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L’equivoco della rappresentazione.
Appunti su H.P. Lovecraft e l’orrore cosmico

di Lorenzo Lasagna

10 novembre 2021


Nei mesi scorsi, su queste pagine, ho cercato di spiegare cosa determini l’esiguità di motivi eerie nel cinema di fantascienza [1]. Su una linea di ragionamento non troppo dissimile, vorrei ora occuparmi di un’altra mancanza, o per essere più precisi di una certa difficoltà e di un certo fallimento. Mi riferisco ad un tema che potrà forse apparire settoriale: il risultato deludente, e in generale lo scarso successo al quale vanno incontro i tentativi di portare sullo schermo le opere dello scrittore americano Howard Phillips Lovecraft. Lovecraft occupa uno spazio rilevante nella cultura pop del ventunesimo secolo, tanto che persino alcuni aspetti scabrosi della sua produzione (come il dichiarato razzismo culturale che accomuna l’autore e molti suoi alter-ego letterari) non sembrano intaccarne la diffusione, in continua crescita sia nell’ambito della cosiddetta cultura ‘alta’ (o di ciò che ne resta) [2], sia nel complicato multiverso delle sottoculture di genere (al punto che sarebbe vano tentare di mappare i confini della sua presenza, ubiqua e ben distribuita, tra musica, fumetto, illustrazione, videogame e giochi da tavolo).
Più discontinua è invece l’influenza esercitata da Lovecraft sul cinema e sulle produzioni ‘televisive’ seriali. Di qui la domanda a cui vorrei rispondere: da cosa dipende una simile disparità? Prima di tutto, è opportuno fissare un’importante distinzione: quella tra la ricezione esplicita di un autore o di un testo (ad esempio il suo adattamento, o la messa in scena) e forme d’influenza più ‘seminali’, che si esprimono con accenni indiretti ai temi, alle iconografie, alle atmosfere o alle semplici suggestioni tipiche dell’autore in questione. Nella seconda accezione del termine l’influenza di Lovecraft è in effetti cospicua, e interessa opere cinematografiche e produzioni seriali anche molto diverse tra loro [3]. A noi interessa però indagare la prima, proprio perché più oggettiva e meno opinabile o rarefatta della seconda. Vorremmo perciò comprendere cosa accada alle opere che — con espressione propria dell’epoca analogica — definiremmo trasposizioni sullo schermo dei racconti lovecraftiani.

‘Orrore cosmico’. Cominciamo da una loro misurazione quantitativa. Sebbene non elevatissimo, il numero di produzioni ‘basate’ sugli scritti di Lovecraft è certamente significativo. Se però dall’enumerazione si passa ad una valutazione qualitativa, ecco che iniziano i problemi. Come sono costretti ad ammettere tutti i commentatori ragionevolmente obiettivi, non è per niente facile imbattersi in ‘buoni film’ tratti dai racconti dello scrittore di Providence. Proviamo a dire meglio (poiché sarebbe aleatorio stabilire in concreto che cosa sia ‘un buon film’). Per qualche ragione ignota, sembrano sorgere difficoltà insormontabili quando si cerca di realizzare un film (o una serie) ispirandosi in modo diretto alle opere di Lovecraft.
Più precisamente, dove quei film (o quelle serie) falliscono, è principalmente nel rappresentare il complesso delle ‘atmosfere’ angosciose e perturbanti che vengono generalmente considerate la cifra dei testi originari: un groviglio di emozioni per il quale la critica ha coniato la definizione di ‘horror cosmico’ (un sottogenere del weird che Lovecraft preferiva chiamare ‘horror soprannaturale’).
Chi desideri una definizione di ‘horror cosmico’ (o soprannaturale che dir si voglia) la potrà facilmente desumere dall’introduzione al saggio letterario (in forma di compendio) che Lovecraft pubblicò nel 1927, e che s’intitola per l’appunto L’orrore soprannaturale in letteratura.
Vi si legge infatti: “Il vero racconto misterioso ha qualcosa di più del delitto segreto, delle ossa insanguinate, o della sagoma vestita di un lenzuolo che fa risuonare le catene [...]. Dev’essere presente una certa atmosfera di terrore inesplicabile [...] verso forze esterne e ignote” [4].
