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Inventariare la morte.
Il Soccombente di Thomas Bernhard

di Giuseppe Crivella

27 aprile 2021


Anche solo aprendo Il Soccombente il connotato più evidente che invade senza requie la pagina di Bernhard è in articulo mortis un effondersi torrenziale e livido di rovi mnestici. A questo segue il rincorrersi ossessivo, martellante, compulsivo di un pensiero smarrito nel proprio brutale girare a vuoto, arenato in uno stallo inavvertito e flagrante, destinato a conoscere come unico spostamento effettivo il proprio indefinito sprofondare nelle cedevoli e voraci sabbie d'una parola grondante l'abbacinato splendore di un senso puntualmente evaso, eluso, liso lungo il margine tagliente di un ricordo duramente dominante — ingombrante quasi come un ignoto cadavere in putrefazione — e corrosivo, simile a una volatile soluzione acida che consumi e divori financo il respiro, all'interno della devastata camera mentale del narratore:
cominciare uno scritto è la cosa più difficile che esista e io mi sono sempre aggirato per mesi e perfino per anni con l'idea di uno scritto che non riuscivo a cominciare, e così è accaduto anche per Glenn, il quale, come allora pensavo, doveva assolutamente essere descritto, ma solo da un testimone competente della sua vita e della sua attività pianistica, da un testimone competente della sua mente straordinaria in tutto e per tutto. Un giorno mi azzardai a cominciare questo scritto nell'albergo Inglaterra dove avevo intenzione di trattenermi per due giorni soltanto, mentre poi ci rimasi per sei settimane senza mai smettere di scrivere su Glenn [1].
All'interno di tale camera — probabilmente una di quelle «stanze portatrici di morte» a cui si fa esplicito riferimento nel testo [2] — il tempo non scorre, contratto in ciò che Poulet definisce durée non successive [3]: affetto da una sorta di nauseabondo turgore di passato, esso lievita nella fredda latenza di momenti e frangenti trascorsi, che infestano e corrompono la vita solo apparentemente attuale, solo illusoriamente presente del narratore, costellandola di brandelli agonizzanti, i quali provengono oscuramente, per un transfert grottesco e sottile, impetuoso e perseguitante, dalle altre due esistenze che hanno incrociato fatalmente la propria. Il tempo è qui lo spasimo estremo e lancinante di una reminiscenza fattasi vischiosa ragnatela psichica, impalpabile e infrangibile, serrata attorno all'ottuso contrarsi della voce narrante sulla cenere cieca del ricordo, ma soprattutto qui il tempo è colpito da una paralisi talmente potente e pervasiva da rappresentare forse l'ultima forse estrema di trascendenza, di una trascendenza anchilosata e deforme [4].

Pubblicato nel 1983, Il Soccombente non è solo uno dei romanzi più noti e conosciuti di Bernhard, ma è anche il testo nel quale egli è riuscito a convogliare in modo massiccio un nutritissimo fascio di aspetti, temi, motivi tipici del suo mondo romanzesco: vi è il personaggio ossessivamente monologante (qui il narratore-Thomas), vi è quel divorante cupio dissolvi nelle cui spire ogni figura bernhardiana sembra essere irreparabilmente presa, vi è inoltre il difficile rapporto con una scrittura tanto più densa quanto più finalizzata a tradurre in parole, pensieri e ricordi un vuoto esistenziale a cui non è possibile ormai sfuggire.
Ma che cosa racconta questo romanzo? Esso è la fittizia rievocazione di un incontro folgorante e letale, quello tra Wertheimer e il narratore, larvale simulacro di Bernhard, con Glenn Gould — asceta batailleano del suono — in Svizzera, per seguire le lezioni di Horowitz. Tale incontro per i tre protagonisti segnerà un punto di non ritorno: Gould diventerà quell'esecutore che tutti conosciamo, gli altri due si ritroveranno ad essere invece esistenze bruciate dal contatto con l'assoluto rappresentato appunto dalla perfezione del pianista canadese [5].
