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Filosofie della Carne e del Corpo
Da Merleau-Ponty a Deleuze

di Silvia Cegalin

15 aprile 2018


E se avesse ragione Euripide là dove dice:
«Chi può sapere se vivere non sia morire e il morire non sia vivere?
Forse la nostra vita è in realtà una morte.
Del resto ho già sentito dire, anche da uomini sapienti
che noi ora siamo morti
e che il corpo è per noi una tomba». [1]


Una tomba... sono queste le parole che Platone usa nel Gorgia per descrivere il corpo espresso nella sua fisicità. Nella filosofia platonica il corpo coincide con la materialità ingannevole che conduce l’uomo all’errore: “carne senza vita” che per liberarsi dalla limitatezza necessita della psyché, l’unica via per poter raggiungere un livello superiore e potersi avvicinare alla verità. Platone, inoltre, per sottolineare maggiormente la natura castrante del corpo utilizza con un’accezione negativa il termine sôma (cadavere) [2] usato, per esempio, in modo neutrale da Omero che con sôma non si riferisce mai agli esseri viventi [3] e la parola sêma (salma) [4] per evidenziare, ancora di più, il proprio legame con la morte.

Successivamente a Platone, lo snodo fondamentale sul tema del corpo sarà compiuto da Cartesio, che attraverso il suo pensiero “lacerante” distinguerà tra “res cogitans” e “res estensa”, infliggendo al corpo lo statuto di mera estensione e movimento, sottraendolo definitivamente alle funzioni dell’anima. Questa tendenza dualistica continuerà anche successivamente nella tradizione spiritualistica francese che vede in Malebranche l’esponente dell’Occasionalismo più vicino a Cartesio, perché anch’egli rifiuta la concezione aristotelica dell’anima come forma appartenente al corpo, asserendo che tra queste due entità non vi è alcun rapporto e che la forza corporea nasce esclusivamente dagli effetti causati da Dio.

Interessante, giunti a questo punto, è constatare come la scia spiritualistica seicentesca, specialmente quella proveniente da Malebranche, de Biran e Bergson, [5] abbia influenzato uno tra gli esponenti maggiori della filosofia francese, che donando al corpo un nuovo senso lo ha espropriato dal mero significato di oggetto di rappresentazione, facendogli assumere il valore rinnovato di corpo/animato e corpo/vissuto, incentrando nella carnalità e nell’essere organico la propria forza. Sto parlando, ovviamente, di Merleau-Ponty.

In uno dei suoi primi saggi, La fenomenologia della percezione, Merleau-Ponty ha attuato un radicale cambiamento nella nozione di corpo, abbandonando l’idea di struttura chiusa e abbracciando il concetto più ampio di corporeità. Cos’è un corpo: se non quel luogo che genera e subisce la percezione? Tra il corpo e lo spazio esterno infatti avviene uno scambio reciproco in quanto entrambi sono produttori di senso e significati che interagiscono e si amalgamo tra loro, rendendosi, contemporaneamente, agenti attivi e passivi nel medesimo processo. Merleau-Ponty non formula tale pensiero in maniera indipendente, alle sue spalle difatti sono rintracciabili gli studi psicologici condotti da Paul Schilder sullo schema corporeo.
«Lo schema corporeo è l’immagine tridimensionale che ciascuno ha di se stesso: possiamo anche definirlo immagine corporea. Questo termine indica che non si tratta semplicemente di una sensazione o di un’immagine mentale: ma che il corpo assume un certo aspetto anche rispetto a se stesso; esso implica inoltre che l’immagine non è semplicemente percezione sebbene ci giunga attraverso i sensi, ma comporta schemi e rappresentazioni mentali, pur non essendo semplicemente una rappresentazione». [6]
Lo schema corporeo è un concetto base della filosofia merleaupontyana perché nega l’idea di corpo in quanto oggetto, asserendo che esso trascende continuamente se stesso, entrando in una relazione partecipe con l’ambiente circostante, orientandosi e conoscendo anticipatamente la propria posizione futura, come muoversi e come instaurare un rapporto interrelazionale tra l’interno (la costruzione delle immagini mentali, delle fantasie e delle percezioni) e l’esterno (il mondo e le cose). Si deduce, quindi, che per Merleau-Ponty lo schema corporeo è associato ad una struttura intrasensoriale, in cui tramite questo gioco di incastri, il corpo attua una vera e propria presa di coscienza, proiettandosi all’esterno e stabilendosi come unica via per accedere nel/il mondo.