Definizioni a parte, a noi sembra che i tratti di fondo dell’horror cosmico risiedano nell’origine ancestrale, primitiva, delle emozioni che evocano, e nella loro dismisura. E’ bene notare come l’aggettivo ‘cosmico’, riferito a Lovecraft, non significhi (se non incidentalmente) ‘siderale’ o ‘astronomico’, quanto piuttosto ‘incommensurabile’ e ‘fuori portata’.
E’ sempre Lovecraft a scrivere: “Dobbiamo giudicare un racconto del mistero non in base all‘intento dell’autore o alla semplice meccanica della trama, ma in base al livello emotivo che esso raggiunge nel suo punto meno terrestre. (...) L’unica prova del vero mistero è semplicemente questa — se viene stimolato o no nel lettore un profondo senso di terrore e di contatto con sfere e potenze ignote, un indefinibile atteggiamento di timoroso ascolto, come a captare il battere di nere ali o lo stridere di forme e entità esterne sull’estremo bordo conosciuto dell’universo” [5].
Torniamo così al nostro quesito. Sul web, va detto, si trovano numerosi tentativi di fornire una soluzione adeguata al problema. Le spiegazioni di solito chiamano in causa proprio il concetto di ‘dismisura’ — attraverso un suo stretto correlato gnoseologico: l’irrappresentabilità.
L’assunto generalmente accettato è che — a differenza delle forme di horror oggi dominanti (gore, splatter, slasher, etc.) — l’orrore cosmico non sarebbe visivamente riproducibile, né rappresentabile, in quanto trascendente la realtà fenomenica. Un commento video che ho preso in esame [6], elenca i fattori che ne ostacolerebbero la riproduzione cinematografica. In sostanza, vi si sostiene che l’orrore cosmico sarebbe difficilmente rappresentabile in quanto: a) ’visivamente complesso’, b) ‘astratto’ e c) giocato su un ‘precario equilibrio’ di elementi: tre qualità che impediscono (o comunque complicano fortemente) la sua messa in scena.
Se non comprendiamo male il senso di una simile tripartizione, ‘visivamente complesso’ significa ’non interamente conoscibile mediante l‘atto della visione’, mentre ‘astratto’ vuol dire semplicemente ‘non concreto’, e dunque ‘non esperibile’. Infine, l’equilibrio cui si fa riferimento riguarderebbe (ancora una volta) un difficile bilanciamento tra proprietà visibili e proprietà intelligibili. In conclusione, tutti e tre i termini della questione sembrano rimarcare un limite di percezione, in particolare quella che viene resa possibile dal senso della vista.
Ho già avuto modo di spiegare, a partire dall’eponima lezione americana di Italo Calvino, come il concetto di visibilità, nella nostra epoca, sia divenuto un vero e proprio paradigma in grado di regolare tanto l’organizzazione del linguaggio e del pensiero, quanto la comunicazione sociale e l’esperienza estetica della contemporaneità [7]. Ma c’è di più. Tutto ciò che esula dal paradigma, o che non può esservi inscritto come elemento fungibile, è ipso facto emarginato (quando non addirittura escluso) dal processo della significazione.
Pertanto, se anche possiamo convenire sull’elenco dei tratti attribuiti all’orrore cosmico (astrattezza, complessità visuale, ‘precario equilibrio’), non è su di essi in quanto tali che a nostro avviso va portata l’attenzione. La questione fondamentale sulla quale occorre riflettere è un’altra, e riguarda l’analisi della natura positiva e storicizzata del paradigma della visione.
L’argomento dell’irrappresentabilità sottende infatti un preciso apparato concettuale, che a propria volta implica un’estetica, una poetica e persino un’ideologia. Senza spingere il ragionamento troppo in là, vale perciò la pena chiedersi: è davvero tautologico (cioè autoevidente) il fatto che il cinema abbia per mestiere (e per ultimo orizzonte) il rendere visibili le cose?
Parimenti, è davvero così pacifico che un’immagine non possa esprimere concetti astratti? E che — proseguendo su questa linea — i segni di cui il cinema si serve siano necessariamente entità discrete (come le tessere di un mosaico o i pixel che compongono un’immagine digitale) in opposizione alla sopraccitata complessità dell’orrore cosmico?