Romanzo di réminiscences décousues [6] dunque, nonché romanzo completamente calato in un temps devenu fou [7]: in esso infatti pare non vi sia presente, se non come lo spezzato affiorare di un gesto perpetuamente in fieri, dilatato a misura d'inferma eternità, intrappolata cioè nella perennità demente di un discorso che delira e dolora lungo il denso serpeggiare di un feroce impulso rimemorante che non può non rileggere e ricostruire gli episodi della vita di Wertheimer — e, di riflesso, del narratore stesso — come ignobili atti criminosi, perpetrati con lucida ottusità a danno di innocenti — la sorella nel caso di Wertheimer, la famiglia nel caso del narratore — da cui far discendere una larvata condanna a morte, nel primo caso goffamente autoinflitta, nel secondo invece vergognosamente dilazionata [8]:
Wertheimer, oltre a imitare Glenn, pensai, aveva voluto esibirsi davanti alla sorella, e siccome voleva farle pagare tutto si era impiccato a soli cento passi dalla casa di lei a Zizers. Ha comprato un biglietto ferroviario fino a Zizers nei pressi di Coira, poi è arrivato a Zizers e, a cento passi dalla casa di sua sorella, si è impiccato. Dell'uomo trovato impiccato non è stata riconosciuta la vera identità per vari giorni [...]. La sorella di Wertheimer, la quale non sapeva neppure che a distanza di cento passi da casa sua un uomo si era impiccato, era subito corsa all'obitorio di Coira e aveva, come si suol dire, identificato suo fratello. I conti di Wertheimer adesso tornavano: per la maniera in cui si è suicidato e per il luogo che ha scelto per il proprio suicidio, Wertheimer ha precipitato sua sorella in un senso di colpa destinato a durare tutta la vita [9].
Il Soccombente è uno di quei romanzi che nasce avvitandosi integralmente attorno ai bei congegnati moduli strutturali di quella che potremmo chiamare un'architettura dello sfacelo. Dilagando sotto la spinta incontenibile di una notturna secrezione memoriale — nel cui grumoso scorrere le vite del narratore e di Wertheimer si profilano quali immondi cascami sacrificati quasi senza motivo all'altare di Glenn Gould — il romanzo è anche un esempio perfetto di ascesi negativa: il fallimento dei due personaggi è una sorta di Itinerarium mentis in Nihil [10], il risultato di una volontà accanitamente ostile a se stessa, la quale persegue monomaniacalmente una unio spastica non con l'assoluto, ma con la devastazione e la disperazione, culminanti come loro più naturale sviluppo in un raffinatissimo solipsismo a tre: metafisico quello di Glenn, poiché mirante unicamente alla glaciale perfezione delle esecuzioni bachiane [11]; pseudofilosofico [12] quello del narratore, poiché dedito ad una speculazione vaga ed inconcludente, debilitata dagli astratti furori di un intelletto attonito dinanzi al proprio fallimento artistico; animale quello di Wertheimer, poiché regredito ad una vita di cupa clausura, vero e proprio uomo del sottosuolo che trascorre gli ultimi anni della sua vacua esistenza a concertare capillarmente la propria morte paradossalmente postuma [13].

Lungo tutto il romanzo per canonem, potremmo dire, le tre voci si alternano e si accavallano, s'intrecciano e interferiscono in una parola molteplice e tentacolare, ritmata ora sull'inesorabile silenzio di Glenn, ora sulla disturbata evanescenza del narratore, ora sul deragliato soliloquio che Wertheimer ha tessuto e ritessuto attorno a sé come la certosina polluzione di un corpo a cui sia stato concesso di assistere alla propria infinita marcescenza.
È come se un sordido spumeggiare di relitti e aborti esistenziali ottundesse sempre le vite dei tre personaggi, facendo sì in tal modo che il romanzo nella sua slogata ossatura venga a configurarsi quale controcanto atrocemente sincero a ciò che la più recente tradizione narrativa europea, e soprattutto tedesca, chiamava Bildungsroman, romanzo di formazione. Se quest'ultimo si incaricava di riportare all'interno di una ratio costruttiva compatta e organica le vicende teleologicamente orientate della nascita, della maturazione (guidata e ponderata) e del perfezionarsi di una vocazione specifica del protagonista della storia col “romanzo confessione” à la Bernhard siamo di fronte a ciò che potremmo invece battezzare Entstellungsroman.
