scritto postumo sulla La Filosofia nell’epoca tragica dei Greci le sue considerazioni sul tempo. Aiòn — si leggeva in quell’oscuro frammento di Eraclito, che Gigon considerava, non a torto, quasi impenetrabile — país esti paízon, pesseýon: paidòs e basileíe. (20) Sembra che il frammento intenda dire che aiòn, il tempo, è come un fanciullo che giochi. Il tempo che tutti ci trascina nel suo scorrere implacabile gioca con gli essere umani, e con tutti i viventi. Sovranità, potere assoluto del tempo, simile (in ciò) al regno di un fanciullo che domina le proprie pedine: il tempo è paidòs e basileíe.

A di là dell’immagine bella, il concetto di Eraclito rinvia al divenire come “il giuoco che l’Eone gioca con se stesso”, “come giocano il fanciullo e l’artista”. Perpetuo costruire e perpetua distruzione di vite e di forme. Sicché ciò che all’uomo appare come una vicenda reale altro non è che una realtà trasfigurata dei processi vitali che accadono stotto la superficie. Abbiamo fatto questa considerazione, dal momento che questa premessa ci servirà per avere un quadro più chiaro, nello svolgersi del discorso sul tempo. In effetti, anche in questo racconto la tematica del tempo assume un’importanza peculiare. Se si tiene presente la parabola del romanzo non è difficile scorgere quanto tutta la storia dipenda e si costituisca in virtù del tempo.

In primo luogo, la storia è strutturata in cinque notti, all’interno delle quali si compie e consuma la vicenda dell’incontro. Ogni notte possiede una propria autonomia; ogni notte vede compiersi il progressivo e graduale avvicinamento tra i due protagonisti. Un anno è trascorso dalla fatidica promessa: Nàstenka attende il ritorno dell’amato con trepidazione. Quand’ecco che, improvvisamente, si compie il magico incontro tra i due personaggi. Tutto sembra così meravigliosamente perfetto; tutto avviene con una esattezza e un’inerzia travolgenti. Sembra di assistere al compiersi di una fiaba: al cospetto di una incantevole Pietroburgo, adornata dall’incedere della primavera, si assiste alla magica vicenda, alla potenza dispiegantesi dell’amore. Facendo ben attenzione però, proprio questo punto, invita a riflettere; forse sta tutta qui la grandezza di questo romanzo di Dostoevskij. Se fosse stata soltanto una favola e non un romanzo non sarebbe stato presente l’elemento del tempo. Al di là delle giovanili e fruttuose riflessioni di G. Lukàcs a riguardo, nella sua opera Teoria del romanzo, è alla dimensione del tempo che qui bisogna volgersi. È il Tempo, dunque, che rende questo racconto una storia e lo fa simile alla vita. Se si trattasse di una favola, la narrazione si sarebbe conclusa con un lieto fine; se il tempo non fosse stato presente non si sarebbe parlato di notti, di attese e di eventi, ma ogni circostanza avrebbe avuto il placido e statico carattere dell’eternità.

Io lo amo; ma questo passerà, questo deve passare, non può fare a meno di passare; sta già passando, lo sento… (21)

Nelle notti bianche, dunque, tutto rimanda alla tematica della temporalità. Inoltre, nonostante l’apparente magia presente nel racconto, a ben vedere, la storia, gli eventi sono carichi di realtà; la storia assume il carattere della vita proprio quando si consuma nella vicenda del tempo. La conclusione stessa è un magnifico esempio di quanto la vita e la dimensione del tempo siano presenti in questo romanzo. Proprio quando tutto sembra compiuto, ossia Nàstenka rinuncia al ritorno dell’amato; quando l’avvicinamento tra i protagonisti raggiunge il massimo di intensità lirica e l’amore sembra vincere ogni contingente resistenza, il tempo si sgretola, esplodendo. Con merito e ragione molti critici di Dostoevskij, hanno rivelato nei suoi romanzi una dimensione catastrofica del tempo. Ed è proprio una catastrofe temporale ciò che avviene nelle Notti bianche. Mentre il tempo sembra chiudere la storia sancendo, in tal modo, un’idilliaca conclusione (ossia, l’unione tra i due protagonisti), avviene il cortocircuito. Perché, ci domandiamo, dunque, il ritorno dell’amato accade in modo così rocambolesco, da stravolgere l’intero corso della vicenda? Perché il ritorno si compie, in modo improvviso, proprio sul finale e non all’inizio della quarta notte, così da assumere un aspetto tragico? Forse perché, se così può dirsi, questo romanzo possiede in modo pregnante i tratti e il volto della vita. Come la vita si consuma nel suo andamento innocente e selvaggio, così questo racconto si compie e si conclude repentinamente, senza lasciare spazio ai particolari sentimenti degli uomini, che abitano il suo spazio.

