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Am Anfang war das Bild..
Didi-Huberman lettore di Warburg [*]
[SECONDA PARTE]
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di Giuseppe Crivella

21 novembre 2019


3. Stratigrafie acroniche di etimi figurali.

Ma, innanzitutto, perché parlare di un’etimologia delle immagini? Perché, a differenza dell’antropologia — troppo compromessa con i tempi, che abbiamo visto essere intrecciati in una selva di rimandi sostanzialmente inestricabile — e della genealogia — troppo legata a stabilire relazioni di familiarità diretta tra elementi che molto spesso violano la linea genetica di derivazione — l’etimologia si regge su un lavoro di progressiva (ma, dovremmo dire, anche regressiva) riduzione, spoliazione, della forma finalizzato a individuare una radice minima comune a varie manifestazioni disperse nel tempo.
L’etimo figurale perviene così ad isolare una formula unitaria e riconoscibile di tratti e caratteri grafico-plastici che torna in varie occorrenze, secondo diverse declinazioni e versioni, mantenendo tuttavia una fisionomia strutturale stabile, seppur calata sempre in contesti e Stimmungen culturali (antropologiche) molti difformi. L’etimologia dell’immagine così configurata permette ad esempio di pensare l’affinità tra i panneggi di due figure associate da una ritornanza e risonanza figurali che fanno lavorare la memoria delle forme come una contro-storia in cui differenza e ripetizione si trovano legate da una proteiforme complicità, così che
l’etimologia delle forme immaginata da Aby Warburg e meticolosamente messa in opera come una sintomatologia delle somiglianze […] si [accompagna] a un pensiero dialettico del sintomo: contrattempo sorto dalla materia stessa delle ripetizioni, oblio emerso dalla materia stessa delle memorie coscienti, differenze uscite dalla materia stessa, la sopravvivente materia delle somiglianze [1].
Si tratta di una Schwingung, di un movimento oscillatorio, a cui è sottoposto il pensiero costretto a muoversi nello spazio di una distanza storica colmata unicamente da fasci di ritornanze e sopravvenienze che creano un ambito plastico di compenetrazioni reciproche e di particolari (e parziali) sovrapponibilità figurative. Mischbildung e rätselhafter Organismus diventano i termini chiave per capire la pragmatica del Dynamogramm, di questa scrittura di forze, di questi tracciati di movimentate energie nel cui configurarsi si deposita come un radice profonda ma dilaniata, una sorta di rizoma plastico, che tende a produrre nel tempo oggetti e forme affini tra di loro, ma che tende anche a riprodursi riaffiorando in un arco storico discontinuo come un engramma di nodose ricorsività contenute e continuamente elaborate in quell’unbewusstes […] Archiv des Gedächtnisses [2] la cui strenua esplorazione e tematizzazione porterà Warburg a parlare, a proposito dell’arte Rinascimentale, di heterogene Herkunft [3] (origine, provenienza eterogenea), designando con questa espressione proprio quel diastema [4] di contrazioni anomale che hanno luogo nel flusso del tempo come fantasmali vortici dialettici i quali ciclicamente si rapprendono in una ricca arborescenza di morfogenesi parallele e discontinue.