Ad un livello immediato potremmo rispondere che sì, naturalmente, il cinema si occupa di rendere le cose visibili, poiché esso — in ultima analisi — è fatto d’immagini. Secondo questo principio il cinema non potrebbe esprimere concetti astratti per la ragione che impiega segni concreti. Se ne dovrebbe anche concludere che — poiché la concretezza implica l’esistenza di entità discrete — tutti gli oggetti situati oltre un certo limite di complessità (oggi piace molto parlare di iperoggetti [8]) trascendono i domini del linguaggio cinematografico.
Prima di provare a confutare questa manifesta fallacia empiristica (secondo la quale, humeanamente, l’immagine può rimandare solo ad altre immagini), ci preme far notare una cosa piuttosto sorprendente, e cioè il fatto che la trivialità del predetto argomento non sembra insospettire nessuno — il che la dice lunga sul grado di pervasività raggiunto dal paradigma della visione nella società digitale. Se infatti portassimo alle estreme conseguenze l’argomento dell’irrappresentabilità, dovremmo spingerci ad affermare che nemmeno la letteratura può accostarsi ad oggetti invisibili, dal momento che in ultima analisi essa consta di segni grafici impressi su una pagina. Persino la filosofia e la teologia, a rigore, dovrebbero soggiacere ad analoghe restrizioni.
La verità è che secondo un simile modo di ragionare nessuna forma di linguaggio umano potrebbe veicolare significati non empirici (e dunque astratti e/o complessi). Se dunque l’argomento dell’irrappresentabilità avesse una qualche validità, ecco che trascendenza, astrazione e complessità dovrebbero essere dichiarate fattispecie umanamente incomunicabili — affermazione che suona manifestamente controfattuale (tranne forse all’orecchio di qualche irriducibile neopositivista).
Il problema va dunque affrontato su altre basi. Certo, il linguaggio dell’epoca digitale si caratterizza per una rigorosa e incoercibile ’negazione del simbolico’. Ma negando il valore della dimensione simbolica, il linguaggio non fa semplicemente ’il proprio lavoro’: al contrario, finisce fatalmente con l’amputare la propria funzione, precludendosi la possibilità di stabilire relazioni con l’Altro, l’oggetto inattingibile che Lacan chiamava la Cosa e che non a caso considerava il fondamento stesso dell’arte. E’ quanto constatiamo ogni giorno: la contemporaneità pullula di cose (fungibili, visibili, esatte), ma ha completamente perso la capacità di generare simboli attraverso un rimando alla Cosa.
In realtà, come hanno rilevato alcuni studiosi contemporanei, il postmoderno non ha inventato dal nulla la reiezione del simbolico, ma ha portato a compimento e a saldatura un processo che ha le proprie origini nella modernità, e che già Hegel aveva avuto modo di osservare [9]. La questione ha addirittura implicazioni di ordine teologico, come lascia ben intendere Pavel Florenskij quando scrive: “L’invisibile appunto perché è invisibile è inaccessibile in sé alla sensibilità esterna [...]. Il santuario come noumeno sarebbe inesistente per occhi spiritualmente ciechi [...], se non fosse stato veduto in secoli nei quali era accessibile all’esperienza sensibile, quando il mondo invisibile si vedeva” [10].
Scrive nel suo lavoro più recente Byung-Chul Han: “[...] [L]’arte viene oggi sempre più profanata e privata dell’incanto; la magia e l’incanto, che rappresentano la sua effettiva origine, l’abbandonano a favore del discorso. [...] La magia cede il posto alla trasparenza, l’imperativo della trasparenza sviluppa un’avversione alle forme. L’arte diventa trasparente in riferimento al proprio significato; non seduce più, l’involucro magico viene buttato via” [11].
Un regista che volesse mostrarci le angosce di Lovecraft, allora, dovrebbe anzitutto ricostruire uno spazio di simbolico di espressione, e mettersi a cercare forme di significazione sganciate dal paradigma della visione.
Si noti come alcuni linguaggi figurativi abbiano risolto questo problema nel modo più sbrigativo, cioè abolendo il legame tra l’immagine e il suo referente reale. Sono i ’simulacri di simulacri’ di cui parla Baudrillard: linguaggi che possono essere nati oltre la frattura digitale (come il videogame e la computer-graphic), oppure semplicemente migrati attraverso di essa (si pensi al fumetto): in ogni caso, essi ormai si trovano fuori dal dilemma della rappresentazione. Nessuno si aspetta che un fumetto o una graphic novel tematizzino referenti reali. Il cinema, invece, è rimasto invischiato nella contraddizione: la realtà va ancora rappresentata oppure no? Il cinema di animazione, che è originariamente finzionale (proprio come il fumetto) non ha simili imbarazzi. Maneggia con relativa facilità segni complessi e continua, almeno di quando in quando, a produrre simboli [12].