Ma cosa dobbiamo intendere con quest'ultima formula? /Entstellung/ è, come noto un potente e significativo lemma freudiano dal campo semantico piuttosto variegato, pertanto all'interno di esso sceglieremo tre accezioni [14], ottenendo così tre sfumature di senso che andranno a definire meglio la portata innovativa de Il Soccombente.
Questo infatti è innanzitutto romanzo della deformazione: deformazione patologica — romanzo quindi come decerebrata patografia — subita in modo chirurgico dal reale, trasfigurato in una sorta di sterminata stanza della tortura — secondo le illuminanti indicazioni lasciateci da Macchia nel suo celebre saggio del 1981 [15] — da cui non è dato fuggire, ma in cui è solo possibile apprezzare con macabra degustazione lo splendore di un supplizio senza fine e senza causa e ove, tra soffocazione e rivolta, esistere è una brutale ignominia che, pur tendendo sempre al proprio limite, ogni volta è destinata a ricadere nel più desolato e abietto dei fallimenti, quello cioè di venire esistiti [16], soccombendo lentamente non tanto per l'insostenibilità di determinate situazioni, quanto piuttosto per la consueta e quotidiana spietatezza con cui queste si presentano quali semplici dati di fatto.
Ma Il Soccombente è anche romanzo della dislocazione: dislocazione del soggetto e della parola intrappolati all'interno di una scomposizione prismatica della voce narrante, romanzo quindi come policefala e verbigerante schizofonia [17]: tragicamente ed infinitamente Wertheimer e il narratore non smettono di rispecchiarsi l'uno nella immagine mostruosa e lacunosa dell'altro, come riflessi mostruosi e alienati di una terza figura — Glenn Gould — posta quale inassegnabile oggetto mediano, assente perché sostanzialmente irrappresentabile, simile alla irrespirabile profondità di un vuoto che divora ciò che vi si pone innanzi, nella cui immensa eclissi i due volti collidono infrangendosi nello sfolgorio spettrale di fisionomie mutile in perpetua sovrimpressione. Scrive non a caso Bernhard:
se guardiamo con attenzione gli esseri umani, ci disse Glenn una volta, non vediamo altro che mutilati, mutilati esteriormente o interiormente, o anche interiormente e esteriormente, sono tutti così, pensai. Quanto più a lungo guardiamo con attenzione un essere umano, tanto più egli ci appare mutilato, dal momento che all'inizio ci rifiutiamo di percepire l'entità vera della sua mutilazione. Camminando per la strada incontriamo soltanto dei mutilati. Invitiamo da noi una persona e ci troviamo in casa un mutilato, così Glenn, pensai. In effetti questo l'ho constatato anch'io moltissime volte, e dunque non ho potuto far altro che confermare le parole di Glenn. Wertheimer, Glenn, io, siamo tutti dei mutilati [18].
In ultimo questo testo va inteso come romanzo della deposizione: in primis deposizione del narratore che sembra rilasciare — sotto forma di confessione — una serie di dichiarazioni davanti ad una Corte di giudici invisibili e privi di identità, ora remotissimi come i Signori del Castello kafkiano, ora talmente prossimi da assediare quasi dall'interno la corrotta coscienza del narratore, condannato ed inchiodato alla più cruda sincerità; ma, in seconda battuta, anche deposizione del corpo di un morto, quello di Wertheimer, causa del viaggio del narratore e livido pretesto da cui si snoda, rovente e tellurico, il flutto ebbro dei ricordi, romanzo quindi come circolare e illimitato deserto di résurrections anachroniques [19] dei due defunti che di volta in volta infestano l'istanza enunciativa della persona loquens. In tal senso le tre figure del romanzo sono a tutti gli effetti
personnages: ils sont en position de personnage, et pourtant ce sont des points de singularité (des feux de lieu ou locaux), immobiles, quoique le parcours d'un mouvement dans un espace raréfié, en ce sens qu'il ne peut presque rien s'y passer, se trace des uns aux autres, parcours multiple par lequel, fixes, il ne cessent de s'échanger et, identiques, de changer. Espace raréfié que l'effet de rareté tend à rendre infini jusqu'à la limite qui ne le borne pas [...]. La mort ici, loin de faire ouvre, a toujours déjà fait son ouvre: désouvrement mortel. Par là l'écriture [...] ayant toujours lieu là où il y a lieu de mourir et donc comme après la mort perpétuelle, met en scène, sur un fond d'absence, des semblants de phrases, des restes de langage, des imitations de pensée, des simulations d'être [20].