All’interno di questa vastissima problematica il Nachleben trova forse la sua definizione più chiara, grazie anche ad un ulteriore concetto che Warburg mette a punto nell’arco di circa vent’anni, quello di Pathosformeln, indicante una nozione per lo più di carattere operativo, ovvero continuamente riconfigurata a seconda delle verifiche e dei riscontri analitici che essa di volta in volta otteneva nel momento in cui, dopo una prima teorizzazione, veniva nuovamente rimessa in pratica per testarne la pregnanza effettiva.
Ma che cos’è una formula di pathos? Potremmo iniziare definendola quale perplessa (pro)pulsione plastica nel cui raffreddato turbinio di moti e gesti, inflessioni e panneggiamenti è possibile riscontrare un’intensificazione figurale, una sorta di sovraccarico mimico, finalizzate ad esprimere una forza vitale trattenuta nell’immagine archeologicamente ed etimologicamente bifronte. Ovvero rappresentante una figura nel cui atteggiamento, nel cui trattamento dei volumi e dei profili vengono ad emersione l’eco e la rimembranza plastiche di altre figure apparentemente del tutto aliene rispetto a quella di partenza.
Leggendo La rinascita del paganesimo antico scopriamo che già nel saggio del 1905, dedicato a Dürer e l’antichità italiana, incontriamo la fortunata formula Pathosformeln:
il tipico linguaggio mimico patetico dell’arte antica, come la Grecia lo aveva elaborato per questa scena tragica, incide qui [in un disegno di Dürer della Morte di Orfeo] determinando direttamente lo stile.
Lo stesso processo si può osservare in un disegno dell’ambiente dei Pollajuoli a Torino […]: un uomo che pone il piede sulla spalla del nemico accasciato a terra e lo afferra pel braccio è evidentemente modellato sulla Agave che nel sarcofago di Pisa dilania in dionisiaca follia il proprio figlio, Penteo. Anche altre opere d’arte, del tutto differenti, raffiguranti la morte di Orfeo, mostrano quasi del tutto concordi con quanta forza vitale questa medesima formula patetica, archeologicamente fedele, ispirata a una raffigurazione di Orfeo e Penteo, si fosse naturalizzata negli ambienti artistici […].
Qui risuona accanto all’immagine la voce genuinamente antica, familiare al Rinascimento: che la morte di Orfeo non fosse solamente un tema di atelier d’interesse puramente formale, ma un’esperienza vissuta appassionatamente con piena intuizione del dramma misterioso della leggenda dionisiaca, rivissuta realmente nello spirito e secondo le parole dell’antichità pagana [5].
Ma perché parlare proprio di pathos? In effetti il perché del termine pathos è contenuto già nelle nostre precedenti analisi dedicate al Dynamogramm: l’immagine warburghiana risponde ad un doppio regime, è attraversata cioè da quella pathetische Strömung che la innerva, simile ad un’energia dialettica derivante da cumuli e lacerti figurali ancora attivi e palpitanti al di sotto e all’interno della rappresentazione più recente:
l’estetica warburghiana del dinamogramma ha quindi trovato, nel gesto patetico «all’antica», un luogo per eccellenza — un topos formale, ma anche un vettore fenomenologico di intensità — per quell’«energia di confronto» che faceva di tutta la storia dell’arte, agli occhi di Warburg, una vera e propria psicomachia, una sintomatologia culturale. La Pathosformel sarebbe quindi un tratto significante, un tracciato in atto delle immagini antropomorfiche dell’Occidente antico e moderno: ciò per cui, attraverso cui, l’immagine batte, si muove, si dibatte nella polarità delle forme.
Questo dibattersi [...] costante della Pathosformel rivela una sorta di scommessa filosofica lanciata da Warburg già nel dare avvio alla sua ««scienza senza nome»», una scommessa che consisteva innanzitutto nel pensare l’immagine senza schematizzarla […]. Così la Pathosformel si costituirà come una nozione agitata, appassionata, proprio per ciò di cui trattava oggettivamente: dal principio alla fine essa si è dibattuta nel nodo rettiliano delle immagini, impegnando una battaglia senza tregua con la complessità formicolante delle cose dello spazio e con la complessità intervallare delle cose del tempo [6].
Nasce col pathos e dal pathos un’iconologia di tempi verticali, una trans-iconologia vertiginosa, vorticosa e viscerale, la quale diviene ben presto la densa scenografia di una coreografia conflittuale e magmatica di varie forze formatrici, viventi ed esuberanti, trans-storiche e in costante contrattempo rispetto al contesto plastico in cui vengono a trascriversi.
L’immagine rivela così di contenere al proprio interno un’esplosiva energia di trasformazione ed evocazione tentacolare e frastornante, la quale non smette di travagliarla instillandovi pulsionali sommovimenti fossili in forza dei quali l’antico ogni volta da capo riafferma la propria insopprimibile — e anche incontenibile — attualità.