Il cinema dell’ineffabile. Negli anni dieci, e poi negli anni venti e trenta del Novecento, Lovecraft era ben consapevole di trovarsi sull’orlo di una cesura epocale, e la sua pagina era intrisa di forte scetticismo sul significato e sulla portata dell’azione razionalizzante del sapere umano, in special modo le scienze positive. Non è questa la sede per una disamina della questione, ma come talvolta ho sostenuto, l’atteggiamento di Lovecraft verso la scienza è fondamentalmente ambivalente. Di certo non può essere ridotto a semplice rifiuto o a mera opposizione: la sua pagina non arriva mai ad abbracciare l’irrazionalismo, piuttosto riecheggia toni para-scientifici di provenienza gnostica o teosofica. Anticipando uno schema che avrà largo successo nella cultura pop del ventesimo secolo [13], in Lovecraft la scienza appare come un sapere necessario ma insufficiente, o per meglio dire: un sapere che va ripulito di tutti i suoi cascami ’umanistici’ e portato alle estreme, ‘sovrumane’ conseguenze.
Lo sconvolgimento che Lovecraft presentiva non era però — come si potrebbe credere sulla base di un’interpretazione letterale dei testi — lo spengleriano tramonto dell’Occidente, quanto piuttosto la fine del dominio sul Cosmo esercitato dall’Homo Sapiens — un destino che andava heideggerianamente inverandosi di pari passo al compimento della tecnica.
Come sappiamo, il ventunesimo secolo ha visto completarsi l’attraversamento di quella faglia, nella quale hanno coinciso il culmine della rivoluzione tecnologica digitale e la fine dell’antropocene. Certo, di una siffatta transizione epocale l’industria dell’immagine è stata una punta avanzata: ma il cinema del ventunesimo secolo non è il cinema tout court.
La nostra tesi è che sentimenti come l’orrore cosmico non siano preclusi al linguaggio cinematografico in quanto tale, ma solamente al linguaggio cinematografico oggi prevalente. D’altra parte, e lo abbiamo sottolineato in diverse occasioni [14], si danno esempi di poetiche cinematografiche ispirate ad un programma di segno opposto, tese cioè a confrontarsi con il trascendente, l’inconoscibile e l’impensato.
Ci limiteremo qui ad elencare tre pellicole assai note, realizzate nel rigoroso rispetto di quella che Lacan ebbe a definire “la barratura della Cosa” [15], cioè l’indicibile ‘bordatura’ del vuoto, che il pensiero umano non può mai afferrare. I tre film in questione sono L’angelo sterminatore di Luis Buñuel (1962), Picnic ad Hanging Rock di Peter Weir (1975), e Stalker di Andrej Tarkovskij (1979) [16]. Su di esse la critica ha versato fiumi d’inchiostro, e non sarebbe di alcun interesse aggiungere qui la nostra personale interpretazione. Facciamo solamente notare come tutte e tre ruotino in modo esemplare, e senza alcun affanno o contraddizione, intorno a una specie di centro inaccessibile: un sorgimento tanto concreto nei suoi effetti quanto ineffabile (e pervasivo) nella sua origine. Siffatto centro agisce sia nel caso della forza che tiene misteriosamente bloccati uomini e donne all’interno di un’elegante abitazione dell’alta borghesia, sia nell’energia primitiva che attrae a sé e cattura alcune giovani ragazze durante una gita nell’outback australiano, sia nell’anomalia che sovverte le leggi della fisica entro un elusivo perimetro chiamato La Zona. Abbiamo dunque tre variazioni su un tema comune: la mise-en-scène di un oggetto che — incidentalmente — possiede tutte le proprietà sin qui accordate all’orrore cosmico; un oggetto in definitiva ‘invisibile’, ‘astratto’ e concettualmente ‘complesso’. Ma c’è di più. In tutti e tre i casi, la matrice di senso dell’opera dipende strutturalmente dall’impossibilità di raffigurare tale oggetto.
