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Il mito dell’economia politica
di Jean-Pierre Voyer

14 maggio 2016



Parigi, 30 agosto 1978

Caro Lebovici,

Ritorno su ciò che ho potuto dichiarare nell’affiche “Le Tapin de Paris”. [1]

Cent’anni dopo la morte di Marx, ciò che vi è di più grossolanamente falso nella teoria di Marx non è ancora stato criticato.

Ora, se quel che v’è di più grossolanamente falso nella teoria di Marx — e che non è altro che la presenza, in Marx, di una teoria dominante [l’economia politica], che domina in profondità il pensiero di Marx — non è mai stata criticato, ciò non significa che questa teoria non sia mai stata attaccata altrove.

Quella teoria non ha mai cessato d’essere attaccata e indebolita, violentemente e sistematicamente, sia praticamente, da parte della sfera stessa senza di cui essa non sarebbe, sia teoricamente, per esempio da Dada, dai surrealisti e dai situazionisti.

Nonostante i cent’anni di incessante critica, Marx non è però mai stato attaccato in quel punto. Bisogna quindi trattare la teoria di Marx come egli trattò un tempo la teoria di Hegel e meglio ancora. Ciò non è mai stato fatto fino ad ora.

In queste condizioni, quand’anche ciò che di più corretto v’è nella teoria di Marx fosse stato criticato — ossia migliorato, verificato, reso più vero [criticare non è migliorare. Nel diritto francese della proprietà industriale figura l’adagio seguente: «Perfezionare, è contraffare» – io sono veramente un buon tipo. Io mi faccio in quattro per dare un senso all’obiezione del falsificatore] —, quand’anche delle critiche di dettaglio fossero state portate sugli errori minori di tale teoria, sono pienamente legittimato a scrivere che, con grande vergogna della nostra epoca, cento anni dopo la sua morte, la teoria di Marx non è ancora stata criticata. Cosa sarebbe una critica che lasciasse sussistere ciò che v’è di più grossolanamente e fondamentalmente falso in una teoria, se non una pura parvenza di critica. Tale è, per esempio, la critica di Hegel da parte dei vecchi e dei giovani hegeliani.

Parimenti, può sembrare che sia una sciocchezza dire che il pensiero di Hegel non sia ancora stato criticato, allorché, contrariamente a ciò che è capitato a Marx, ciò che di più grossolanamente falso c’era in Hegel è stato immediatamente criticato da Marx stesso. Ma Marx non ha criticato Hegel se non per far peggio, per commettere un errore ancor più grande e per cadere nel più rozzo utilitarismo — utilitarismo, unico nemico di Hegel. Io sostengo che Hegel attende ancora il suo giudice, in modo tale che non sia Marx a giudicare Hegel, ma Hegel Marx e le insufficienze del suo tempo.

Lei dunque ha perfettamente ragione a ritenere che l’anonimo autore del Tapin, autore delle scoperte summenzionate — e di qualche altra — intende, se non portare a buon esito, perlomeno intraprendere questo necessario e già tradivo compito. [La dimostrazione è estremamente semplice. Come spesso accade, bastava pensarci. I documenti che lo confermano sono stati scritti e pubblicati nei vent’anni seguenti la morte di Marx. Tempo perso.]

In pari tempo, giudicandomi lei si giudica e dimostra di non esser stato capace di distinguere “un’affermazione ostentatamente e stucchevolmente gauchista” da una scoperta scientifica.

Lei ha delle circostanze attenuanti. Una scoperta scientifica vale quel che valgono le sue prove. E io, per il momento, tengo la maggior parte di queste prove per me, sebbene abbia già fornito pubblicamente alcune indicazioni. Ho pubblicato, grazie alle sue attenzioni, tra le altre, le quattro righe che Marx tentò inutilmente di scrivere per tutta la vita. Mi scusi se è poco. Debbo constatare che queste quattro righe, che avrebbero dovuto innescare un’abbondante letteratura, non hanno sortito effetto. Debbo dunque a malincuore rassegnarmi a scrivere questa abbondante letteratura da me. Ma anche in assenza dell’insieme di tutte le prove, non è Lei reputato un grande «talent scout»?

Debbo aggiungere a queste un’altra circostanza: lei era infine giustificato a dubitare della fondatezza di queste scoperte, poiché io stesso, loro inventore, possessore di prove sufficienti al loro fondamento, ho dubitato di questa fondatezza alla prima chiamata in giudizio, cosa di cui lei ha le prove in mano. La modestia dei grandi sapienti è straordinaria: quella carogna bigotta di lord Kelvin ha quasi fatto morire di disperazione il povero Darwin con i suoi errati calcoli sulla velocità di raffreddamento della Terra. Ben dopo la morte di Darwin, Rutherford, scopritore della radioattività isotopica, rovinò i calcoli di Kelvin e riabilitò la teoria di Darwin. Ecc.. Ma ancorché lei dubitasse, poteva limitarsi e non imitare il perentorio Kelvin. Per fortuna sono salvo. Tutto va bene.

