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Calvino e l’utopia capovolta.
Come il terzo millennio ha smentito le Lezioni americane
Parte terza. Leggerezza [Parte seconda]

di Lorenzo Lasagna

25 marzo 2020



Leggerezza è la prima lezione americana, e certamente anche la più nota: un po' perché rappresenta la porta di accesso all'intero ciclo di conferenze, e un po' per la pregnanza di alcune immagini, che la rendono (come avrebbe detto il suo autore) fortemente icastica. Del resto, il termine 'leggerezza' è divenuto quasi un contrassegno, una figura dell'intera poetica calviniana. Egli stesso lo dice a chiare lettere:

“Dopo quarant'anni che scrivo fiction [...] è venuta l'ora che io cerchi una definizione complessiva per il mio lavoro: proporrei questa: la mia operazione è stata il più delle volte una sottrazione di peso; ho cercato di togliere peso ora alle figure umane, ora ai corpi celesti, ora alle città; soprattutto ho cercato di togliere peso alla struttura del racconto e del linguaggio”[1].

La vera dramatis persona della lezione sulla leggerezza è probabilmente Guido Cavalcanti, protagonista di un episodio sul quale Calvino si sofferma. Non si tratta però qui del Cavalcanti inteso come autore — che verrà peraltro citato poche righe più avanti — ma del Cavalcanti personaggio, come appare in una novella del Decameron. Racconta infatti Boccaccio che un giorno, mentre passeggiava, il poeta fiorentino fu avvicinato da una banda di giovani, i quali, avendolo da tempo in antipatia, cominciarono ad importunarlo con scherzi e battute. Accadde allora che, dopo aver risposto alle provocazioni con la consueta arguzia, Cavalcanti fece un salto, “sì come colui che leggerissimo era”, liberandosi una volta per tutte dalla molesta combriccola.

“Se volessi scegliere un simbolo augurale per l'affacciarsi al nuovo millennio — chiosa Calvino — sceglierei questo: l'agile salto improvviso del poeta-filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della sua leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante, appartiene al regno della morte, come un cimitero di automobili arrugginite”[2].

L'apologo spazializza in modo perfetto l'eccellenza morale e intellettuale del suo protagonista, in particolare se raffrontata alla volgarità dei suoi interlocutori, e diventa così l'icona perfetta di una proprietà qualitativa: la leggerezza intesa di come metafora della superiorità, di maggiore statura, ironia e distanza.

In quanto archetipo, la leggerezza si riallaccia naturalmente a tutte le metafore del volo, dell'ascensione e della levitazione. Ciò che è leggero sale (dove i corpi massivi scendono), si affranca dalla gravità e dunque si allontana dal suolo. A pensarci bene non è cosa nuova: ogni forma di spiritualità ha sempre anelato ad ascendere, a librarsi sopra le pesantezze: nel gesto di Cavalcanti Calvino ritrova, nobilitata su un piano letterario, la realizzazione di una fantasia che può essere fatta risalire almeno sino a Platone.

Ma, attenzione: nelle pagine sulla leggerezza, non c'imbattiamo mai in esempi estremi di una simile aspirazione. Comprendiamo subito che a Calvino non interessa l'ascensione assoluta, metafisica. Significativamente, anzi, un poeta avvezzo alle ascensioni vertiginose, come Dante, viene da lui iscritto al club della 'pesantezza':

“[...] Due vocazioni opposte si contendono il campo della letteratura attraverso i secoli: l'una tende a fare del linguaggio un elemento senza peso, che aleggia sopra le cose come una nube [...]: l'altra tende a comunicare al linguaggio il peso, lo spessore, la concretezza delle cose, dei corpi e delle sensazioni. Alle origini della letteratura italiana — e europea — queste due vie sono aperte da Cavalcanti e da Dante”[3].

La leggerezza di Calvino si precisa come fatto minimo. E se la rapidità aveva la sua espressione compiuta [4] nella brevità, la leggerezza si esprime nei piccoli volteggi, negli arabeschi e nelle sfumature. Tanto la leggerezza quanto la rapidità indicano proprietà calligrafiche, di bello stile, e non c'è alcuna radicalità di gesto o di ambizione sottesa al loro elogio, tanto più che, come abbiamo già sottolineato, Calvino tiene a ribadire la pari dignità di leggerezza e peso, quasi ammettendo l'aleatorietà della sua opzione: “Dedicherò la prima conferenza all'opposizione leggerezza-peso, e sosterrò le ragioni della leggerezza. Questo non vuol dire che io consideri le ragioni del peso meno valide, ma solo che sulla leggerezza penso di aver più cose da dire”[5].