Sulla scorta di questi veloci esempi, intendiamo concludere che una ’via cinematografica alla Cosa’ potrà forse risultare tortuosa e difficile, ma è sicuramente praticabile. Nondimeno, un’altra importante precisazione si rende necessaria. Lo stesso Lovecraft non fu sempre immune dalla tentazione di rappresentare l’orrore. Anzi, a noi sembra che la sua scrittura oscilli spesso tra esempi molto ben riusciti di evocazione non rappresentativa, e tediose (e talvolta persino ridicole) cadute iperrealistiche, che vengono innescate proprio dal bisogno di rendere visibile ciò di cui si parla.
Nel celeberrimo Alle montagne della follia, troviamo descrizioni come questa:
“Il torso è sormontato da un collo quasi sferico, di colore grigio chiaro, munito di quelle che sembrano branchie e destinato a sostenere una testa giallastra, a cinque punte, che ricorda una testa marina; questa estremità è coperta di ciglia sottili, lunghe intorno ai sette centimetri, che brillano di vari colori. La testa, grossa e gonfia, misura circa settanta centimetri da punta a punta, con piccoli tubi gialli e flessibili che fuoriescono per circa sette centimetri e mezzo da ogni punta. Al centro esatto dell’estremità superiore appare un’apertura che serve, probabilmente, a respirare. In fondo a ogni tubo flessibile si nota un’espansione sferica la cui membrana gialla si stacca al tatto e rivela un globo vitreo, dall’iride rossa: evidentemente un occhio” [17]. Il passo prosegue sul medesimo registro per altre due pagine.
Naturalmente non è in passaggi di questo tenore che si esprime la cifra immaginativa di Lovecraft. Essa risuona altrove, nelle descrizioni oblique e più fortemente allusive, nelle reticenze e nelle ellissi di cui è ricca la sua pagina. Ad esempio in questo doppio, memorabile capoverso di Dagon:
“Il mutamento avvenne mentre dormivo. Come effettivamente avvenne non lo saprò mai: soggiacevo a un torpore continuo, popolato di sogni fastidiosi. Quando infine fui desto mi trovai quasi sommerso nella melmosa distesa di una nera palude, che mi si estendeva attorno a perdita d’occhio in monotone ondulazioni [...]. Vi era [...] nell’aria e nel suolo putrescente qualcosa di sinistro che mi gelava il sangue nelle vene. Il luogo era reso putrido da carcasse di pesci in decomposizione e da altre cose meno raffigurabili che sporgevano dal fango immondo della pianura senza fine. Nessun suono giungeva al mio orecchio e nient’altro si vedeva se non la vasta distesa di melma nera. Ma erano proprio quella quiete assoluta e l’omogeneità di quel paesaggio ad opprimermi con un senso di paura e disgusto” [18].
La contraddizione tuttavia esiste, e non può essere negata.
Proprio per il pathos dell’inesprimibile che trapela dalle sue pagine migliori, Lovecraft oggi piace molto ai teorici del post-umanesimo e più in generale ai critici radicali della tarda modernità. L’angoscia che lo attanagliava, la viva apprensione per la fine dell’amata ‘civiltà georgiana’ [19] e l’inevitabile tramonto del Merry New England popolato e governato dalle aristocrazie bianche, ai nostri occhi contemporanei assumono valenze altre, e trascolorano in categorie metafisiche: il declino della razionalità tecnica, la fine dell’umano, la fuoriuscita dall’antropocene verso un’epoca più oscura ed incerta che alcuni, con qualche acrobazia lessicale e un indubbio senso del marketing, hanno infatti ribattezzato ’cthulhucene’ [20].
Possiamo allora chiederci se — alla lunga — la fine dell’antropocene non possa avere come conseguenza l’abbandono del più classico paradigma umanistico: la conoscenza come visione. E se — con buona pace di certo cinema — le forme espressive più idonee per dare voce all’inquietudine della ‘nuova era oscura’ [21] non siano quelle che nascono dai linguaggi ‘non rappresentativi’.