In tal senso le Pathosformeln sono il vettore prioritario tramite cui operare per mettere in pratica quella iconologia critica che riesce a scavare l’immagine originale greca [7] al di sotto di ingenti stratificazioni grafico-formali, le quali ne hanno in qualche modo attenuato e smussato il vigore plastico-patetico; o ancora, suddetta iconologia critica sa individuare ad esempio in una rappresentazione rinascimentale quel punto di irruzione [8] in cui le energie mimiche proprie della stilbildende Macht [9] pagana deflagrano in modo esplicito. Ma soprattutto con il metodo delle Pathosformeln diviene possibile pervenire ad una ««psicologia storica dell’espressione umana»» che invero non è ancora scritta ma che si sostanzia in
un’analisi iconologica la quale non si [lascia] intimorire da un esagerato rispetto dei confini, e [considera] antichità, Medioevo e evo moderno come un’epoca connessa, altresì [è in grado di interrogare] le opere d’arte autonoma e dell’arte applicata in quanto sono entrambe e a pari diritto documenti dell’espressione, [mostrando in tal modo] che questo metodo, cercando di illuminare con cura una singola oscurità, illumina i grandi momenti dello sviluppo generale nella loro connessione [10].
Lo stesso Warburg inoltre, sempre parlando delle Pathosformeln, accenna ad una archeologia della figura [11]: ritorna quindi ancora una volta il binomio, già visto poso sopra, che raccorda a coordina in un unico plesso epistemico saldo ma duttile scavo archeologico e affioramento di energie psichiche e mnestiche venute a forzare i limiti e l’impianto formale di una figura.
Il Nachleben dunque, proprio per la sua natura arditamente anacronica e soprattutto per il suo radicamento cronologico disseminativo e schizoide, istituisce puntiformi e reticolari reazioni e relazioni di interscambio tra attualità e primitività, trasformando l’immagine nel risultato di un ampio montaggio temporale e pulsionale di tensioni plastiche, scariche patetiche, sovradeterminazioni figurali. In esse ogni elemento, ogni dettaglio è attratto e in parte modificato da questo denso scorrere di forze e dal conseguente ridistribuirsi delle stesse sotto forma di morfologie ancipiti presso le quali, come fa notare ancora Agamben nel saggio già citato, un rapporto inedito tra forma e contenuto è istituito in modo tale che una distinzione netta e precisa tra di essi diventa assolutamente improponibile: carica emotiva e formula iconografica permettono così di uscire dai dualismi classici (forme/contenuto, storia degli stili/ storia della cultura) intrecciandosi in una agitata configurazione in seno alla quale esse non risultano mai sintetizzabili in pieno ma neppure mai districabili in toto.

Questa nuova impasse analitica porta però Warburg a compiere un altro passo avanti verso la definizione della propria innovativa pratica euristica: egli arriva cioè a individuare delle Ausdrucksprägungen, delle impronte espressive nella cui fisionomia engrammi di energie trasformate si depositano e si condensano quale Erinnerungsbild, immagine-memoria. Ma tali sopravvivenze energetiche subiscono un lavoro di spostamento — Verschiebung, termine ricco di più che pertinenti risonanze freudiane — e, in particolare, la loro carica patetica viene ad investire e a “impregnare” il cosiddetto äusserliche Beiwerk, l’accessorio esterno che si fa bewegtes, cioè animato, messo in moto, di cui Warburg ad esempio parla diffusamente nel già citato saggio su Dürer e l’antichità italiana [12] ma anche in quello su Le ultime volontà di Francesco Sassetti [13], uno dei più significativi e dei più articolati.
L’individuazione di tale insolita legge figurale permette a Warburg di cogliere, all’interno di un’immagine di apollinea compostezza, le tracce di un’energia inconscia che anima e percorre trasversalmente la superficie della rappresentazione arrestandosi e dinamizzando in modo soffusamente sproporzionato e scomposto elementi solitamente privi d’ogni agitazione, relativamente marginali, come panneggi, vesti, capelli.
il riconoscimento da parte di Warburg dello spostamento espressivo — quello che egli chiamerà nel 1914 uno «spostamento d’accento nel linguaggio fisico dei gesti» — sposta in effetti tutto il sapere sull’espressione e i movimenti corporei rappresentati nelle arti visive. Perché non è una cosa che si sposta ma la capacità stessa a muoversi. Cominciamo così a capire in cosa le forme corporee del tempo sopravvivente avvengano, non soltanto in contrattempi ma in contromovimenti: in contro-effettuazioni, in movimenti-sintomi. È spesso attraverso un movimento spostato — in tutti i sensi del termine — che si ottiene l’intensità: essa sorge di sorpresa, là dove non ci sa l’aspetta, nel parergon del corpo (abiti, capelli) o nella rappresentazione stessa […].
Nessun altro, oltre a Warburg, prima o dopo di lui ha capito con tanta profondità l’efficacia sintomatica attraverso la quale uno spostamento produce intensità. Di tutti i suoi contemporanei, solo Freud […] ha saputo produrre analisi del genere nel capo delle formazioni dell’inconscio […]. Ed è come dire, già, che Warburg giungeva con questo a toccare il funzionamento stesso dell’«inconscio delle forme» [14].
Quella di Warburg funziona come una sorprendente Ikonologie des Zwischenraumes, degli intervalli, una sorta di inedita trans-iconologia, un’iconologia di transizioni oblique e rovesciate, incrociate e intermittenti, devianti e complesse, intricate e spaesanti nel loro ostinato impulso a trasgredire ogni schema iconografico precostituito al fine di svilupparvi all’interno una regione intensiva di correlazioni serrate, antitetiche e magmatiche in quanto solcate da un fitto intessersi di faglie sismiche.

