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Calvino e l’utopia capovolta.
Come il terzo millennio ha smentito le Lezioni americane
Parte quarta. Esattezza (e Coerenza) [Parte terza]

di Lorenzo Lasagna

22 aprile 2020



L’esattezza è l’unico tra i temi scelti da Calvino a designare una funzione di ordine marcatamente cognitivo. Ad essa si sarebbe aggiunta la coerenza, che però come sappiamo non venne mai scritta.

In apertura di una lezione che si rivelerà nel suo complesso piuttosto inesatta, Calvino prova a fornirci la sua definizione di esattezza:

“Esattezza vuol dire per me soprattutto tre cose:
1) un disegno dell’opera ben definito e ben calcolato
2) l’evocazione di immagini visuali nitide, incisive, memorabili; in italiano abbiamo un aggettivo che non esiste in inglese, “icastico”, dal greco ϵἰκασνικὀϛ
3) un linguaggio il più preciso possibile come lessico e come resa delle sfumature del pensiero e dell’immaginazione”[1].

Come lo stesso Calvino riconoscerà più avanti, la conferenza prende subito una strana piega, perché vengono portati al lettore esempi talmente nebulosi e contraddittori, da costringere il conferenziere ad una serie di complicati aggiustamenti, nel tentativo di far aderire opere e autori al concetto designato, attraverso quello che apparirà come un vero e proprio tour de force argomentativo. Il primo esempio riguarda Leopardi, poeta del vago e dell’indeterminato, che Calvino arriva a presentare come esponente di un’esattezza ‘di secondo grado’, per il fatto che professerebbe un’idea in fin dei conti molto precisa di imprecisione. Con le migliori intenzioni, è una tesi che suona inevitabilmente forzata, come tutte le dimostrazioni a contrariis [2]. Anche citando Musil Calvino riesce tutt’al più a dimostrare l’ovvia verità che nella grande letteratura esiste sempre un’incessante dialettica tra vaghezza ed esattezza, e che i due estremi del continuum si richiamano e si implicano vicendevolmente. Le cose vanno un po’ meglio con Paul Valery e soprattutto con Edgar Allan Poe; ma l’arringa in favore dell’esattezza risulta nel complesso talmente debole, che a metà della lezione Calvino sente il bisogno di effettuare quello che in gergo sportivo si definirebbe un time-out, cioè una pausa tecnica, e candidamente ammette:

“Questa conferenza non si lascia guidare nella direzione che mi ero proposto. Ero partito per parlare dell’esattezza, non dell’infinito e del cosmo. [...] Forse piuttosto di parlarvi di come ho scritto quello che ho scritto, sarebbe più interessante che vi dicessi i problemi che non ho ancora risolto, che non so come risolverò e cosa mi porteranno a scrivere. Alle volte cerco di concentrarmi sulla storia che vorrei scrivere e m’accorgo che quello che m’interessa è un’altra cosa, ossia, non una cosa precisa ma tutto ciò che resta escluso dalla cosa che vorrei scrivere [...]” [3].

Al termine di questa ammissione così confusa (tanto più confusa se si pensa che il tema in discussione è l’esattezza [4]), Calvino decide di scendere in campo in prima persona, citando un (bellissimo) passo delle Città invisibili. È un’intromissione che se non altro gli permette di ritrovare il bandolo della matassa.

“Dal momento in cui ho scritto quella pagina mi è stato chiaro che la ricerca dell’esattezza si biforcava in due direzioni. Da una parte la riduzione degli avvenimenti contingenti a schemi astratti con cui si possano compiere operazioni e dimostrare teoremi; e dall’altra parte lo sforzo delle parole per rendere conto con la maggior precisione possibile dell’aspetto sensibile delle cose” [5], “un adeguamento minuzioso dello scritto al non scritto” [6]. I due movimenti, complementari, corrispondono ad un doppio impulso: razionale/intellettuale ed empirico. Sebbene Calvino li definisca “divergenti”, ciò che accomuna i due impulsi è la convinzione che il mondo sia costituito di oggetti (cose), legati tra loro da schemi e regole razionalmente indagabili e conoscibili.

L’esattezza, conclude, è una metaforica “battaglia col linguaggio per farlo diventare il linguaggio delle cose, che parte dalle cose e torna a noi carico di tutto l’umano che abbiamo investito nelle cose” [7].