Alla luce di ciò possiamo tranquillamente dire che la memoria per Bernhard non è assolutamente un momento di composto raccoglimento a cui far seguire l'atto della evocazione larica dei trapassati, ma piuttosto essa è ipertrofica e pervasiva, si squaderna nella mente del narratore come un lavico rincorrersi di atti d'accusa e rancori, delusioni, invidie, odi e vendette — a volte progettate e poi soffocate, altre volte portate a compimento — nonché di aspre rassegnazioni, le quali offrono un perfetto spaccato della deliberata abiezione a cui i due soccombenti — il narratore e Wertheimer — si erano ridotti dopo l'incontro con Gould.

Nell'osceno ritratto di Wertheimer la persona loquens proietta se stesso: nel suicidio del primo, il secondo infatti non può non scorgere per barlumi infernali un altro suo fallimento, l'ennesima testimonianza della sua viscida pavidità, esattamente come Wertheimer aveva visto nella morte di Glenn l'atto dell'estrema consacrazione di questo a genio universale della musica, e la condanna a sopravvivergli inutilmente come la più dolorosa prova della assoluta superfluità della sua esistenza definitivamente mancata.
gli uomini che si suicidano sono ridicoli, diceva spesso Wertheimer, quelli che si impiccano sono i più disgustosi di tutti, diceva anche, pensai, adesso naturalmente ci sorprende che egli parlasse così spesso di suicidio, ma devo dire che ogni volta, ora più ora meno, i suicidi li prendeva in giro, del suicidio e dei suicidi parlava sempre come se questi due concetti non avessero per lui il minimo interesse, come se sia l'uno sia l'altro non potessero riguardarlo in alcun modo. Io ero un uomo da suicidio, questo lo diceva spesso [...], la persona minacciata ero io, lui no di certo [21].
Il narratore non racconta per ricordare. Racconta per condannare e condannarsi, tumulandosi sotto un'ininterrotta requisitoria di sapore densamente dürrenmattiano: Wertheimer e la persona loquens sono al tempo stesso vittime e carnefici l'uno dell'altro. Spesso il narratore — la cui voce a volte sembra flettersi alla quarta persona singolare, scollandosi cioè assurdamente dall'identificazione con il titolare delle istanze di enunciazione [22] e vagando lacera e vacua all'interno di un dedalo mnestico in cui i tre vissuti si contaminano a vicenda, oppure riducendosi a seconda ombra portata (la prima è naturalmente quella di Wertheimer) del corpo astrale di Glenn — è esso stesso preda della ruggine corrosiva rilasciata dalle proprie parole: consumato, dissolto, evacuato da esse come in un amorfo rifiuto sempre più prossimo alla scomparsa, il narratore è un lucidissimo indagatore di se stesso, delle sue più fosche intenzioni e volizioni, che diventano avvertibili solo se proiettate nello specchio ustorio dell'esistenza di Wertheimer.