Chi sostiene il forte legame tra Schilder e Merleau-Ponty è soprattutto lo studioso francese Emmanuel de Saint Aubert, fondamentale per rileggere con una nuova interpretazione l’intera opera merleaupontyana. [7] Seguendo le analisi di Saint Aubert, ad essere interessanti per un’“alternativa” rilettura della filosofia di Merleau-Ponty, sono specialmente gli scritti inediti ed anteriori alla pubblicazione della Fenomenologia. In essi, infatti, è riscontrabile già una prima riflessione inerente il corpo e il concetto di carne, concetto che ritroveremo in tutto il pensiero merleaupontyano.

La nozione di carne nell’intera opera di Merleau-Ponty assume un significato che, personalmente, mi piace definire “stratificato”, perché nel corso degli anni ha acquisito differenti gradi e definizioni, anche a cospetto del sottofondo culturale presente in quei determinati periodi. Saint Aubert asserisce che, in principio, l’idea di carne era stata strettamente legata a quell’universo fisiologico che si manifesta nella dimensione carnale e sanguigna. Non a caso, etimologicamente carne, in francese chair, designa l’insieme delle forme dell’epidermide, dei muscoli del corpo umano e l’aspetto della pelle. [8]

Questa però, chiarisce Saint Aubert, è soltanto l’anticamera del pensiero filosofico avente come soggetto la chair, perché successivamente essa sarà definita come: «metonimia e metafora del corporeo, dello spirituale, del solitario e del solidale, del desiderio». [9] Ed è proprio chiamando in causa il desiderio che non si può non citare il pensiero sartriano. In l’Essere e il Nulla, Sartre definisce la carne come fulcro del desiderio, in quanto: «Mi faccio carne per affascinare l’altro con la mia nudità e per provocare in lui il desiderio della mia carne, proprio perché questo desiderio non sarà nient’altro, nell’altro, che un’incarnazione simile alla mia. Così il desiderio è un invito al desiderio. Solo la mia carne sa trovare il cammino della carne altrui ed io porto la mia carne contro la sua carne per svegliarlo al senso della carne. Nella carezza, infatti, quando faccio scivolare lentamente la mia mano inerte contro il fianco dell’altro, gli faccio sentire la mia carne, ed è ciò che anch’egli non può fare, se non rendendosi inerte; il brivido di piacere che allora lo attraversa, è proprio il risveglio della sua coscienza di carne”. [10]

Nell’atto amoroso si vuole incarnare l’altro, e il corpo del desiderato, essendo guardato e toccato, diviene espressione della materialità colta al suo livello più elementare: una contingenza pura della presenza [11] a cui il filosofo esistenzialista dà il nome di carne. Sulla medesima linea di pensiero, anche se da una prospettiva diversa, si colloca la filosofia della compagna di Sartre, la scrittrice Simone de Beauvoir. All’interno di Per una morale dell’ambiguità e nel Il secondo sesso, de Beauvoir attraverso una fenomenologia ormai radicata, affronta l’importanza del corpo come strumento per accedere alle esperienze del mondo e, ispirandosi alla teoria dell’incarnazione di Merleau-Ponty, sostiene l’esistenza necessaria dell’altro, soprattutto all’interno della relazione erotica, per sua natura ambigua, [12] in cui i soggetti sono contemporaneamente spirito e carne. L’incontro con l’altro, di conseguenza, diventa fondamentale perché “essendo per il e nel mondo” siamo inesorabilmente attratti dall’altro. Se ne deduce dunque che il corpo diventa l’apertura per conoscere ed affrontare il mondo.

A questo punto è necessario fare una precisazione, perché il concetto di corpo come “essere nel mondo” può richiamare, non troppo alla lontana, la teoria husserliana del Leib, in contrapposizione con quella di Korper. Il Leib infatti secondo Husserl designa il nostro stare al mondo, un corpo dunque che fa esperienza, e che nell’intersoggettività incontra l’altro, [13] mentre il Korper, al contrario, è il corpo colto nella sua dimensione strettamente materiale, anatomica, un corpo d’abitudine da cui non possiamo staccarci e che è destinato ad accompagnarci ovunque. Ora nel vasto panorama filosofico sono presenti due correnti: una continuista tra il pensiero di Husserl e Merleau-Ponty, e un’altra, cui maggiore esponente è Saint Aubert, che dichiara che l’incontro semantico tra chair e Leib non può trovare accordo, in quanto la chair ingloba una dimensione ontologica del sé senza alcuna distinzione tra le parti. [14]