Siamo al punto. Nonostante l’ultima, ambigua, affermazione circa la loro umanità (o umanizzazione), comprendiamo che l’esattezza è proprio questo: ‘il linguaggio delle cose’. Esatta è una significazione aderente alle cose, che ne sappia cogliere tanto le distinzioni particolari, quanto gli schemi generali ed astratti. È sempre Claudio Giunta, citato nel primo dei nostri articoli, a rimarcare il fatto che tra i limiti dell’ultima opera di Calvino figuri questa attitudine: il trattare (lui aggiunge: abusivamente) “le parole come cose” [8]. È una sorta di realismo ingenuo del linguaggio, appena appena nascosto sotto una patina di strutturalismo e di romanticismo [9]. A questa semplificazione ne aggiungeremmo una seconda: una fallacia meccanicistica, in base alla quale la realtà oggettiva viene descritta come un insieme di elementi discreti, che si possono suddividere (analisi) oppure unire tra loro (sintesi), per formare un tutto corrispondente alla somma delle parti. È il doppio movimento che Calvino suggeriva poc’anzi: questo grosso modo il quadro teorico del concetto in esame.

Vediamo, per contro, quale destino è invece toccato all’esattezza nel terzo millennio.

Anzitutto, dobbiamo riconoscere che una volta di più Calvino aveva visto giusto: il nostro secolo ha sancito l’affermazione (negli ambiti decisivi della tecnologia, dell’economia e del governo delle società) di un linguaggio di tipo razionale e matematico, articolazione di un modello di pensiero che gli studiosi chiamano computazionale, e che ha la sua ratio nella riduzione del reale a uno schema di elementi posti in relazioni formali tra loro. È il linguaggio, per intenderci, che sta alla base della rivoluzione informatica e digitale (del resto, questo significa letteralmente ‘computer’: colui che computa): un linguaggio che opera esclusivamente su oggetti discreti chiamati dati, i quali vengono processati mediante sequenze di operazioni chiamate algoritmi.

Nell’intervista che abbiamo citato a proposito della leggerezza, Baudrillard fa riferimento anche al concetto di esattezza, che chiama in causa mediante un sinonimo (‘perfezione’). L’idea di Baudrillard è che “più un sistema si avvicina alla perfezione, più si avvicina alla irregolarità totale” [10]. Cosa significa?

L’irregolarità di cui parla Baudrillard è una categoria politica. La sua è perciò principalmente un’obiezione valoriale: un sistema (sociale o linguistico) perfetto, ha il limite a detta sua di essere autovalidante, nel senso che non richiede (anzi: non consente) alcuna valutazione e non permette alcuna possibile alternativa; cioè annulla ogni funzione critica. All’esattezza “non c’è alternativa”, avrebbe detto Mark Fisher citando in senso polemico Margareth Thatcher e il capitalismo neoliberista.

Ci sono tuttavia critiche al pensiero computazionale che — prima di connotarsi come politiche — ne pongono in discussione gli statuti teorici. Sono quelle che ci interessano qui.

James Bridle, giornalista ed esperto di tecnologia, si è dedicato ad analizzare l’impatto che la logica computazionale ha avuto sulla società contemporanea. Nel suo Una nuova era oscura (il titolo riecheggia HP Lovecraft), identifica il pensiero computazionale nella credenza che “un qualunque problema possa essere risolto grazie al mero calcolo”. Esso presuppone “che il mondo sia realmente come lo vogliono i soluzionisti”, al punto che “diventa impossibile concepire o articolare il mondo in termini non computabili” [11]. “Ciò che è possibile diventa ciò che è computabile. Ciò che è difficile quantificare o complicato da modellare, tutto ciò che non è mai stato visto prima o che non può essere localizzato all’interno di uno schema prestabilito, ciò che è incerto o ambiguo, viene escluso dal reame dei futuri possibili. La computazione proietta un futuro che è identico al passato — il che la rende incapace di gestire la realtà del presente, instabile per definizione” [12]. Bridle arriva così a suggerire una contro-alfabetizzazione che definisce ‘sistemica’: ciò che occorre è “un pensiero che si occupa di ciò che non è computabile” [13]. Anch’egli si rifà alla mitologia greca: “La figura del dio Hermes, portatore del linguaggio e del discorso, insiste sull’ambiguità e sull’incertezza che permeano ogni cosa [corsivi miei]. Un’ermeneutica, una comprensione ermetica della tecnologia [corsivo dell’autore], deve tenere conto dei propri errori sottolineando costantemente che la realtà non è mai semplice, che esiste sempre un significato ulteriore al significato, che possono esistere risposte multiple, contestabili e potenzialmente infinite” [14].

Si tratta abbastanza scopertamente di un programma antitetico a quello enunciato da Calvino, un programma finalizzato a una comprensione dei significati che vada oltre le cose e i loro schemi di funzionamento.

“Non ci è dato comprendere il tutto, ma restiamo capaci di pensarlo. La capacità di pensare senza pretendere (né tantomeno cercare) di comprendere ogni cosa è essenziale alla sopravvivenza” [15]. Si domanda infine Bridle, con intonazione quasi misticheggiante: “Siamo in grado di soppiantare il basilare pensiero computazionale con un pensiero nebuloso che contempli la non conoscenza e la trasformi in pioggia feconda?” [16].