Guardai Matriona... Era una vecchia ancora in gamba, giovanile, ma, non so perché, di colpo mi si presentò con lo sguardo spento, le rughe sul viso, curva e decrepita… (22)

Come accade in questo scritto, così anche nella vita, ciò che sembra veramente necessario è il selvaggio configurarsi dei fenomeni e non i sentimenti provati dagli uomini. Forse, proprio, in questo consiste l’elemento tragico della vita. Sicché il più grave e imperdonabile errore degli uomini risulta quello di pensare che il cosmo, nella sua armoniosa totalità, sia un luogo creato prettamente per il loro benessere o la loro felicità, al di là del dispiegarsi degli eventi e del manifestarsi delle leggi empiriche, le quali, soltanto, ne regolano, con tenace necessità, il corso.

... O forse era balenata davanti a me così arcigna tutta la prospettiva del mio avvenire, e io mi vidi come sono ora, giusto quindici anni dopo, invecchiato, in quella stessa camera, ugualmente solo, con la stessa Matriona, che non si è fatta per nulla più intelligente in tutti questi anni. (23)

Così, mentre essi pensano esclusivamente alla propria felicità, la vita dispiega, nella sua innocente selvatichezza, le proprie leggi, poco curandosi dei danni irrimediabili che questo necessario e travolgente dispiegamento di energia provoca a danno delle creature che lo subiscono.

Infine, faremo, per concludere il nostro intervento, qualche accenno sui caratteri dei protagonisti. D’altronde, sono proprio tali peculiarità che rendono così ricco e suggestivo questo racconto. Infatti, i protagonisti nella loro giovanile irrequietezza, arrivano alle pagine come sospinti da un anelito, un’atmosfera spirituale, incontenibili. Sicché essi appaiono come portatori di un pathos irrimandabile; sono personaggi creati dal genio di Dostoevskij con una passione che ne delinea i tratti caratteriali, animati e sospinti alla superficie da moti profondi e turbolenti. In tal modo si presenta il sognatore/protagonista delle Notti bianche, avvolto in una atmosfera di pathos, sprofondato irrimediabilmente nel mondo del sogno.

Il fatto che il protagonista sia un sognatore comporta una conseguenza di rilievo. Proprio perché è dominato dal mondo della fantasia, il sognatore vive un’esistenza solitaria ed appartata. A lui la vita sembra una grande visione, un susseguirsi d’immagini costellate di fantasmi e alimentate dall’inconscio, fino al momento cruciale e carico di significato dell’incontro con Nàstenka (giovinetta, diciassettenne e orfana) — legata materialmente alla nonna-gendarme —, che ne stravolge il corso.

Sebbene l’autore ne descriva soltanto qualche tratto, non si sa molto della vita dei protagonisti; il racconto è strutturato al di là delle convenzioni gerarchiche e sociali, le quali di frequente gravano sull’andamento dei racconti, determinandone senso e storia. (La storia! — mi misi a gridare spaventato — La storia! Ma chi ha detto che io ho una storia? Io non ho una storia) (24). Nelle “Notti bianche si trova una sorta di universalizzazione del “tipo” dei personaggi; non conta, per il messaggio che se ne vuole dare, la preistoria sociale da cui essi provengono. Di conseguenza, l’incontro con Nàstenka rappresenterà per il protagonista una sorta di spartiacque. Dopo quest’incontro, benché tra i due non nascerà l’amore (quantomeno da parte di Lei), il sognatore muterà il suo modus vivendi. Il carattere di lui, l’atteggiamento subiranno una notevole flessione, poiché, tale, risulta la forza sconvolgente di questo sentimento.

Oh Nàstenka, Nàstenka! Lo sapete voi per quanto tempo mi avete riconciliato con me stesso? Sapete che ormai non potrò più pensare di me con tanto pessimismo come in certi momenti? Sapete che forse non proverò più l’angoscia di aver commesso un delitto e un peccato nella mia vita, perché una vita simile è un delitto e un peccato? E non pensate che io abbia esagerato alcunché, per l’amor di Dio, non lo pensate, Nàstenka, perché alle volte mi assalgono dei momenti di una tale angoscia, di una tale angoscia… (25)

Nonostante la maestosa narrazione di questo “evento”, come già detto in precedenza, la storia non avrà un lieto fine; Nàstenka non sposerà il sognatore; il romanzo si conclude con il ritorno dell’amato (della promessa) e la definitiva unione con la fanciulla.