Siamo così approdati ad un'estetica che ha nella temperanza la sua cifra. Anzi, la temperanza rappresenta forse la vera costante teorica delle Lezioni: da un lato perché Calvino ragiona sempre per coppie complementari, dall'altro perché una volta che ha deciso quale delle due polarità elevare ad argomento della propria conferenza, ne dà in definitiva una rappresentazione elegiaca, intermedia. Esemplare il richiamo all'estetica lunare di Leopardi, nella quale Calvino ravvisa “[...] una sensazione di levità, di sospensione, di silenzioso e calmo incantesimo”[6].

Nasce però, da queste riflessioni, una domanda ineludibile: a quale forza si oppone, concretamente, la leggerezza? A quale specie di gravità?

Che esista ab origine una tensione fra leggerezza e realtà, Calvino lo riconosce rievocando gli anni della sua formazione: “Quando ho iniziato la mia attività, il dovere di rappresentare il nostro tempo era l'imperativo categorico d'ogni giovane scrittore [.]. Presto mi sono accorto che tra i fatti della vita che avrebbero dovuto essere la mia materia prima e l'agilità scattante e tagliente che volevo animasse la mia scrittura c'era un divario che mi costava sempre più sforzo superare. Forse stavo scoprendo solo allora la pesantezza, l'inerzia, l'opacità del mondo: qualità che s'attaccano subito alla scrittura, se non si trova il modo di sfuggirle”[7]. E ancora: “in certi momenti mi sembrava che il mondo stesse diventando tutto di pietra”[8].

Posto dinnanzi ad un mondo che va 'pietrificandosi', Calvino afferma dapprima di sentirsi come un novello Perseo “che vola con sandali alati”[9]. Subito dopo, tuttavia, ritratta l'allegoria (una “tentazione”[10]) chiarendo che “ogni interpretazione impoverisce il mito e lo soffoca”[11]. Precisa che la leggerezza implica bensì un “rifiuto della visione diretta [, ma] non un rifiuto della realtà”[12] tout-court.

Sfortunatamente, non approfondisce questo aspetto (dirimente): in che senso la leggerezza intratterrebbe un rapporto oppositivo ma di tipo indiretto con la realtà? Nel senso che genera metafore e simboli in grado di trasfigurare il mondo reale? O in virtù di qualche sua capacità di afferrare l'essenza, la struttura o il cuore della realtà, pur distanziandosene? Non ci viene detto. E tuttavia, poco dopo averci diffidato dall'interpretare i miti, ecco che Calvino ci sorprende con una nuova allegoria mitologica: dalle Metamorfosi recupera l'immagine di Perseo che — dopo averla uccisa — maneggia con delicatezza la testa mozzata della Medusa, deponendola su uno strato di foglie: “Nei momenti in cui il regno dell'umano sembra condannato alla pesantezza, penso che dovrei volare come Perseo in un altro spazio. Non sto parlando di fughe nel sogno o nell'irrazionale. Voglio dire che devo cambiare il mio approccio, devo guardare il mondo con un'altra ottica, un'altra logica, altri metodi di conoscenza e di verifica”[13].

Sarebbe interessante capire a cosa stia alludendo: in cosa consistono quest'ottica, questa logica e questi metodi altri, peculiari della leggerezza? Anche stavolta nessun chiarimento viene fornito, tranne uno: l'invito a seguire il metodo scientifico. La scienza, leggiamo, è una chiave che conduce alle “entità sottilissime: come i messaggi del DNA, gli impulsi dei neuroni, i quarks, i neutrini vaganti nello spazio dall'inizio dei tempi”[14].

Dobbiamo dunque fare come gli scienziati. Anche se è difficile scacciare il dubbio che Calvino stia affastellando mere suggestioni, ci si può concentrare su questa fragile pista, e in particolare su un punto: tra le scienze leggere, infatti, un ruolo peculiare sembra giocarlo l'informatica.

“La seconda rivoluzione industriale non si presenta [...] con immagini schiaccianti quali presse di laminatoi o colate d'acciaio, ma come i bits d'un flusso d'informazione che corre sui circuiti sotto forma d'impulsi elettronici”[15].

