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Calvino e l’utopia capovolta.
Come il terzo millennio ha smentito le Lezioni americane
Parte prima. Rapidità [Parte seconda]

di Lorenzo Lasagna

20 gennaio 2020



Premessa

Per un lungo periodo della mia vita ho amato profondamente Italo Calvino. Erano gli anni del liceo e — per citare Borges — ai miei occhi Calvino rappresentava la letteratura, il modello perfetto al quale ogni autore e ogni opera dovrebbero tendere. Come spesso accade, crescendo ho maturato un sereno distacco verso i modelli letterari della mia adolescenza e verso l’idea stessa di letteratura, al punto che oggi sento di potermi accostare ai suoi scritti col dovuto rispetto, ma senza alcuna soggezione.

L’ultima opera (semicompiuta) di Italo Calvino è la raccolta di saggi data alle stampe col titolo di Lezioni americane [1]: si tratta in sostanza di appunti, ordinati dal loro autore in previsione di un ciclo di docenze che si sarebbero dovute svolgere presso l’Università di Harvard. Come noto, la morte impedì a Calvino di tenere quelle lezioni, e a noi restano solo le cartelle che aveva preparato.

Un po’ per la loro natura postuma, un po’ per il loro contenuto futuristico, le Lezioni vengono generalmente considerate il testamento intellettuale dello scrittore ligure: si basano su cinque figure o metafore (la sesta non poté essere sviluppata), e sono concepite come altrettanti suggerimenti rivolti agli uomini del nuovo Millennio, che all’epoca distava appena tre lustri [2]. Le figure cui Calvino diede forma sono: leggerezza, rapidità, visibilità, molteplicità ed esattezza. Quella che non venne mai scritta è la coerenza.

In un certo senso, le Lezioni sono tra gli ultimi esempi disponibili di critica culturale modernista: il futuro di cui ci parlano è un tempo tutto sommato desiderabile, per orientarsi nel quale sembrano bastare pochi principi ragionevoli, nei quali (come in ogni coerente paradigma umanistico) etica ed estetica finiscono idealmente per coincidere. Potremmo quasi definirle come la tarda modernità immaginata da un moderno.

Da quasi tutta la critica contemporanea e posteriore, le Lezioni americane vengono trattate alla stregua di profezie, nelle quali si esprime un’acuta percezione del futuro cui eravamo destinati (divenuto nel frattempo il nostro presente), e in filigrana persino qualcosa in più: un insieme di regole o canoni [3] da applicare, per rendere buono e prospero il tempo a venire.

Ligio al compito dell’intellettuale progressista, Calvino non era sfiorato da eccessivi dubbi circa una possibile eterogenesi dei fini, vale a dire il rovesciamento dei propri auspici in una costellazione distopica o in un assetto sociale disfunzionale. Per di più, lo slancio che traspare dalle sue considerazioni è spontaneo e accorato, e suscita nel lettore un immediato favore: del resto, come si potrebbe respingere tanta confidenza e un così rassicurante annuncio, nel quale anche gli ammonimenti più severi assumono un tono paterno e, in fondo, edificante?

Non mi risulta che le Lezioni americane siano state sottoposte al vaglio di una critica retrospettiva per quanto riguarda il loro valore, diciamo così, di cultural theory [4]. Se ne parla invariabilmente con deferenza [5], come di profezie avverate (il che, in un certo senso, è innegabile); tuttavia poco o niente si dice sul significato del loro inveramento. Eppure sarebbe oggi difficile ignorare l’intrinseca ambivalenza di quegli auspici: la rapidità ha dispiegato solamente effetti liberatori, o ha generato anche nuove, epocali forme di disagio (e persino nuove patologie)? La visibilità è un vettore di conoscenza o non piuttosto la condizione per attuare un controllo pervasivo e illimitato? La leggerezza è levità o inconsistenza? E così via.