Non è allora un caso che sia proprio la persona loquens, riferendosi a Wertheimer, a pronunciare queste parole, nelle quali sinistramente traspare il suo stesso atteggiamento nei confronti del trasparente ma onnipresente Glenn, così che in fin dei conti neppure questo è destinato a salvarsi agli occhi di chi narra:
non lasciare tracce è stata infatti una delle sue [di Wertheimer] massime. Quando un amico muore, noi lo inchiodiamo alle sue stesse massime, dichiarazioni, lo uccidiamo insomma con le sue stesse armi. Da un lato egli continua a vivere in ciò che nel corso della sua vita ha detto a noi [...], dall'altro lato con quelle stesse cose noi lo uccidiamo. Non c'è nessuno più spietato di noi (contro di lui!) nell'usare le sue dichiarazioni e i suoi appunti, pensai, e quando non disponiamo più dei suoi appunti, perché lui assai saggiamente li ha distrutti, allora per annientarlo ricorriamo alle sue dichiarazioni, pensai. Noi sfruttiamo l'eredità di cui siamo venuti in possesso per annientare ancora di più colui che ce l'ha lasciata, e se di qualcuno non è rimasta un'eredità che si presti ad annientarlo, allora semplicemente noi ci inventiamo delle dichiarazioni da usare contro di lui, e così via, pensai. Gli eredi sono crudeli, i superstiti non hanno il minimo riguardo, pensai [23].
La partita a scacchi che gioca il narratore non è con la morte quindi, ma con la memoria e probabilmente non v'è personaggio più affine a lui dell'animale tenebrosamente monologante che secerne la vorticosa ed asfissiante [24] confessione-trappola de Der Bau, uno degli ultimi e più brillanti racconti di Kafka.
In entrambi i casi è il linguaggio ad essere al contempo schermo e ferita, deserta latitudine psichica e freddo esercizio di eviscerazione praticato sulle proprie carni. Il romanzo-confessione di Bernhard, o meglio il suo Entstellungsroman, è la perfetta contropartita, il simmetrico contrappeso della deliberata auto-estinzione estetica di Glenn e della brutale auto-soppressione di Wertheimer.
In essa il narratore mette in scena il proprio goffo e improbabile sacrificio; questo si solidifica però sul suo volto come una maschera mortuaria che invece di ricordarne i tratti li altera, soffocandolo, deturpandolo, alienandolo fino alla più irreversibile soglia di catatonia rammemorante, gravida d'una forma di demenza che, nelle sue fasi più acute, corrisponde esattamente alla massima lucidità e dunque alla più efferata sincerità.

NOTE

[1] Th. Bernhard, Il Soccombente, trad. it. di R. Colorni, Adelphi, Milano 1985, p. 70. Da ora sempre abbreviato con S, seguito dal numero di pagina.
[2]. Ivi, p. 42.
[3]. G. Poulet, Études sur le temps humain IV. Mesure de l'instant, Plon, Paris 1964, p. 99.
[4]. Su questo cfr. Th.F. Barry, On Paralysis and Transcendence in Thomas Bernhard, in Modern Austrian Literature, vol. 21, n. 3/4, special Thomas Berhanrd issue (1988), pp. 187-200.
[5]. S, p. 76.
[6]. G. Poulet, Études sur le temps humain IV, p. 171.
[7]. Ivi, p. 172.
[8]. Cfr. il riferimento alla «tattica dilatoria», Ivi, p. 80.
[9]. Ivi, p. 50.
[10]. Ivi, p. 73 e pp. 79-80.
[11]. Emblematica in tal senso è la riflessione che sviluppa il narratore in merito alla volontà di Gould di identificarsi in toto con lo strumento, di diventare egli stesso lo Steinway: «il suonatore di pianoforte ideale (Glenn non usava mai il termine pianista!) è colui che vuole essere pianoforte, e infatti ogni giorno mi dico appena sveglio voglio essere lo Steinway, non voglio essere l'uomo che suona lo Steinway, voglio essere lo Steinway, lo Steinway in sé. Qualche volta ci avviciniamo, anzi ci avviciniamo moltissimo a questo ideale, diceva, ed è allora che ci sembra di impazzire, di essere quasi arrivati alla follia che temiamo più di ogni altra cosa al mondo. Per tutta la vita Glenn aveva avuto il desiderio di essere lo Steinway in sé, gli era odiosa l'idea di porsi solamente come intermediario musicale tra Bach e lo Steinway e di essere un giorno stritolato tra Bach e lo Steinway... » (S, pp. 78). È inoltre evidente che queste considerazioni andrebbero incrociate con quelle sulla soggettività – intesa come qualcosa di iniquo e impreciso – che il narratore presenta verso la fine del testo (cfr. Ivi, p. 141).