Quale significato dev'essere attribuito a questo passaggio? Calvino ha solamente fornito un esempio tra i tanti possibili di scienza 'leggera', o vuole dirci che nell'essenza di quella particolare scienza — l'informatica — si trovano gli elementi costitutivi del concetto di leggerezza? E perché mai parlare con tanta insistenza di scienza all'interno di una dissertazione letteraria?

Leggiamo ancora: “[L]a leggerezza è un modo di vedere il mondo che si fonda sulla filosofia e sulla scienza”[16]. Ciò lascerebbe supporre che, secondo Calvino, compito della letteratura sia conformarsi al metodo filosofico e scientifico. Scienza e filosofia orienterebbero la pratica letteraria, costituendone addirittura (parole sue) il fondamento. E' un punto che possiamo dare per acquisito? Non esattamente, dal momento che il capoverso citato si conclude con quest'altra affermazione, più sfumata: “[...] [L]a leggerezza è qualcosa che si crea nella scrittura, con mezzi linguistici che sono quelli del poeta, indipendentemente dalla dottrina del filosofo o dello scienziato che il poeta dichiara di voler seguire”[17]. E dunque?

Ricapitolando, si è dapprima affermato che la leggerezza consisterebbe nell'ispirare la scrittura al metodo di scienza e filosofia, ma poi si è concluso che la creazione letteraria impiega i mezzi affatto peculiari della scrittura e non quelli della scienza e della filosofia. Provando a conciliare le due affermazioni (e a meno di non voler postulare un'approssimazione lessicale insolita in una pagina di Italo Calvino) pare quasi che si stia avanzando un'idea di letteratura come prosecuzione della scienza e della filosofia con altri mezzi; un'idea che — se accolta — la ridurrebbe a puro epifenomeno di altri saperi. E come si potrebbero conciliare, metodo scientifico e creazione letteraria? La quadratura del cerchio, per Calvino, sembra essere rappresentata dai classici (Lucrezio e Ovidio[18]), la cui chiamata in causa somiglia tuttavia più ad una suggestione ab auctoritate che ad un argomento razionale a supporto di una qualche tesi.

Analoghi problemi d'interpretazione sollevano poi le declinazioni pratiche del concetto. Calvino ne elenca tre. La leggerezza si attua nella scrittura mediante: a) un alleggerimento del linguaggio (ottenuto attraverso parole e significati “senza peso” e di “rarefatta consistenza”); b) ragionamenti e processi psicologici “in cui agiscono elementi sottili e impercettibili” o astratti; e infine c) “immagini figurali” (cioè metafore) della leggerezza medesima[19]. (La prima e la terza esemplificazione innescano con ogni evidenza rimandi circolari: per ottenere leggerezza, si raccomanda l'uso un linguaggio leggero e immagini di leggerezza.)

Ma torniamo al punto in questione. Anche in assenza di una chiara definizione del termine, la domanda che vorremmo porre è la seguente: il nostro secolo necessita di maggiore leggerezza o non piuttosto di un correttivo nel senso della fisicità e della pesantezza? Restando su un piano figurato, è difficile sostenere che al giorno d'oggi i segni, i linguaggi, le nostre stesse vite siano oppresse da un eccesso di gravità, cioè dall'azione regolativa di forze centripete, di normazioni forti e principi d'ordine. E se usciamo di metafora, nell'epoca della smaterializzazione di tutto — atti, oggetti, relazioni — non possiamo dirci soffocati nemmeno dalla fisicità delle cose. La rivoluzione digitale punta semmai nella direzione opposta: verso la de-materializzazione, l'aumento dell'entropia, la liberazione di energie che rompano il maggior numero possibile di legami e accrescano il numero e la variabilità delle relazioni tra i punti del sistema. Si continua a parlare di società liquida, ma la verità è che siamo probabilmente già entrati in una società gassosa, composta di particelle in un perenne, sovreccitato moto browninano. In quali momenti soffriremmo per un difetto di leggerezza? Le informazioni che ci scambiamo circolano prive di supporti. Persino le nostre malattie virano dall'organico allo psichico. Le nuove forme di dipendenza (come le ludopatie) sono sine materia. Amori, viaggi, studi, si consumano attraverso immagini su uno schermo.