Nachleben, Dynamogramm, Pathosformeln rappresentano i connotati specifici di tale iconologia critica, di questa scienza senza nome che Warburg per decenni ha cercato di mettere a punto al dettaglio riuscendo però nell’intento opposto, ampliando cioè e spostando sempre i confini disciplinari, tematici ed epistemici del suo campo di studi fino a trasformarlo in una zona altamente reattiva di intersezioni euristiche plurali ed eterogenee. Tuttavia, nonostante la cangiante fisionomia epistemica che l’iconologia warburghiana ha assunto di volta in volta, crediamo, con Didi-Huberman, che sia possibile intercettare con buona approssimazione i tre paradigmi portanti di tutta la sua riflessione, ovvero quello linguistico, quello coreografico, quello sintomale; vediamoli da vicino:
1) Linguistico. Partiamo da un riscontro puramente grammaticale: quando Warburg si trova nella necessità di spiegare il modo in cui avviene lo spostamento e l’intensificazione delle energie plastiche si serve del lemma /gesteigert/ che in tedesco indica sia un effettivo incremento di intensità sia il grado comparativo dell’aggettivo; l’analogia linguistico-grammaticale è presente in modo marcato e calzante nei manoscritti di Warburg e per tutta la sua carriera di studioso egli continuerà a parlare di livelli di intensificazione definiti sempre in termini di comparativ e superlativ. Non è un caso allora che a proposito della Morte di Orfeo di Mantegna e Dürer egli si esprimerà in termini di antichissimi Superlative der Gebärdensprechen [15], indicando con questa formula non sono il semplice processo del gesteigert, ma anche e soprattutto il fatto che tale potenziamento superlativo avviene attraverso un cambiamento di radice che reca con sé come effetto uno slittamento semantico. Warburg trovava questo modello negli scritti di Osthoff:
l’ingresso di un’espressione con una radice diversa [produce] un’intensificazione del significato originario della parola la cui radice era stata cambiata [16]. Si può constatare un processo analogo nell’ambito del linguaggio gestuale che dà forma all’arte, ad esempio quando la Salomè danzante della Bibbia appare come una Menade greca, o quando una serva che porta una cesta di frutta […] accorre nello stile di una Vittoria [17].
Nell’immagine intensificata dunque, nel particolare sottoposto ad intensificazione s’intrude un elemento estraneo, un dato aberrante che trasfigura e sommuove tutto il contesto in cui si colloca, alterandolo e provocando in esso collimazioni anacroniche e collisioni pluritemporali. È forse proprio nel paradigma linguistico che il Nachleben trova la sua piena legittimazione e definizione: in esso infatti sembrano operare etimi figurali affini a quelli portati alla luce da Freud nelle cosiddette Urworte, parole primordiali cariche di un certo bifrontismo semantico perché depositarie di inscindibili significati opposti (Gegensinne). Ebbene lo stesso Warburg, in un appunto del ‘28 dedicato al progetto di Mnemosyne, parla di UrworteUrworte leidenschaftlicher gebärdensprachlicher [Dynamik], parole primordiali della lingua gestuale delle passioni [18] — intese come materiali plasticamente votati allo spostamento incessante, ai rovesciamenti antitetici.
Ma non dobbiamo pensare che ciò che è primordiale qui sia paragonabile ad una fonte pura, ad una sorgente assolutamente cristallina di possibilità future, Ciò che è primordiale in Warburg non smette di sprofondare su se stesso, affonda sempre in un’origine spuria di contaminazioni aurorali, di trasformazioni già in atto, embrionali e indefinite. Il paradigma linguistico appena tratteggiato contiene già in sé quella radicata ambiguità di virtualità plastico-patetiche che abbiamo visto connotare tutta la riflessione warburghiana. L’etimo figurale possiede inscritti in sé, nel suo corredo genetico, una matrice di attuazioni ambivalenti e reciprocamente repulsive, in una sorta di grammatica generativo-trasformazionale delle immagini le cui occorrenze discendono da un nucleo germinativo solo sulla base di una logica strenuamente e polifonicamente opposizionale.