[12]. Su questo cfr. Ivi, pp. 55-56, ove si affronta la questione delle teste raziocinanti, nonché p. 15 in cui la persona loquens ammette di «aver abusato della filosofia». Cfr. anche p. 49, in cui il narratore si presenta in qualità di «esperto di visioni del mondo».
[13]. Ivi, pp. 60-61. Va detto che nel testo non c'è in effetti un riferimento diretto all'animalizzazione di Wertheimer. Tuttavia questo aspetto è deducibile da ciò che il narratore osserva a proposito della propensione del suo compagno di fallimento a frequentare e visitare cimiteri, tramutandosi in ultimo in una sorta di umbratile creatura necrofaga che covi lungamente e ossessivamente la propria morte. Inoltre il perseguimento di tale progetto rientrerebbe a tutti gli effetti in quei processi riferibili al concetto di Deterministic Chaos che proprio in merito a Il Soccombente sono stati messi in luce da Riemer (cfr. W. Riemer, Thomas Bernhard's Der Untergeher: Newtonian Realities and Deterministic Chaos, in A Companion to the Works of Thomas Bernhard, Camden House, NED Editions, 2002).
[14]. É chiaro che, ai fini del nostro discorso, qui opereremo una forzatura semantica sul termine /Entstellung/ dettata prevalentemente dalla riflessione che ai significati molteplici del lemma freudiano dedica Lyotard in alcuni passaggi cruciali di Discours, Figure (cfr. J-F Lyotard, Discours, Figure, Klincksieck, Paris 1971, pp. 297-341). Se infatti il lemma tedesco corrisponde senza sbavature a /deformazione/ ed in maniera traslata a /dislocazione/, di certo la terza accezione presenta dei problemi di interpretazione. /Deposizione/ qui va precisamente inteso nel senso di spostamento incongruo e destabilizzante di determinati elementi o fattori, che si trovano improvvisamente a scompaginare i territori di innesto in cui vengono immessi. In tal senso allora lo spostamento fisico di Wertheimer verso la casa della sorella al fine di suicidarsi può essere intesa come una forma aberrante di deposizione in vita.
[15]. G. Macchia, Pirandello o la stanza della tortura, Mondadori, Milano 1981.
[16]. S, p. 47.
[17]. A tal proposito rimandiamo a C. Niekerk, Der Umgang mit dem Untergang: Projektion als erzählerisches Prinzip in Thomas Bernhard's Untergeher, in Monatshefte, vol. larica 85, n. 4 (1993), pp. 464-477.
[18]. Ivi, p. 32. Anche Il Soccombente può quindi essere concepito secondo i termini di quella Inszenierung eines Ichzerfall che Mittermayer decripta nel romanzo Frost (cfr. M. Mittermayer, Strauch im Winter. Thomas Bernhard Frost als Inszenierung eines Ichzerfall, in Modern Austrian Literature, vol. 21, n. 3/4, special Thomas Berhanrd issue,1988, pp. 1-18.
[19]. G. Poulet, Études sur le temps humain III. Le point de départ, Plon, Paris 1964, p. 36.
[20]. M. Blanchot, Le pas au-delà, Gallimard, Paris 1973, p. 74. [21]. S, p. 145. Corsivi dello stesso Bernhard.
[22]. Secondo quel «déplacement sans place qui le [il narratore] destitue de tout lieu grammatical» di cui parla Blanchot in un passaggio de Le pas au-delà (cfr. M. Blanchot, op. cit., p. 52). [23]. Ivi, p. 53.
[24]. N. Huston, Thomas Bernhard: Asphyxiation, in Salmagundi, n. 57 (2008), pp. 11-32.

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