Come abbiamo detto, fumetto e videogiochi godono di un importante vantaggio rispetto al cinema, in quanto utilizzano segni ’di secondo livello’ che si trovano, da subito, oltre ogni possibile illusione di rappresentazione della realtà. Ab origine, essi propongono un’iconografia consapevolmente finzionale, che opera senza bisogno di stabilire alcun patto narrativo o alcuna sospensione dell’incredulità: non ritraggono nulla, semplicemente simulano. L’equivoco della rappresentazione, invece, investe in pieno le forme d’arte tradizionali: il cinema, la pittura, la fotografia, e persino la scrittura.
Tempo fa lessi un libro intitolato Saggezza stellare, un’antologia di racconti scritti (commissionati?) “nel segno di Lovecraft” per il “Nuovo Millennio”. Tra gli autori figuravano nomi di un certo spicco, come quelli di James G. Ballard, di William Burroughs e di Alan Moore. La cosa che mi colpì maggiormente, in quelle pagine, fu la completa assenza di affinità con il loro ispiratore (se si eccettua un generico richiamo al concetto di orrore soprannaturale). Nessuno dei racconti recava la benché minima traccia delle inconfondibili ‘atmosfere’ lovecraftiane. Sono certo che se il curatore avesse cambiato titolo alla raccolta, il nome di Lovecraft non sarebbe mai venuto alla mente dei lettori (a tal punto che ancora oggi mi resta il dubbio di avere letto una silloge di opere riunite a posteriori e forzatamente inquadrate come ‘lovecraftiane’). Tra le possibili spiegazioni di questo fatto, va senz’altro considerato l’ostacolo rappresentato dall’ingombrante stile di Lovecraft, la cui imitazione inclina inesorabilmente verso la maniera, cioè verso la ripetizione meccanica di temi e di lemmi tipici del modello. Gli scrittori coinvolti, probabilmente, erano stati abbastanza avveduti da capire che non potevano ‘rifare’ Lovecraft, ma non abbastanza pazienti (o coraggiosi, o visionari) da attingere con originalità alla sostanza del suo lavoro. Ad ogni modo, l’esito fu una galleria di scritture completamente ‘fuori tema’, che testimoniavano il fallimento del compito assegnato. In molti racconti, per fare un esempio, spiccava l’insistito ricorso a immagini e a temi sessualmente espliciti: una dimensione — la sessualità — del tutto assente nel modello originale, e verso la quale il radicale antiumanismo di Lovecraft nutriva per forza di cose una sovrana indifferenza.
Per concludere, ci sembra che in linea di principio nulla impedisca ad un regista di realizzare un’opera lovecraftiana, né di portare un racconto di Lovecraft sullo schermo. Tuttavia, non sarà certo per una via mimetica (o genericamente rappresentativa, o didascalica) che il suo tentativo potrà avere qualche possibilità di riuscire. Non spetta a noi, beninteso, dettare criteri o — peggio — regole alternative alla logica della raffigurazione. Solamente un punto appare certo: chi volesse cimentarsi nell’impresa farebbe meglio a partire da qui, cioè dall’assunto che il modus della rappresentazione (e in specie quello della rappresentazione visiva) non potrà essergli d’aiuto. Il fallimento della ’scorciatoia rappresentativa’ non pone però fuori gioco il cinema, ma solo certo cinema ingenuamente naturalistico (oggi purtroppo predominante nella produzione mainstream) e i suoi cliché legati alla visione intesa come mimesi o ricalco.

Postilla: Il Colore Venuto Dallo Spazio. La nostra è naturalmente un’ipotesi di lavoro, e come tale necessita di verifiche. Secondo alcuni, ad esempio, sarebbe interessante applicarla ad un caso cinematografico recente: il film Il colore venuto dallo spazio, tratto dall’omonimo racconto di Lovecraft e portato sullo schermo dal regista Richard Stanley.
Sulla carta il film appare degno di attenzione almeno per due ragioni. La prima è che si confronta con uno dei racconti più amati e meglio riusciti di Lovecraft, sotto certi aspetti il migliore della sua produzione. La seconda è che la messa in scena del testo non segue una strada pedissequamente adattativa, ma presenta alcuni significativi interventi di riscrittura. In particolare, la sceneggiatura imprime alla vicenda un brusco salto temporale, trasportandola ai nostri giorni, cioè poco meno di un secolo dopo la stesura (e l’ambientazione) originaria.