Dio, che grido! Come sussultò! Come si strappò dal mio braccio e volò incontro a lui!.. Io me ne stavo a guardarli come annientato. (26)

Al di là della gioia provata dalla ragazza per il ritorno dell’amato, ben più profonde conseguenze dischiude, però, per il sognatore, questo catastrofico evento.

Sono ben altre le riflessione a cui questo finale sospinge. Chi, d’altronde, tra i lettori, al cospetto dell’esito tragico del racconto, non ha provato la voglia e il desiderio di riscriverne il finale? O, piuttosto, non ha voluto trasformare l’esito della vicenda, tra i due protagonisti, in un magnifico idillio d’amore? Chi, con il cuore in gola, non ha provato pietà e compassione per il sognatore, proprio per l’esito negativo “dell’incontro”, quando già tutto pareva compiuto, quando finalmente la vita aveva bussato alla porta del protagonista, mostrandogli — nelle fattezze sublimi e nell’onestà morale della donna — un futuro fatto di tenerezze e intimità paradisiache?

Questo piccolo romanzo, in verità, nonostante la sua mole discreta, ha la forza di un macigno; questo libro possiede la potenza vivificante di mille racconti; esso ha la capacità di far pensare come un tomo di filosofia, e, tuttavia la sua trama, al contrario di un libro di filosofia, risulta leggera e impalpabile. Questo racconto somiglia in modo straordinario alla vita. Da qui la sua grandezza. Come la vita appare nella superficie, nel suo configurarsi in fenomeni, leggera eppur selvaggia, così questo libro risulta un libro innocente-selvaggio allo stesso tempo. Come la vita ha la potenza di distruggere ogni essere, ogni ente o situazione in un istante, così questo libro ha — nonostante la veste tragica della parvenza dell’illusione — nella sua dimensione patologica, la capacità di dischiudere infiniti orizzonti di senso, di far apparire costellazioni di significati sempre nuovi e diversi. E ciò stimola a pensare. E non è forse questo ciò che dovrebbe — kantianamente (Il Kant della facoltà riflettente di giudizio) -esteticamente — fare ogni opera d’arte degna di questo nome? Cioè: far pensare?


(1) F. M. Dostoevskij, Le notti bianche, tr. di G. Faccioli, Bur, Milano 2007, p. 148.
(2) Ivi, p. 43.
(3) Ivi, p. 43.
(4) Ivi, p. 49.
(5) Ivi, p. 53.
(6) Ivi, p. 43.
(7) Ivi, p. 35.
(8) Ivi, p. 35.
(9) Ivi, p. 41.
(10) Tutti i rifermenti sono alla Parte terza, «Il ritorno a casa». Per un’edizione italiana vedi F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, tr. di M. Montinari, Adelphi, Milano 1976, pp. 223-227.
(11) F. M. Dostoevskij, Le notti bianche, cit., p. 75.
(12) G. W. F. Hegel, «Lo spirito del cristianesimo e il suo destino», in Scritti teologici giovanili, a cura di N. Vaccaro e E. Mirri, Guida, Napoli 1972, p. 409.
(13) F. M. Dostoevskij, Le notti bianche, cit., p. 121.
(14) Ivi, p. 55.
(15) Ivi, p. 137.
(16) Ivi, p. 129.
(17) Ivi, p. 130.
(18) Ivi, p. 131.
(19) D. Filoni, «Immagini e forme», (n.p.).
(20) «52. --- il corso dell’età è fanciullo nel trastullo, che muove le pedine: il reame d’un fanciullo», tr. di A. Lami (I Prescratici. Testimonianze e frammenti da Talete a Empedcole, Bur, Milano 1991).
(21) F. M. Dostoevskij, Le notti bianche, cit., p. 135.
(22) Ivi, p. 147.
(23) Ivi, p. 149.
(24) Ivi, p. 59.
(25) Ivi, p. 83.
(26) Ivi, p. 143.


Luchino Visconti, Le notti bianche, 1957



Home » Ateliers » Estetica

© 2013 kasparhauser.net