A dispetto di tali argomentazioni risulta, ancora una volta, che è il rapporto con il sensibile l’unico modo per accedere all’esperienza, sottraendo il corpo a strutture e dogmi di carattere psicologico per renderlo sostanza viva colta nel suo abbraccio con l’altra carne: il mondo. La carne, di conseguenza, diviene l’unica possibilità di apertura e di incontro verso l’altro; il tessuto connettivo che unisce mondo e corpo in un legame che si realizza in una stessa trama, conducendo le due “entità” a mutare e ad integrarsi tra loro in una metamorfosi che non avrà fine, e a cui Merleau-Ponty darà il nome di chiasma. [15]

Interessante è constatare come il concetto stesso di chair, trovando come sfondo i dibattiti umanistici degli anni 40, abbia subito un’evoluzione di senso. Merleau-Ponty, infatti, considera la carne per indicare quell’elemento che si pone antecedente alla costituzione dell’oggetto e del soggetto (superando così la dicotomia sartriana), perché la formazione della sfera carnale avviene prima della costruzione della soggettività e della sua psicologia.

«La carne non è materia, non è spirito, non è sostanza. Per designarla occorre il vecchio termine “elemento” nel senso in cui lo si impiegava per parlare dell’acqua, dell’aria, della terra e del fuoco, ciò nel senso di una cosa generale, a mezza strada tra l’individuo spazio-temporale e l’idea, specie di principio incarnato che introduce uno stile d’essere in qualunque luogo se ne trovi una qualsiasi particella. In questo senso la carne è un “elemento” dell’Essere. Non è un fatto o una somma di fatti, e tuttavia aderisce al luogo e all’adesso». [16] La carne, per usare un gioco di parole, incarna il principio dell’essere, divenendo espressione di reciprocità in cui pulsano il visibile e l’invisibile; un modo generale del divenire, dunque, in cui visibile-vedente/tangibile-toccante convivono, lasciando al di fuori qualsiasi dualità e contrapposizione.

Nonostante Merleau-Ponty abbia posto le basi per una rigenerata ontologia del corpo, nel sottofondo novecentesco emergeranno altre posizioni filosofiche da considerarsi rilevanti per una lettura della corporalità sganciata dal pensiero classico; fra queste non si possono non citare le riflessioni in merito di: Deleuze e Jean-Luc Nancy. Partendo proprio da quest’ultimo, attraverso l’analisi dei suoi testi più esemplari sulla questione, come ad esempio Il senso del mondo, Corpus e Decostruzione del Cristianesimo, si nota come Nancy per riformulare un’“altra” concezione del corpo, parta avviando una critica profonda sia verso la tradizione cristiana che associa indissolubilmente il corpo a un’idea di carne, simbolo dell’incarnazione, della transustanziazione, della nascita e del rigetto; sia attuando un distacco verso le fenomenologie del corpo che, secondo lui, hanno avuto il demerito di oggettivare il corpo proprio. Opponendosi, dunque, al credo Cristiano che individua nel corpo quell’essere unico, indivisibile e pensato per se stesso, e nella carne la materia pronta a risorgere; Nancy, facendo eco a ciò che già Spinoza anticipava nell’Etica, [17] non considera il corpo come una monade stretta nella sua unicità, ma al contrario, come una moltitudine che non può essere arrestata, difatti è più appropriato parlare di corpi, in quanto esso è visto come un essere parcellizzato, atomizzato, polverizzato e mai solo e inscindibile.

Spogliandosi da ogni credo trascendentale ed allontanandosi da una concezione mistica, Nancy rifiuta l’uso del termine chair, optando per l’assunzione del termine corpus, non essendo sinonimo di sostanza, ma di soggetto, possedendo nell’estensione la sua essenza, un’estensione che gli permette di esporsi. Ed è seguendo questo ragionamento che egli traduce il corpo proprio in corpo improprio, perché essendo il corpo “inappropriabile” è, per sua natura, esposto e aperto a molteplici possibilità. Con il concetto di inappropriabile, Nancy vuole discostarsi dalla tendenza di considerare il corpo come una proprietà che ci appartiene (postulato racchiuso nella frase: “io ho un corpo”) perché, se così fosse, esso stesso sarebbe esauribile, limitato, costretto in una dimensione alienante, preferendo invece adottare la proposizione: “io sono un corpo”, in quanto è attraverso di esso che noi “sentiamo” e “viviamo” il nostro rapporto con il mondo. [18]