Un tale scarto, come si può facilmente immaginare, pone alcuni problemi. Come abbiamo detto, da qualche parte tra Lovecraft e noi è situato uno spartiacque, una linea di faglia (il passaggio tra paradigma analogico e paradigma digitale), il cui attraversamento non può non sollevare questioni decisive, rispetto alle quali Lovecraft e ‘noi moderni’ occupiamo versanti fatalmente contrapposti.
Il Colore racconta la progressiva e raccapricciante distruzione di una famiglia rurale americana, ad opera di un misterioso agente fisico (un ‘colore’, appunto) che, dopo essersi sprigionato da un meteorite caduto in prossimità di un pozzo, corrompe tutti gli esseri viventi con i quali entra in contatto: animali, piante, uomini. Il climax della vicenda viene dettato dalla progressiva manifestazione della piaga incorporea (il ‘colore’, ci viene detto, non somiglia a nessuno di quelli che si trovano nello spettro della luce visibile): il principio agente è insomma un altrove che agisce qui e ora, senza però mostrarsi.
Fissiamoci ancora un momento sullo spostamento dell’asse temporale, e iniziamo col porci alcune domande di carattere generale. E’ davvero pensabile un ‘altrove’, nell’era in cui viviamo? E’ immaginabile, nella nostra epoca, un’epifania, un’apparizione, cioè la manifestazione di un principio autenticamente difforme? D’istinto, diremmo di no.
Gli sceneggiatori devono essersi posti la stessa domanda e forse dati la medesima risposta, perché si sono premurati di ‘neutralizzare’ (o comunque attenuare) ogni condizionamento digitale degli eventi narrati. La famiglia colpita dalla misteriosa lebbra extraterrestre vive isolata nelle foreste del New England, circondata da “venti chilometri di boschi” per una scelta di vita compiuta a suo tempo dal capofamiglia, e alcuni dei suoi membri rivelano abitudini pre-tecnologiche (la figlia, ad esempio, si muove a cavallo e non indossa calzature). In più, al diffondersi dell’infestazione, tutti gli strumenti digitali (e meccanici) d’uso comune smettono di funzionare, cessando di produrre ogni effetto. Se possiamo apprezzare lo sforzo degli sceneggiatori nel creare una bolla analogica, sappiamo tuttavia che per sovvertire un paradigma non basta ricorrere a qualche espediente di scrittura. Come nella vita reale, così anche nella finzione non è sufficiente spegnere o disabilitare uno schermo per ritrovarsi come d’incanto in una cornice di senso pre-digitale, tanto più che i principali ostacoli da rimuovere, nel lavoro di scrittura, non sembrano di ordine diegetico (cosa mettere dentro la storia), quanto piuttosto di ordine formale (come raccontare la storia).
Ad ogni modo, come ci aspettavamo, la visione del film non ha riservato grandi sorprese. In sintesi, la pellicola di Stanley, pur ben confezionata, non propone alcuna svolta nell’approccio al testo lovecraftiano, che resta di tipo visivo-mimetico. Ci troviamo insomma davanti a un dignitoso prodotto di genere, ma fondamentalmente incapace — come i suoi predecessori — di attingere l’essenza del terrore cosmico, alla ricerca del quale, dopo una prima mezz’ora di carattere interlocutorio, viene preferita la solita descrizione visiva diretta di ciò che inizialmente era stato proposto come ineffabile. L’indefinito colore del racconto, ad esempio, diventa nel film un saturo e brillante pigmento fucsia, e l’attenzione — che in Lovecraft restava sempre centrata (anche nei momenti di massimo orrore) sulla causa inapparente — viene frettolosamente dirottata su ciò che cade saldamente sotto il dominio dei sensi, la vista in primis.
Nel racconto non succedeva quasi nulla: tutto era la manifestazione (ritardata) di qualcos’altro: il testo di Lovecraft era (ed è) un meticoloso spartito in levare, nel quale ogni violenza è sapientemente elusa e tenuta fuori scena. Nel film, invece, man mano che il climax comincia a crescere, l’orrore si trasferisce dalla causa agli effetti. Non è un caso che la pellicola sia stata (correttamente) classificata come body horror: i momenti di massima intensità sono quelli che ci mostrano il disfacimento e lo strazio dei corpi, un aspetto che Lovecraft aveva evocato con estremo pudore, e che il film rende invece in modo tecnicamente pornografico (con ostentazione di piaghe, mutilazioni, metamorfosi, e copioso spargimento di liquidi corporali). L‘ultimo quarto d’ora, infine, si risolve in meccanismi da puro action movie (inseguimenti, sparatorie ed esplosioni), in totale violazione dello spirito del testo.