2) Coreografico. Corpo e movimento, requie e spasmo, slancio e contrazione, ferina liberazione delle forze e misurata distillazione delle energie: tutto questo nel paradigma coreografico si trova condensato nella danza e in particolare in quella personificazione trasversale e mitica della danza che è la Ninfa, figura capace di racchiudere in sé un numero impressionante di reincarnazioni — l’Ora e la Grazia, la fanciulla che accoglie Venere sulla sponda, Zefiro e Cloride, le serve del Ghirlandaio nel ciclo di Santa Maria Novella — nonché il simbolo di quei transitorischen Bewegungen in Haar und Gewand che la pittura rinascimentale ha, a detta di Warburg, fissato (festzuhalten) come l’indizio spostato del pathos delle immagini.
Il Dynamogramm della ninfa assimila in sé — senza operare però una vera e propria sintesi plastico-formale — un vasto spettro di Pathosformeln costituendo quindi una sorta di Urgestalt, i cui abiti e il cui corpo funzionano da spazi interstiziali ove far transitare occorrenze ora pulsionali e primordiali, ora attuali e distesamente pacate di un vocabolario gestuale dalla sfaccettata polisemìa. Un’euritmìa di contorsioni e simmetrie, sbilanciamenti e calibrature scandiscono e scompensano alternativamente la complessa coreografia della ninfa, il cui etimo figurale risponde ad una geometria organica che, nell’oscillazione più ampia del paradigma in questione, riesce a intrecciare nello stesso movimento la più scomposta estasi bacchica e la più intensa espressione di disperazione cristiana:
Ninfa è quindi l’eroina dell’incontro mobile-commovente: una «causa esterna» suscita qualche «movimento effimero» ai margini del corpo, ma un movimento tanto organicamente sovrano, tanto necessario e fatale quanto è transitorio [...].
Aerea ma essenzialmente incarnata, inafferrabile ma essenzialmente tattile. È questo il bel paradosso di Ninfa [...]: nella parte del corpo che riceve il soffio, la stoffa [dell’abito] è premuta contro la pelle, e da questo contatto sorge qualcosa di simile al modellato del corpo nudo. Dalla parte opposta, la stoffa si agita e si dispiega liberamente, quasi astrattamente nell’aria. È la magia del drappeggio [che unisce] queste due modalità antitetiche del figurabile: l’aria e le carne, il tessuto volatile e la tessitura organica. Da un lato, il drappeggio si libra, creando le proprie morfologie in volute; dall’altro, esso rivela l’intimità stessa […] della massa corporea. Non si potrebbe dire che ogni coreografia si colloca tra questi due estremi? [19].
Se il paradigma linguistico ci parlava di una coesistenza radicata e inestricabile di sensi contrastanti all’interno del proprio etimo, quello coreografico ci mostra come questo stesso etimo sia un turbinoso catalizzatore di poliritmìe plastico-patetiche capaci di coniugarsi in contesti profondamente difformi l’uno dall’altro in forza di una Schwingung figurale ad altissimo tasso di triebhafte Selbstentäusserung [20], in cui tutto vacilla, tutto sembra tremare e scomporsi per un contrattile rispecchiamento di paradossali equipollenze grafiche ove forma e forza senza sosta trascolorano l’una nell’altra.