Nancy però fa un ulteriore passo in avanti, e in quella che da Derrida definirà come filosofia tattile o fenomenologia del toccare, asserisce che è soprattutto la pelle ad essere esposta giacché il suo contatto con l’esterno non può essere mai negato; ed è all’interno di questa logica del senso che possiamo introdurre il termine di esposizione. Per esposizione Nancy non intende riferirsi ad una realtà manifestata integralmente, data per certa, scontata; no, per lui l’esposizione (che molto intuitivamente diventerà ex-peau-situm) rimanda a quell’idea di pelle nuda e neutra, impegnata a di-spiegarsi e ri-piegarsi continuamente con/in se stessa, ossia con la sua esposizione. Il corpus di Nancy è obliato a se stesso, non è mai posseduto, è il se toucher soi (“toccare-sé”) che diviene se toucher toi (“toccandosi te” o “toccandositi”): «il toccare - l’altro come toccar - si, l’uno divorato, riassorbito nell’altro». [19] Questo rapporto che vede la fusione del (del moi) nel tu, rappresenta un’uscita dai propri confini, dai bordi, per giungere ad una adesione/coesione totale con l’altro e nell’altro.

E riprendendo l’asserzione aristotelica: “non si può vivere senza toccare”, [20] Derrida nel suo volume dedicato a Nancy, Toccare, Jean-Luc Nancy, si sofferma proprio sulla relazione corpo/mondo, relazione accessibile unicamente attraverso il tatto, unico dei cinque sensi ad essere essenziale per una profonda conoscenza del fuori-di.noi. Toccare, che si spingerà anche oltre i confini corporali, per farsi materia metaforica, carne del pensiero, dell’anima, in quanto non è concepibile esistenza senza estensione. «Nessun vivente al mondo può sopravvivere un solo istante senza il tatto, cioè senza essere toccato...si può vivere senza vedere, udire, gustare, “sentire” […] ma non si può sopravviverà un solo istante senza essere a contatto, in contatto». [21] Leggendo Nancy appare evidente che pur divergendo, specialmente nella terminologia adottata, da Merleau-Ponty, entrambi i filosofi rilanciano l’idea di un corpo/carne che non trova soluzione in una struttura barricata in se stessa, ma che, al contrario, è in continua interrelazione con l’esterno; perché quando Merleau-Ponty parla di carne non è certo intenzionato ad indicare qualcosa di soggettivo, stretto e imprigionato in un già dato; anzi è evidente come la chair sia attraversata da tangenti che la scuotono riducendola in fasci.

Nancy però non è stato l’unico filosofo a “rivedere” le teorie merleaupontyane, anche Deleuze, si è opposto alla fenomenologia francese, evitando la corrente “carnista”. In Che cos’è la filosofia? Deleuze e Guattari scrivono: «La carne non è la sensazione, anche se partecipa alla sua rivelazione […] la carne non è che il termometro di un divenire. Troppo tenera è la carne». [22] La chair, dunque, appare ancora troppo legata ai vincoli del corpo, alla materialità, alla struttura, per potersi superare e divenire potenza. Scrivo potenza perché l’intero pensiero di Deleuze sarà caratterizzato da questi piani in divenire in cui nulla apparirà mai completamente formato del tutto, ma perennemente scosso da multi livelli in cui ci si forma e riforma; Deleuze definirà ciò piano di immanenza o Planomene (piano di scivolamento). Come spiega Seggiaro in La chair et le pli, l’immanenza non è altro che l’apertura costante verso la moltitudine, il rifiuto di un irrigidimento degli stadi, l’incanalarsi continuo in diversi passaggi e scambi, e una relazione con l’esterno che obbligatoriamente presume la presenza dell’interno più profondo; in breve, una coesistenza estensiva che si dilata oltre i limiti.

E tale principio non può non includere a sé la nozione di corpo perché, per conoscere il corpo, è necessario adottare uno sguardo radiografico, ossia uno sguardo che immergendosi nelle pieghe dell’essere, scavalchi la superficie, il suo involucro, e soltanto dopo averlo sorpassato, raggiunga quel nucleo di materia in potenza in cui avvengono gli scambi vitali. Ed è superando uno strato dopo l’altro che si incontra la pelle, anzi le sue variazioni di grado. In Logica del senso, non a caso Deleuze introduce proprio la questione della pelle citando le sue insenature più fonde, asserendo che essa determina l’infinito intreccio tra interno ed esterno, una predisposizione vitale di energia in cui l’energia non è mai soltanto in superficie, ma pulsa nelle trame viscerali del corpo.