Al termine è stato inevitabile domandarci di nuovo: che fine ha fatto l’oltre? Dov’è l’“indefinibile atteggiamento di timoroso ascolto” che il vero orrore cosmico, secondo Lovecraft, deve saper suscitare? La risposta è semplice: da nessuna parte. Non ci sono nessun oltre e nessun timoroso ascolto. Nonostante la voce narrante fuori campo provi a convincerci del contrario, l’unico riferimento ‘cosmico’ presente nel film è una (ridicola) immagine del pianeta d’origine del ‘colore’ (chissà perché un pianeta, poi ...), resa in stile futuristic fantasy, come se ci trovassimo in una qualunque Cronaca di Riddick. Un’immagine che se ne sta lì in piena visione, inerte, plastica, fatalmente depotenziata di ogni alterità possibile e di ogni capacità di evocazione.

NOTE

[1] Cfr. il nostro articolo «C’è qualcosa là fuori?» Appunti sull’eerie e lo Spazio nel cinema di fantascienza.
[2] Scrive Mark Fisher: “Graham Harman dichiara di attendere con ansia il giorno in cui Lovecraft spodesterà Hölderlin dal suo trono di oggetto supremo di studio letterario dei filosofi” (da M. Fisher, The weird and the eerie, Nero (Roma) 2018, p. 28.
[3] La critica include in questa seconda categoria film privi di riferimenti formali a Lovecraft, come ad esempio i classici La Cosa (1982) e Il seme della follia (1994) di John Carpenter, Cloverfield (2008) di Matt Reeves, The Lighthouse (2019) di Robert Eggers.
[4] H.P. Lovecraft, L’orrore soprannaturale in letteratura, in Opere Complete, SugarCo. (Milano) 1983, p. 19.
[5] Ibidem.
[6] Cfr. Why Cosmic Horror is Hard To Make sul canale Youtube Screened.
[7] Cfr. il nostro articolo Calvino e l’utopia capovolta. Come il terzo millennio ha smentito le Lezioni americane. Parte quinta. Visibilità.
[8] Cfr. T. Morton, Iperoggetti, Nero (Roma) 2018.
[9] Cfr. B.-C. Han, La salvezza del bello, Nottetempo (Milano) 2019, p. 65 e sgg.
[10] P. Florenskij, Le porte regali. Saggio sull’icona, Adelphi (Milano) 2007, p. 54.
[11] B.-C. Han, La scomparsa dei riti, Nottetempo (Milano) 2021, p. 38 (corsivi dell’autore).
[12] Accade ad esempio nel cinema anime di Miyazaki Hayao. Il quale in un’intervista, a proposito del vuoto come meccanismo della narrazione, ha dichiarato: “We have a word for that in Japanese [...]. It’s called ma. Emptiness. [He clapped his hands three or four times]. The time in between my clapping is ma. If you just have non-stop action with no breathing space at all, it’s just busyness, But if you take a moment, then the tension building in the film can grow into a wider dimension. If you just have constant tension at 80 degrees all the time you just get numb”.
[13] Si pensi a produzioni televisive come X-Files o Fringe.
[14] Cfr. ad esempio il nostro Solaris di Andrej Tarkovskij. Un approccio teoretico.
[15] Cfr. M. Recalcati, , Le tre estetiche di Lacan.
[16] La celeberrima metafora tarkovskijana del cinema come arte di “scolpire il tempo”, colloca il paradigma della visione in una posizione chiaramente subordinata nell’ambito del linguaggio cinematografico.
[17] Le montagne della follia, in H.P. Lovecraft, Tutti i racconti, Mondadori (Milano) 2015, p. 693.
[18] Dagon, in H.P. Lovecraft, L’orrendo richiamo, Einaudi (Torino) 1994, p. 4.
[19] L’America vagheggiata da Lovecraft, val la pena di notare, è un’America pre-rivoluzionaria e pre-industriale, ancora fortemente intrisa del suo passato coloniale.
[20] Cfr. D. Haraway, Cthulhucene, Nero (Roma) 2019.
[21] Cfr. J. Bridle, Nuova era oscura, Nero (Roma) 2019.


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