3) Sintomale. Sovradeterminazione, condensazione, spostamento, ritorno di forme inconsce, rimemorazione sono tutti termini desunti dal lessico feudiano/psicoanalitico che più volte abbiamo utilizzato. Tale prestito non deve assolutamente sorprendere dal momento che lo stesso Warburg era più che consapevole delle poderose implicazioni psicologiche presenti nella sua riflessione: non è lui, ad esempio, che parla di energia psicologica [21] nel saggio Aeronave e sommergibile del 1913, mentre in altri luoghi della sua opera evoca una sorta di psicologia storica delle immagini?
Ma c’è soprattutto un termine che Warburg utilizza spesso e che Didi-Huberman elegge a spia esegetica dal quale muovere per tentare una penetrazione critica soddisfacente a questa iconologia dell’intervallo, si tratta del sintomo. Ma perché assegnargli tale rilevanza? Semplicemente perché esso è già presente ne La rinascita del paganesimo antico. Basti dire che solo nei saggi centrali dell’opera — Scambi di civiltà artistica tra nord e sud nel secolo XV (1905), Delle ««Imprese amorose»» nelle incisioni fiorentine (1905), Dürer e l’Italia (1905) e Le ultime volontà di Francesco Sassetti (1907) — costituenti il nocciolo duro di tutto il testo, /sintomo/ ritorna per ben sei volte sempre correlato a qualche nozione cruciale come quella degli accessori in movimento e della memoria delle immagini. Il sintomo qui designa esattamente quel mobilissimo groviglio di immagini avvolte nella polivalente dimensione plastica analizzata finora. Esso pertanto è davvero un termine-chiave nel quale si addensano le intricate dinamiche d’oscillazioni e contrattempi, reminiscenze e crisi, colte in un tenace intrico mai risolutivo, mai sintetizzabile o sistematizzabile.
Nel sintomo warburghiano s’agita tutto quello sfuggente complesso di eventi che, nel momento stesso del suo prodursi, sovverte e perverte immediatamente e irreversibilmente la portata semantica di tutte le istanze semiotiche registrate prima del suo verificarsi. Esso è quindi una specie di Grundbegriff che fonda e giustifica tale iconologia intervallare e schizoide costituendone il vettore d’ambivalenze formali, le quali, simili a contrattili reliquie, scivolano sul fondo delle immagini come riflessi transitori d’una memoria convulsa e frammentaria.
Il sintomo gioca il ruolo di elemento paradossalmente coordinante: è nella sua unheimliche Doppelheit [22] che Nachleben, Dynamogramm e Pathosformeln trovano la loro esatta collocazione e giustificazione teorica e metodologica. Ma che cos’è un sintomo? Innanzitutto è un dispositivo inconscio la cui immensa forza d’attrazione e trasvalutazione riesce a coniugare in una dialettica acronica e disarticolante imminenza-intermittenza-sopravvivenza: l’immagine è davanti a noi nella sua pienezza e nella sua presenza iconografica, ma l’occhio di quello che potremmo chiamare l’archeologo della figura vi scorge faglie e discontinuità profonde; quella pienezza diventa un piano di intermittenze palpebranti in cui affiorano brandelli di spazi psichici altri, ferite e salti temporali, scorci figurali la cui ascendenza è difforme e incongrua rispetto a quella di altri elementi della rappresentazione.

Il sintomo lavora l’immagine mediante tale sospensione disgregante: essa è presa nella oscura morsa di una reminiscenza immemoriale in cui dissimulation e dissimilation [23] si intrecciano in una irradiazione di costruzioni formali di superficie che si rivelano essere constrictions nodales [24] profonde. Letto in questo senso il sintomo è come un teatro d’aporie montanti e diffusive, le quali sganciano la rappresentazione da qualsiasi nozione acquisita di temporalità:
je ne puis dire que les images ont une temporalité, ce serait une formulation, comment dire? timorée, superstitieuse même, bien faible à l’égard de ce qui nous est atteinte dans les images. Les images n’«ont» pas de temporalité, ni comme avoir, ni comme prédication. Elles sont des durées, des durées et des temps sublogiques de regards des modulations. Des rythmes de rétentions (passés qui ne son t pas encore ou pas vraiment passés) et de protensions (advenirs qui ne sont déjà plus à venir), des battements, comme cils et paupières, d’ouvertures-fermetures; des durées d’Augenblick, de clins, de coups d’œil; des durées d’«œilstants», comme écrit Joyce [25]
Il sintomo è lo scarto di ciò che è latente rispetto alla presenza, il ritorno laterale d’un rimosso che folgora l’immagine con l’insonne contorsione d’un détour de dissemblances nelle cui molli spire una labile risacca d’amnesie locali non smette di delirare. Ma nulla spiega meglio il funzionamento del sintomo warburghiano di un esempio che lo stesso autore de La rinascita del paganesimo antico offre quale emblema di quella simultaneità contraddittoria di moti che s’affrontano nello stesso corpo di una stessa immagine.


4. Conclusioni.

Torniamo per un attimo alla Ninfa [FIG I], simbolo coreografico per eccellenza e prendiamo in esame la Maddalena di Bertoldo di Giovanni [FIG. II] in cui Warburg ha visto conservarsi, seppur con segno mutato, la fisionomia della Menade colta da delirio bacchico: qui l’antichità pagana sembra essere tramontata, non c’è estasi dionisiaca ma disperazione per la crocifissione del Cristo, tuttavia in quella Maddalena il Dynamogramm che raccorda accessori in movimento e gesti patetici coordina due polarità mescolate: vi è una legge di costituzione duplice tale che il frangente sintomale si estrinseca in una dialettica nodale di sovradeterminazioni che fanno accavallare sincronia (diversi sensi assieme tenuti in tensione) e diacronia (diversi tempi fusi e confusi in una sola raffigurazione) in quella che Freud avrebbe chiamato Verkehrung ins Gegenteil, [inversione nel contrario] e che Didi-Huberman così chiosa:
nella Maddalena scolpita da Bertoldo di Giovanni […] la Menade antica sopravvive tanto bene solo perché lutto e desiderio sono mantenuti nel loro conflitto, tesi ma intricati in un equivoco abilmente scelto: quello che rende possibile il compromesso tra la danzatrice pagana in trance e la santa cristiana in lacrime. Freud scrive che il sintomo è un’ambiguità scelta con arte avente due significati che si contraddicono completamente l’un l’altro [...].
Il sintomo gioca quindi con l’antitesi: crea situazioni incomprensibili perché sa conferire un’intensità plastica — cioè un’evidenza fenomenica offerta in un blocco unico all’osservatore […] — ai giochi più complessi della simultaneità contraddittoria. Qui coesistono e si affrontano conflitti e compromessi, formazioni reattive, formazioni sostitutive. Qui coesistono e si scambiano i ruoli rappresentazioni rimosse e rappresentazioni rimuoventi [26].