Ora, non m’obbietti che la sortita generatrice di confusione consiste nell’affermare qualcosa senza esibirne le prove. Mi spieghi, altrimenti, come ciò che è vero può, con o senza prove, spargere confusione. [Copernico aveva delle prove per ciò che avanzava?]

Infine, spero che lei sia l’ultimo a lamentarsi dell’estrema lentezza che impiego ad raccogliere le prove di ciò che sostengo, perché profitterei dell’occasione per ricordarle che lei non ha preso parte così notevole nel finanziamento dell’Istituto scientifico del quale sono segretario generale, le cui difficoltà finanziare hanno un impatto non piccolo sulla lentezza del suo funzionamento.

Cordialmente,

Voyer


P.-S.: Non posso davvero dire che Marx non abbia mai criticato l’economia*: Ahimè, non ha fatto altro. Da principio, attraverso le sue posizioni rivoluzionarie, ha attaccato il mondo che rende necessario il pensiero dominante. In seguito, ha contribuito al rifiuto della teoria dominante — ha quindi contribuito al lavoro del vostro servitore — sviluppando questa teoria sino alle sue ultime conseguenze e dimostrandone così il carattere assurdo e infondato — dimostrazione per assurdo che è, ahimè, rimasta senza effetto fino ad oggi, esclusa la sinistra dimostrazione pratica per mezzo dell’assurdo stalinismo: lo stalinismo è la realizzazione dell’economia.

Il principale torto di Marx è di aver giustamente criticato l’economia* come se questa fosse qualcosa di criticabile. Giacché l’economia è una pura menzogna. Non si critica una menzogna**. La si rifiuta. Marx non ha mai rifiutato l’economia. Al contrario, essa gli consegna una garanzia per la sua critica incessante.

Allo stesso modo, oggi, Debord può dire che La società dello spettacolo è una critica dell’economia***. Ahimè sì, ancora una. E non un rifiuto dell’economia. Bisogna rifiutare l’economia, è il compito più urgente della teoria critica. È questo compito che mi propongo, se non di portarlo a compimento, almeno di intraprenderlo.


Note d’oggi, 28 febbraio 2001

* Si tratta qui dell’economia politica (economics in inglese) e non dell’economia (economy in inglese). Quale la intende, per esempio, l’imbecille Debord. Il contesto, specie la riga successiva indica bene che parlo qui dell’attacco da parte di Marx della teoria dominante, dell’economia politica quindi.

** Questa menzogna consiste principalmente nell’accreditare l’esistenza dell’economia (nel senso di economy in inglese). Rifiutare questa menzogna consiste quindi nel provare che la credenza nell’esistenza dell’economia è un mito, cosa non facile, a causa della natura stessa dei miti. Si veda cosa accadde ad Alcibiade. Per contro è molto semplice per coloro che sostengono che la mia proposizione “L’economia non esiste” è falsa: basta che provino che la negazione di questa proposizione, vale a dire “L’economia esiste”, è vera.

*** Debord intende l’economia nel senso di economy, così come a don Chisciotte i mulini a vento sembrano giganti. L’imbecille Debord, pretende di criticare i mulini a vento. Don Chisciotte almeno era modesto. Non si tratta di criticare i mulini a vento, si tratta — direbbe Wittgenstein — di annientare una verbosità. Compito modesto e possibile. Come ha detto molto bene Wittgenstein in un altro contesto, si tratta di mostrare che coloro i quali dicono “economia”, “produzione”, “consumo”, non hanno detto niente, che le loro parole non hanno alcun significato.

(Traduzione di Jacopo Valli)


[1] Jean-Pierre Voyer (Bolbec, Haute-Normandie, 1938) è un filosofo francese post-situazionista. Voyer si riferisce qui a un testo da lui anonimamente pubblicato, sottoforma di affiche, nel 1978, dal titilo Le Tapin de Paris. A questo fece seguito uno scambio di lettere con Gérard Lebovici, produttore cinematografico e editore francese (Les éditions Champ libre, presso cui aveva pubblicato lo stesso Voyer). Il testo qui presentato è, come recita l’incipit, una ripresa del tema dell’affiche del ’78, pubblicato come «Lettre n. 6», in Hécatombe, Éditions de la Nuit, Paris 1991, p. 37, dove Voyer sostiene che il pensiero di Marx e Hegel non sarebbe ancora stato criticato. L’affermazione di Voyer fu motivo di rottura tra i due.



Jean-Pierre Voyer



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