Ribellandosi all’idea di corpo vissuto, considerata da Deleuze insufficiente, in Mille Piani Deleuze e Guattari sotterrano l’idea di un corpo riconoscibile presentando un’immagine alternativa, non più improntata sull’organizzazione degli organi (l’organismo), ma sulla disarticolazione per far emergere un Corpo senza organi, ossia un corpo limite, che trova la propulsione genitrice in un ritmo continuo che si stanzia tra le intensità e i gradienti. Il CsO [23] è un vero e proprio campo di forze che si ribella alla struttura gerarchica, e agli automatismi che lo imprigionano in un’unità priva di immanenza. Per fare esperienza e sperimentarsi, il corpo deve uscire dalla gabbia strutturata che lo determina, infrangere i vari rivestimenti che lo compongono e propendere, così, verso lo smembramento, per giungere a quella battaglia di intensità che lo renderanno CsO: un corpo libero, dinamico, privo di soggetto; un corpo senza io. Non è un caso difatti se Deleuze preferisce parlare di ecceità: «C’è un modo di individuazione molto differente da quello di una persona, di un soggetto, di una cosa, di una sostanza. Gli riserviamo il nome di ecceità. Una stagione, un inverno, un’estate, un’ora o una data si caratterizzano per un’individualità perfetta, che non manca di nulla, sebbene non si confonda con quella di una cosa o di un soggetto. Sono ecceità, nel senso che tutto è in rapporto di movimento e di stasi tra molecole o particelle, potere di intaccare o di venire intaccato». [24] Cos’è un corpo se non la sede di intensità che lo colpiscono in un eterno gioco di costruzioni e distruzioni che non giungeranno mai ad una forma, ma saranno un costante divenire? Il CsO non può essere, perciò, colto in una rigidità, ma in quel luogo del limite e del divenire in cui il sentire diviene l’unica via per accedere al pensiero, alla conoscenza, conoscenza che non può essere posta al di fuori dei confini del sensibile. A fronte di queste riflessioni, si può concludere che la carne non essendo sensazione, non possiede forza e, di conseguenza, non resiste al caos. La critica che Deleuze muove nei confronti della chair merleaupontyana si basa sulla constatazione che essa rimanda inevitabilmente a qualcosa di organico, di concreto, non rendendo quella logica del senso molto cara al filosofo. E se Merleau-Ponty parlava di un corpo sensibile che tocca e incarna ciò che percepisce, con Deleuze dobbiamo abbandonare la carnalità ed abbracciare la dis-organicità. [25] Ma che si acceda per le vie della carne o del corpo, la meta finale è sempre quella: raggiungere un altro grado di consapevolezza, infiltrando in quel divenire progressivo, e senza tempo, che ci rende liberi da qualsiasi assoggettamento delle forme.