Non stiamo dicendo che Calvino avrebbe approvato tutto questo, né che il suo Perseo dai sandali alati immaginasse di spingersi tanto lontano. Ma, provocatoriamente: cosa c'era allora di sbagliato, nella profezia del “software che comanda”, delle macchine che “obbediscono ai bits senza peso”? Nulla. Tranne il calcolo delle conseguenze e dei costi della sua realizzazione.

Calvino ha previsto correttamente il futuro: qualunque cosa sia la leggerezza, nel terzo millennio (o quantomeno nella piccola frazione che ci è stato sin qui possibile vivere) essa è divenuta una costante di sistema. E non solo perché il nostro mondo è a tutti gli effetti popolato di oggetti che perdono materia e peso, ma perché (nella cultura come nella vita politica, nel linguaggio, nell'informazione e nelle relazioni interpersonali) la leggerezza si è fatta paradigma. Calvino forse non immaginava tutto questo. Come detto, si concentrava su dettagli localizzati, controllati e temporanei (il balzo di Cavalcanti, il volo di Perseo, le delicate epifanie lunari di Leopardi). Nondimeno, nei decenni seguiti alla sua morte, il processo si è radicalizzato, sopravanzando di gran lunga i suoi pronostici.

E' probabile che la rivoluzione digitale, osservata da lontano, apparisse a Calvino come una delle sue città invisibili: elegante, aeriforme, luminosa. In una parola: bella — una versione sublimata del mondo (greve e oscuro) delle cose pesanti.

Ma cos'è accaduto, quando i software e i bit hanno davvero scalzato il primato dell'hardware e dell'industria meccanica, aprendo la strada alla trasformazione digitale? Nel momento in cui è stato possibile non solamente ridurre, ma addirittura annullare il peso degli oggetti, commutando il mondo in flussi di pura informazione, ha avuto luogo un processo fondamentale su cui Calvino non si sofferma: i sistemi sociali hanno dovuto ridefinire — giocoforza — il concetto di realtà. Non è accaduto subito: in un primo momento l'informazione si è dedicata a riprodurre la realtà (sebbene in una forma idealizzata, plastica e perfettamente fungibile). Ma è stato solo l'inizio. La vera rottura, a livello di paradigma, è avvenuta con il passaggio successivo, che potremmo descrivere come il distacco del segno dal suo referente. Tra coloro che hanno più lucidamente colto questo salto e il suo valore epocale, figura il sociologo francese Jean Baudrillard.

Anni prima che Calvino sistemasse i suoi appunti per le Norton Lectures, Baudrillard scriveva: “Se abbiamo potuto considerare, come più bella allegoria della simulazione, la favola di Borges in cui i cartografi dell'Impero disegnano una carta così dettagliata che finisce per coprire con la massima precisione il territorio [...] ebbene, per noi questa favola è sorpassata [...]. Il territorio non precede più la carta, né le sopravvive. Ormai è la carta che precede il territorio [...] che lo genera; e, se si dovesse riprendere la favola, oggi sono piuttosto i brandelli del territorio che imputridiscono lentamente sull'estensione della carta. Qui e là sono vestigia del reale che sussistono, e non della carta, nei deserti che non sono più quelli dell'Impero, ma il nostro. Il deserto del reale stesso”[20].

Il simulacro immateriale ha dunque soppiantato il reale, con tutti i suoi enti dotati di massa e soggetti alla forza di gravità. Per illustrare tale cambio di paradigma, Baudrillard ha coniato il termine iper-realtà — un concetto che per certi versi rappresenta la nemesi della leggerezza calviniana.

L'iper-realtà è una simulazione che non ambisce più all'isomorfismo col reale (come ancora faceva la carta geografica di Borges), perché si è completamente affrancata da esso: “Che accade [...] quando questa distanza [...] fra il reale e l'immaginario, tende a scomparire, ad essere riassorbita a solo vantaggio del modello?”[21]. “I modelli non costituiscono più una trascendenza o una proiezione, non costituiscono più un immaginario in rapporto al reale [...], non lasciano più spazio ad alcun tipo di trascendenza immaginaria”[22]. “Il reale non può [più] sorpassare il modello, di cui non è che l'alibi”[23]. Baudrillard chiama questo 'modello', che non ha più bisogno di riferirsi ad alcuna realtà, simulacro del terzo ordine.