I tentativi di costruire su nuove basi un rapporto tra l’uomo e la realtà sono però molteplici.

Negli ultimissimi anni del ventesimo secolo, una nuova corrente filosofica si era lentamente fatta largo negli ambienti accademici anglosassoni, dai quali è poi fuoriuscita per affermarsi nel dibattito internazionale: stiamo parlando del realismo speculativo. Tra le categorie nate all’interno questa linea di pensiero (tesa al superamento di ogni forma di idealismo e ad una nuova scienza radicale degli enti) spicca tra le altre quella di iperoggetto, proposta dal filosofo inglese Timothy Morton. Gli iperoggetti sono “entità diffusamente distribuite nello spazio e nel tempo. Un iperoggetto può essere un buco nero. [...] Un iperoggetto può essere la biosfera o il sistema solare. Un iperoggetto può essere tutta la somma complessiva di tutto il materiale nucleare presente sulla Terra, o semplicemente il plutonio, o l’uranio. [...] Gli iper-oggetti, dunque, sono ‘iper’ in relazione a qualche altra entità, siano essi costruiti direttamente dagli esseri umani oppure no” [17]. A partire da questa riflessione Morton ambisce a ridefinire la relazione tra il genere umano e l’universo che lo circonda.

L’esame degli assunti alla base della teoria degli iperoggetti esula dall’argomento di questo articolo. A noi preme unicamente rilevare come la loro natura, sul piano ontologico, confligga apertamente con l’orientamento lineare e meccanicista (e anche umanistico) che Calvino esprimeva nella suddivisione del tutto in parti, e poi nella ricomposizione delle parti in un tutto. Gli iperoggetti sono la negazione di questo schema: “Sono viscosi, ovvero si ‘attaccano’ alle entità con le quali sono in relazione. Sono non-locali: ciascuna ‘manifestazione locale’ di un iperoggetto non è, direttamente, l’iperoggetto stesso”. Sono poi graduali (“occupano lo spazio multidimensionale delle fasi e sono pertanto invisibili in determinati lassi temporali”), e interoggettivi: non esistono “in funzione della nostra conoscenza”, sono “iper in relazione a vermi, limoni e raggi ultravioletti tanto quanto agi esseri umani” [18].

“La non località degli iperoggetti scova e distrugge tutte le dinamiche figura-sfondo che costituivano i mondi umani [...]. E come un sipario increspato dal vento, l’intersoggettività fluttua di fronte agli oggetti, una zona demoniaca di illusioni ingannevoli, un sintomo della Crepa tra essenza e apparenza” [19].

Stiamo suggerendo che il realismo speculativo confuti Calvino? Naturalmente no. Ma chiarisce il limite teorico dell’approccio meccanicista e strutturalista che informava la sua idea di esattezza, e attua una potente svolta ontologica, giocata sul connubio apparentemente paradossale tra realismo e non-oggettività. Una torsione che rende il ragionamento di Calvino fatalmente datato, fin de siècle.

Anche sul fronte dell’esattezza, insomma, sembra sensato affermare che Calvino sia stato un buon profeta ma un cattivo critico sociale: ha infatti proposto come fondante un valore che molti critici del XXI Secolo giudicano quantomeno 'sospetto', e non ha ipotizzato che il relativo contro-valore potesse affermarsi come nuovo paradigma.


BREVE POSTILLA

Non sapremo mai cosa avrebbe voluto dirci Calvino a proposito della coerenza. Sappiamo solo, sulla base di quanto asserisce Esther Calvino, che avrebbe svolto il tema attraverso alcuni riferimenti a Bartleby lo scrivano di Melville [20].

La storia dell’impiegato renitente raccontata dall’autore di Moby Dick ha catturato di recente l’attenzione di importanti commentatori (si pensi solo a Gilles Deleuze e Giorgio Agamben) [21]. Tuttavia, troviamo difficile associare il personaggio di Bartleby (caratterizzato dall’ossessivo ritornello ‘preferirei di no’) all’idea di coerenza — se non forse alla sua forma più meccanica: l’irremovibilità. ‘Preferirei di no’, tuttavia, non è semplicemente una frase ripetuta senza variazioni, ma una proposizione che si colloca su un piano di realtà incerto (ipotetico? condizionale? positivo e negativo insieme?), un piano ontologicamente ambiguo (come affermano sia Deleuze che Agamben) che associa verità e non verità, volizione e scacco, intenzionalità e catatonia. A essere pignoli, l’opposto della coerenza per come viene definita in qualunque dizionario.

Nello stesso modo in cui ha negato il valore dell’esattezza, la filosofia degli iper-oggetti ha posto le basi anche per il superamento della coerenza: “Per esistere, un oggetto non deve riuscire a coincidere totalmente con se stesso. [...] L’esistenza non è consistenza, ma fragile inconsistenza. Ogni oggetto esibisce la sua inconsistenza ontologica, ma gli iperoggetti la rendono fin troppo palese” [22]. Per capirci, il titolo inglese della sesta lezione era (sarebbe stato) proprio Consistency [23].