   


Cos’altro è allora il sintomo se non quel con-cadere, quel verificarsi insieme di possibilità difformi e contrastanti che s’innervano in una medesima espressione dilaniandola e compattandola al tempo stesso, rendendola ambigua e dissonante nella riserva di significati veicolati ma assolutamente unitaria e ben strutturata nella morfologia sotto cui si presenta? In fin dei conti anche le immagini soffrono di reminiscenze.

Alla luce di quanto appena detto non possiamo non riservare le battute conclusive di questo testo al progetto del Bilderatlas Mnemosyne, il quale esplicita su grande scala e in modo emblematico quali fossero gli intenti epistemici di Warburg e nel quale tutti i fattori finora passati in rassegna si trovano messi in contatto al fine di tratteggiare l’iconologia critica fin nei suoi più minuti dettagli. Si tratta di un atlante rizomatico e proliferante su se stesso, la cui logica di sviluppo lo porta a procedere per esplosioni e sovrapposizioni, sdoppiamenti e variazioni; un atlante acefalo, acausale, calato nel continuum di una morfogenesi figurale illimitata e orfana d’ogni immagine-matrice.
Mnemosyne è però innanzitutto un’opera ipotetica la cui ossatura sembra maturare, flessibile e plastica, in sottotraccia alla lussureggiante moltiplicazione di immagini che non smettono di (ri)prodursi, accumularsi, richiamarsi e scontrarsi all’interno di un quadro ora combinatorio, ora seriale, ora chiuso in una dispersa circolarità ora aperto in un reiterarsi di smontaggi figurali.
Al tempo stesso Mnemosyne è un prodigioso esercizio al pensiero deterritorializzante e deterritorializzato: in essa le coordinate spazio-temporali saltano definitivamente; le immagini a volte si affiancano, si coagulano, in una libera concertazione di motivi e temi; altre volte un dettaglio ingrandito e sproporzionato entra in attrito a distanza con una veduta aerea in cui non si riesce a distinguere nulla di preciso; una figura in movimento trova rimandi e consonanze nel chiaro contorno di una natura morta: livelli contraddittori di realtà sembrano attrarsi per contorte e fuorvianti collimazioni.
Il Bilderatlas è una sorta di asintattica sinossi dell’immaginario universale fattosi figura, rappresentazione; esso è un maestoso e barocco ambiente visivo dispiegato tramite le disiecta membra di un immenso corpo d’immagini improvvisamente deflagrato in una pluralità di costellazioni temporanee e movimentate, la cui articolazione interna è sempre soggetta a nuove e inedite permutazioni, integrazioni, ricomposizioni in seno alle quali gli elementi nucleari da cui muovere subentrano di continuo gli uni agli altri, una sorta di palinsesto fattosi rapsodia.