Oltrepassata la linea di faglia digitale, il mondo senza peso ha progressivamente esautorato il reale. Non ha creato una realtà diversa o migliorata: ha inaugurato un'epoca nella quale, di realtà, non c'è semplicemente più bisogno.

La mente corre a produzioni come Matrix dei fratelli Wachowski, ma il paragone è inesatto e Baudrillard lo ha ripetuto spesso (rifiutò per questo di collaborare alla realizzazione degli episodi 2 e 3 della saga[24]). Simili narrazioni, infatti, “considerano l'ipotesi del virtuale come un dato di fatto [...]. Ma la caratteristica di questo universo, è appunto il fatto che non si possono più utilizzare le categorie del reale per parlarne”[25]. Non c'è insomma alcuna dualità da svelare (come insinuava, con furbizia, il film): è rimasto solamente il simulacro.

Che relazione intercorre tra il peso degli oggetti e l'iper-realtà (in quanto universo di simulacri senza più referente)? Senza perderci in complicate teorizzazioni, sintetizziamo il nostro commento alla prima lezione con la rilettura di un passo di Martin Heidegger contenuto nel saggio L'origine dell'opera d'arte. Il passo è dedicato al dipinto di Van Gogh intitolato “Un paio di scarpe”.

“Un paio di scarpe da contadino e null'altro. Tuttavia... Nell'orificio oscuro dell'interno logoro si palesa la fatica del cammino percorso lavorando. Nel massiccio pesantore della calzatura è concentrata la durezza del lento procedere lungo i distesi e uniformi solchi del campo, battuti dal vento ostile. Il cuoio è impregnato dell'umidore e dal turgore del terreno. Sotto le suole trascorre la solitudine del sentiero campestre nella sera che cala. Per le scarpe passa il silenzioso richiamo della terra, il suo tacito dono di messe mature e il suo oscuro rifiuto nell'abbandono invernale.”[26].

Inutile rimarcare la forte connotazione materica e terrestre dell'oggetto analizzato da Heidegger (magari in parallelo con i sandali 'volanti' di Perseo che tanto avevano affascinato Calvino). In gioco però c'è molto più della funzione svolta da un oggetto. “L'opera d'arte ci ha fatto conoscere che cosa le scarpe sono in verità. [...] Il quadro di Van Gogh è l'aprimento di ciò che il mezzo, il paio di scarpe, è in verità”[27].

La verità, secondo Heidegger, si esprime qui nell'opposizione, e lo fa proprio resistendoci attraverso la pesantezza delle cose. Come la pietra. “La pietra è greve e denuncia così il suo pesantore. Ma questo pesantore, mentre ci si contrappone, ci rifiuta ogni penetrazione in esso”[28]. Pesantezza e refrattarietà, secondo l'autore di Essere e Tempo, sono dunque modi essenziali della verità. E la leggerezza? Può darsi verità anche al ridursi del peso? Forse sì, ma a patto che non si rinunci completamente al principio della pesantezza.

Purtroppo l'aurea medietà che caratterizzava la leggerezza di Calvino si rivela, una volta di più, nient'altro che una reverie intellettuale. Senza un saldo ancoraggio al suolo, il volo di Perseo si è trasformato sotto i nostri occhi in deriva, si è perso nella de-realizzazione e nel simulacro. Se si abolisce il centro di gravità, ogni traiettoria viene condannata a vagare in uno spazio senza alto né basso, e senza direzione — neppure quel barlume di orientamento che sarebbe necessario per sfuggire alla pesantezza del mondo.

Come Baudrillard aveva capito (e i fratelli Wachowski, a detta sua, fingevano invece di non capire), indietro non si può più tornare: non c'è pillola rossa che disconnetta il Matrix e restituisca cogenza al piano reale: il simulacro è altrove, e sfugge all'esame di realtà.

Secondo il filosofo francese Jacques Derrida, ripreso da Mark Fisher, noi vivremmo un'epoca spettrale, nella quale i fantasmi hanno preso il posto un tempo occupato dagli enti. Dallo studio dell'ontologia (la scienza dell'essere), dobbiamo passare a quello dell'hauntologia [29]: l'ambiguo sapere che riguarda le infestazioni, il permanere di ciò che non è più o l'anticiparsi di ciò che non è ancora — e che si disinteressa degli oggetti in quanto enti per dedicarsi alle ombre, alle reminiscenze e ai miraggi. “Oggi le cose perdono sempre più di significato: si sottomettono alle informazioni, che però nutrono sempre più i fantasmi: 'Non la cosa, ma l'informazione costituisce ciò che è economicamente, socialmente e politicamente concreto. Il nostro ambiente, a vista d'occhio, diventa sempre più soft, nebuloso, spettrale'”[30].