[1] Platone, Gorgia, 492 e-493 a.
[2] Platone, Cratilo, 400 b-c.
[3] Riferimenti interessanti sul pensiero di Omero sono rintracciabili in: B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Einaudi, Torino 1946.
[4] Platone, Opere, vol. I, Laterza, Bari 1967, pp, 213-214
[5] Si veda M. Merleau-Ponty, L’union de l’âme et du corps chez Malebranche, Biran et Bergson: notes prises au cours de Maurice Merleau-Ponty, Librairie Philosophique J. Vrin, Paris 1968.
[6] P. Schilder, Immagine su di sé e schema corporeo, Franco Angeli, Milano 1996, p. 35.
[7] Per un’analisi approfondita degli inediti di Merleau-Ponty si prenda a riferimento il testo di Emmanuele de Saint Aubert, Du lien des êtres aux éléments de l’être. Merleau-Ponty au tournant des années 1945-1951, Librairie Philosophique Vrin, Paris 2004.
[8] Ivi, p. 160.
[9] Ivi, p. 159.
[10] J.-P. Sartre, L’essere e il nulla. La condizione umana secondo l’esistenzialismo, Il Saggiatore, Milano 2008, p. 458.
[11] Ivi, p. 403.
[12] Separandosi dal pensiero sartriano che definisce il corpo ambiguo in quanto risulta essere simultaneamente soggetto per noi e oggetto per gli altri, ribadendoci contemporaneamente che: siamo e non siamo nel nostro corpo (in: J.-P. Sarte: L’essere e il nulla. La condizione umana secondo l’esistenzialismo) e avvicinandosi alla filosofia merleaupontyana, de Beauvoir asserisce che l’ambiguità non deve essere vista come un concetto chiuso in se stesso, ma come una condizione che rende possibile varie alternative di scelta.
[13] L’intersoggettività che pone fortemente la questione dell’altro, è uno degli altri concetti chiave di Merleau-Ponty, che egli lega a quello di incorporeità, esplicitando che il soggetto intersoggettivo è fondato nella carne del mondo come unità d’essere. (M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Il saggiatore, Milano, 1965).
[14] All’interno di Du lien des êtres aux éléments de l’être (pp.148.149), Saint Aubert, riprendendo il testo su Husserl Chose et Espace. Lecons de 1907 di Jean-Francois Lavigne, ribadisce l’infondatezza dell’associazione tra Leib husserliana e chair merleaupontyana, asserendo che nel termine chair sono presenti elementi eterogenei, incompatibili con quelli husserliani, facendo anche riferimento ad una differenza, non solo significante, ma anche linguistica, appartenendo entrambe le parole a due lingue differenti.
[15] “L’idea del chiasma, cioè: ogni rapporto all’essere è simultaneamente prendere ed essere preso […] A partire da qui, elaborare una idea della filosofia: essa non può essere presa totale e attiva, possesso intellettuale, giacché ciò che v’e da cogliere è uno spossessamento. Essa non è al di sopra della vita, non la sovrasta. È al di sotto. È l’esperienza simultanea del prendente e del preso in tutti gli ordini” (M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, Bompiani, Milano, 2003 cit., p. 277).
[16] M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit., p. 156.
[17] Si può dire che per Spinoza il corpo è un insieme di corpi perché considerato come una composizione formata da infiniti corpi che si relazionano tra loro attraverso il rapporto quiete/movimento: “[…] che qui corpi sono uniti tra loro, e che tutti insieme compongono un solo corpo o individuo, che si distingue dagli altri per questa unione di corpi” (cfr. B. Spinoza, L’Etica, Armando Editore, Roma, 2008, p. 90).
[18] Per tutta la questione riguardante il corpo si veda soprattutto: J.-L.Nancy, Corpus, Cronopio, Napoli, 1992 e J.-L-Nancy, Indizi sul corpo, Ananke, Torino, 2008. Per non tralasciare nulla, va precisato che tale lettura da parte di Nancy sarà messa in discussione da Roberto Esposito che in Dialogo sulla filosofia a venire, ribalterà l’idea del filosofo francese, dichiarando: “Il corpo è nella sua essenza il luogo stesso del proprio, dell’organico, del chiuso. Ciò che meno siamo disposti a lasciare alterare, attraversare o contagiare dall’altro. Mentre invece mi pare che il principio dell’alterazione e della contaminazione richiami piuttosto la semantica della «carne», intesa esattamente come l’apertura del corpo, la sua espropriazione, il suo essere «comune»” (in: J-L. Nancy, Essere singolare plurale, Einaudi, Torino, 1996, cfr. Dialogo sulla filosofia a venire, Introduzione p. XXVII).
[19] J.-L.Nancy, Corpus, cit, p.39. In merito è interessante notare come Jean-Luc Nancy non sia stato il solo a parlare in termini di pelle; sempre in Francia, dal 1974 fino alla metà degli anni 80, tramite la sua opera più importante Le Moi Peau, anche lo psicoanalista Didier Anzieu definirà la pelle come l’apparato organizzativo dell’organismo, ossia come quel legame che connette la struttura biologica al proprio io; la pelle dunque viene vista come un tramite tra due diversi, ma non opposti, livelli.
[20] Aristotele, Peri Psyches, 422b-424°
[21] J. Derrida, Toccare, Jean-Luc Nancy, Marietti, Genova, 2007, p. 149.
[22] G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, Einaudi, Torino 2002, p. 185.
[23] L’espressione “Corpo senza organi” è tratta dal programma radiofonico del 1947 Per farla finita con il giudizio di Dio di Antonin Artaud.
[24] G. Deleuze, F. Guattari, Millepiani. Capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi, Roma 2014, p. 320.
[25] Per una maggiore disquisizione dei punti si veda N. Seggiaro, La chair et le pli: Merleau-Ponty, Deleuze e la multivocità dell’essere, Mimesis, Milano, 2009.



David Atmejd, Juices, 2009
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