Ancora una volta è Baudrillard, in una conferenza del 1980 (cioè cinque anni prima che Calvino completasse i suoi appunti americani), a gettare sul concetto una luce problematica. Non è la coerenza a tenere in piedi i sistemi, ma ciò che esula e sfugge, e che trova rifugio fuori del sistema, negandone l’organizzazione interna. Quando la realtà acquisisce le proprietà di un sistema intrinsecamente coerente a auto-riferito, crolla. “Il coefficiente di realtà è proporzionale alla riserva di immaginario” che la realtà stessa non può assimilare. La “coerenza interna di un universo”, conduce infatti ad un’“emorragia di realtà” e all’“iper-reale” della “simulazione” [24]. Mentre il reale, come ha spiegato Lacan, non coincide con la realtà, ma si lega strettamente ai livelli (fondamentali in termini di equilibrio psichico dell’individuo) dell’immaginario e del simbolico.


(4- Continua)

Note
[1] LA, p. 57.
[2] L’analisi di questa tesi formulata da Calvino su Leopardi ci porterebbe lontano. Basti qui una semplice annotazione: il fatto che la poetica dell’indeterminato (quasi per paradosso) richieda l’utilizzo di strumenti di elevata precisione è in linea di massima vero, ma questa constatazione sposta il baricentro di tutto il ragionamento dal piano poetico a quello della tecnica del poetare, e inclina comunque verso un’interpretazione meta-testuale. Non è un salto da poco, e implica conseguenze rilevanti che andrebbero considerate (anche solo in termini di statuti formali dell’opera) ben al di là delle semplici suggestioni terminologiche.
[3] LA, p. 67.
[4] È difficile non concordare almeno in parte col severo giudizio espresso da Claudio Giunta (cfr. Op. cit., p. 1) a proposito dello stile argomentativo delle Lezioni: "Le Lezioni americane sono un libro inesatto [...] [N]on c’è solo l’inesattezza che riguarda questa o quella affermazione, questa o quella tesi, sicché basterebbe correggere i dettagli perché l’insieme acquisti coerenza. Inesatto, sfocato, può essere il modo stesso di argomentare, di costruire il discorso, e allora non c'è correzione che tenga, e non è segno di pedanteria il farlo osservare. Mi pare che questo sia appunto il caso".
[5] LA, p. 72. Corsivi miei.
[6] LA, p. 72.
[7] LA, p. 74. Corsivo mio.
[8] C. Giunta,Op. cit. , p. 3.
[9] Calvino stesso dice che si tratta di movimenti imperfetti: perché le lingue naturali sono sempre corrotte dal rumore “che disturba l’essenzialità dell'informazione” e perché il linguaggio che censisce le cose si rivela “incompleto”, “lacunoso” e fallace (LA, p. 72). Come si vede, il problema non concerne qui tanto la realtà, quanto il linguaggio che cerca di descriverla. Se ne deduce che l’esattezza rappresenta una sorta di limite ideale cui il linguaggio tende, senza mai poterlo raggiungere.
[10] J. Baudrillard, C, p. 45.
[11] Questi passi sono tutti tratti da J. Bridle, Una nuova era oscura, Nero, Roma 2019, p. 12.
[12] Ivi, p. 55. I corsivi sono miei.
[13] Ivi, p. 12.
[14] Ivi, p. 152.
[15] Ivi, p. 14.
[16] Ivi, p. 17.
[17] T. Morton, Iperoggetti, Nero, Roma 2018, p. 11.
[18] Questi passi sono tutti tratti da T. Morton, Op. cit., p. 11. Corsivi dell’autore.
[19] Ivi, p. 255.
[20] L’osservazione è riportata nella prefazione di Esther Calvino all’edizione citata delle Lezioni americane. Le pagine della prefazione non recano numerazione.
[21] I saggi sono pubblicati in Italia nel volume G. Deleuze e G. Agamben, Bartleby, la formula della creazione, Quodlibet, Macerata 1993.
[22] T. Morton, Op. cit., pp. 253-4.
[23] Che Calvino ne fosse consapevole o meno, è un dato di fatto che il termine inglese con cui egli tradusse la parola italiana 'coerenza' abbraccia anche il campo semantico della consistenza, della densità e della compattezza.
[24] Cfr. il breve saggio Tre ordini di simulacri, ripubblicato in J. Baudrillard, Cyberfilosofia, Mimesis, Milano-Udine 2010, p. 11. Per le implicazioni del concetto di iper-realtà, si veda il nostro articolo precedente.



Felice Casorati, Gli scolari, 1927-1928.

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