In questo paradigma dell'incorporeo, affollato di fantasmi come la sala da ballo dell'Overlook Hotel in Shining, sarebbe davvero fuori luogo invocare altra leggerezza. Proprio riferendosi al capolavoro di Kubrick, Fisher annota: “[G]li spettri che vivono in questo luogo non sono soprannaturali [...]. [S]oltanto quando abbiamo accantonato l'ipotesi dei fantasmi soprannaturali possiamo affrontare gli spettri reali. o gli spettri del Reale”[31]. Reale e spettrale si coappartengono.

Proviamo allora a tirare le somme. Ciò che definisce il nostro tempo, a seconda che si preferiscano le parole di Derrida o quelle di Baudrillard, sono la spettralità e il dominio dei simulacri del terzo ordine. In esso, razionalità critica e tensione creativa non si collocano dalla parte della leggerezza, ma da quella del peso: la sola forza davvero capace — nell'opposizione che esercita alla presa funzionalizzante del dato o del bit — di rivelarci l'autenticità dell'Essere. Tornando in metafora: le calzature di cui avvertiamo il bisogno non sono i sandali (sinceramente piuttosto kitsch) con i quali volava Perseo; sono gli scarponi, rotti e sporchi di terra, con i quali passeggiava Van Gogh.


(3- Continua)

NOTE

[1] Ibid., p. 5.
[2] Ibid., p. 13.
[3] Ibid., p. 16.
[4] Il tempo passato non si riferisce ovviamente alla linea del testo calviniano (nel quale la leggerezza precede la rapidità), ma all'ordine espositivo che abbiamo scelto.
[5] Ibid., p. 5.
[7] Ibid., pp. 5-6 (i corsivi sono miei).
[8] Ibid., p. 6.
[9] Ibidem.
[10] Ibidem.
[11] Ibidem.
[12] Ibid., p. 7.
[13] Ibid., p. 9.
[14] Ibidem.
[15] Ibid., p. 10.
[16] Ibid., p. 11 (il corsivo è mio).
[17] Ibid., p. 12 (i corsivi sono miei).
[18] Ibid., p. 11.
[19] Ibid., pp. 17-19.
[20] Jean Baudrillard, Simulacri e impostura, Pgreco (Roma) 2018, pp. 45-46.
[21] Jean Baudrillard, Cyberfilosofia, Mimesis (Milano) 2010, p. 8.
[22] Ibid., p. 9.
[23] Ibid., p. 10.
[24] Cfr. Ibid., p.41, n.1.
[25] Ibid., p. 42. Per essere precisi, Baudrillard si riferisce tanto ai registi di Matrix, quanto agli artisti della cosiddetta simulationist school (cfr. Ibid., p. 42, n. 3).
[26] Martin Heidegger, Sentieri interrotti, La Nuova Italia (Scandicci, Firenze) 1984, p. 19. Accentuando la metafora 'gravitazionale' sottesa a questo passaggio, scrive ad esempio Draga Rocchi: “L'assenza di peso contribuisce ad accrescere il movimento irrefrenabile dell'affaccendarsi quotidiano, favorendo la possibilità drammatica di restare in superficie e di eludere costantemente il rapporto che l'individuo dovrebbe avere col proprio essere nel prendersi cura quotidiano” (da D. Rocchi, Heidegger e la chiacchiera, in “Azioni parallele”, https://www.azioniparallele.it/24—luoghi—non—troppo—comuni/luoghi—saggi/116—heidegger—e—la—chiacchiera.html ).
[27] Martin Heidegger, Op. Cit., p. 21.
[28] Citato in Byung-Chul Han, Nello sciame, Nottetempo (Roma) 2015, p. 73 (d'ora in poi: NS).
[29] Cfr. Mark Fisher, Spettri della mia vita. Scritti su depressione, hauntologia e futuri perduti, Minimum Fax (Roma) 2019, pp. 30 e sgg (d'ora in avanti: SMV).
[30] Byung-Chul Han, NS, p. 73.
[31] Mark Fisher, SMV, p. 171.


Antonio Donghi, Il giocoliere, 1936.

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