Non vi è fissità dunque, lo sguardo è esposto alla vertigine infranta di un’esibizione il cui programma non prevede chiusure o limiti; aperto, inconcluso, dagli orizzonti indeterminati, il Bilderatlas mima un possente esploso della memoria soggetto ad una analisi interminabile di immagini, il cui inesausto affastellamento non può che condurre a ciò che Didi-Huberman chiama lo spossessamento del pensiero [27], sorta di teatro mnemotecnico [28] ove il salto diventa l’unico metodo ortodosso: salto da un pensiero all’altro, da un tempo all’altro, da uno spazio all’altro, da un’immagine all’altra, secondo quella grammatica maniacale che potremmo designare col termine greco di e ϵγκλισιϛ, indicante sia la regolare e flessione dei termini sia la loro drastica slogatura flessiva che forza il paradigma a causa di quella Spannung zwischen Formschöpfung und Formzerstörung ben nota a Warburg.
In imaginibus — potremmo chiosare a questo punto — datur saltus et hiatus: Mnemosyne infatti ostenta una propensione instancabile al legame dissociante, al montaggio dissolutivo, al viluppo dispiegante, all’espansione aggregativa di quel Denkraum doppeltendendziös nervosamente attraversato dalla Bilderwanderung. Erratico, intervallare, fluido, inarginabile, il Bilderatlas è un diagramma topologico di disorientamenti ed espropriazioni, ma soprattutto è un perfetto congegno che, a livello macroscopico e con una gittata mostruosamente trans-temporale, esemplifica in modo impeccabile il funzionamento specifico e naturale dei suoi componenti, cioè delle immagini stesse.
Esso rappresenta una sorta di prodigioso ingrandimento di ciò che avviene nelle immagini e tra le immagini: ritorni e scoppi sintomali, accensioni repentine di movimenti sepolti, collassi di tempi fossili e squarci d’interferenze ucroniche, venendosi a prospettare così sempre meglio e sempre di più come un’immane cattedrale la cui trasparente e sospesa architettura è strutturata unicamente dal complesso incastro dei corpi accessori e laterali, deputati al passaggio repentino, traumatico e inopinato non solo da un ambiente a un altro, ma da una faglia temporale ad un’altra:
attribuzione del movimento: per attribuire movimento a una figura che non si muove è necessario ridestare una serie di immagini che si legano le une alle altre — non un’immagine isolata [kein einzelnes Bild]: perdita della contemplazione calma [29].


NOTE
[*] Questo scritto è il frutto della rielaborazione del testo di una conferenza tenuta dall’autore presso il CESI di Bucarest in occasione di un convegno internazionale organizzato in collaborazione con gli Atenei di Parigi e Ginevra, 11-12 dicembre 2016 Nouveaux régimes de la figure, sous la direction de L. Marin et A. Diaconu.

[1]. G. Didi-Huberman, L’immagine insepolta. Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la storia dell’arte, ed. it. a cura di A. Serra, Bollati Boringhieri, Torino, 2006, p. 164. Da ora sempre abbreviato con II seguito dal numero di pagina. Sulla stratigrafia cfr. A. Warburg, Per monstra ad sphaeram, a cura di D. Stimilli e C. Wedepohl, Abscondita, Milano 2014, p. 65. Sulla sintomatologia ivi, pp. 89-93.
[2]. II, p. 176.
[3]. Ivi, p. 177.
[4]. In relazione al concetto di diastema cfr. Michel Serres, La distribution. Hermès IV, Paris, éd. de Minuit, 1977, p. 49. [5]. A. Warburg, La rinascita del paganesimo antico. Contributi alla storia della cultura , saggi raccolti da G. Bing, La Nuova Italia, Firenze, 1980, p. 196.
[6]. II, p. 185. Inoltre cfr. A. Warburg, Per monstra ad sphaeram..., pp. 25-26
[7]. A. Warburg, La rinascita..., p. 256.
[8]. Ivi, p. 242.
[9]. Ivi, p. 305.
[10]. Ivi, p. 268.
[11]. Ivi, p. 300.
[12]. Ivi, p. 299.
[13]. Ivi, p. 235.
[14]. II, p. 229. Inoltre cfr. A. Warburg, Per monstra ad sphaeram, a cura di D. Stimilli e C. Wedepohl, Abscondita, Milano 2014, p. 103, in cui Warburg parla di Ausdruckswertprägung coniazione di valori espressivi.
[15]. A. Warburg, La rinascita..., p. 233.
[16]. Qui Warburg pensa soprattutto a casi come /bonus/, /optimus/ e /melior/, che cambiano radice ad ogni grado.
[17]. II, p. 233.
[18]. Ivi, p. 235.
[19]. Ivi, p. 239.
[20]. Potremmo rendere, in modo molto impreciso, questa espressione con autoalienazione pulsionale.
[21]. A. Warburg, La rinascita..., p. 281.
[22]. II, p. 265.
[23]. G. Didi-Huberman, Invention de l’hystérie. Charcot et l’ichonographie photographique de la Salpêtrière, Paris, Macula, 1982, p. 99.
[24]. Ibid.
[25]. Ivi, p. 106.
[26]. II, p. 277.
[27]. Ivi, p. 426.
[28]. G. Agamben, La potenza del pensiero, ed. Neri Pozza, Vicenza, 2005, p. 136.
[29]. Annotazione di Warburg datata 29 settembre 1890. Cfr. II, p. 445.




Warburg in Messico 1896
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