In molti passaggi delle Lezioni, Calvino spiega che la scelta di una metafora non implica il rifiuto della metafora opposta, ed anzi: sottolinea che esiste una complementarietà tra ognuna di esse e il proprio contrario [6]. A ben vedere, però, la sua è una difesa debole e non del tutto centrata. L’obiezione che un uomo del Terzo Millennio oggi potrebbe rivolgergli, non riguarda tanto la dignità delle opzioni complementari, ma l’effettiva desiderabilità delle opzioni primarie. Alzi la mano chi non ritiene che il trionfo della rapidità, della visibilità e dell’esattezza (ad esempio nella riduzione di ogni esperienza a dato) sia alla base di molte distorsioni che affliggono le nostre vite. O chi non vede nella molteplicità un pallido simulacro dei concetti di pluralità e differenza cui la tarda modernità inneggiava. Eppure di simili timori, nel lascito calviniano, non sembra esservi traccia.

Ci è parso dunque che valesse la pena riprendere le 'cinque metafore e mezza' di Italo Calvino, per problematizzarle al di là di una loro ricezione laudatoria [7]. Sottoporle a critica, insomma, come si dovrebbe fare con tutte le previsioni e in definitiva con tutte le analisi di fenomeni e di processi socioculturali.

Naturalmente l’intento — ammesso che possa cogliere nel segno — non è sminuire il valore delle intuizioni di Calvino, ma collocarle entro una corretta dinamica interpretativa.

Un’avvertenza: nell’esaminare le sei figure (dell’ultima, giocoforza, daremo un’interpretazione presuntiva) non ci atterremo all’ordine delle Lezioni, ma ne seguiremo un altro leggermente sfalsato, che a nostro avviso meglio si presta a collegarle in un discorso coerente.


Rapidità

Nella seconda lezione americana Calvino parla della rapidità. Sarà il nostro punto di partenza, perché tra le sei categorie in elenco la rapidità sembra quella in grado di definire nel modo più netto e sostanziale l’epoca che attraversiamo.

Il sociologo Hartmut Rosa è convinto che l’intera modernità possa essere concepita come un processo di accelerazione sociale [8]. Difficile — anche limitandosi al senso comune — pensarla diversamente. Tra i caratteri definitori che sceglieremmo per raccontare il nostro tempo ad un ipotetico interlocutore del diciannovesimo secolo, figura certamente l’aumento vertiginoso della velocità alla quale avvengono oggi gli spostamenti di persone e di merci, e gli scambi di informazioni e di denaro. Calvino non visse certo agli albori di questo mondo in progressiva accelerazione: già gli anni del secondo dopoguerra e del boom economico avevano fatto segnare un deciso scatto in questa direzione, e alcune sue opere narrative raccontano lucidamente lo spaesamento e la ristrutturazione dei rapporti sociali che ne derivarono (si pensi a La nuvola di smog o a Marcovaldo ovvero le stagioni in città). Nel tardo ventesimo secolo, i processi che avevano inaugurato la terza e la quarta rivoluzione industriale erano già sotto gli occhi di tutti, al punto che i costi (umani e morali) di quella trasformazione costituivano argomento del sentire comune (ad esempio nella canzone pop, nel cinema e nella televisione, oltre che nella comunicazione pubblicitaria). Nessuna particolare qualità profetica era dunque necessaria per immaginare — nel 1985 — un terzo millennio all’insegna della velocità.

Per questa come per tutte le altre lezioni, tuttavia, il punto in questione non riguarda la correttezza delle previsioni formulate, ma le loro implicazioni e il loro effettivo significato.

Anzitutto, osserviamo come Calvino possieda un’idea essenzialmente calligrafica, della velocità, e la presenti al lettore come vera e propria forma stilistica. Nella seconda lezione si legge: “Un ragionamento veloce non è necessariamente migliore d’un ragionamento ponderato; tutt’altro; ma comunica qualcosa di speciale che sta proprio nella sua sveltezza” [9]. La frase è oscura, come quasi tutti i passaggi-chiave delle Lezioni. Ma è certo che la 'speciale qualità' evocata non appartiene agli ambiti logico o funzionale: essa è semplicemente un effetto. Un effetto, lo vedremo tra poco, che presuppone l’esercizio di una tecnica.

Curiosamente, col procedere degli esempi, la rapidità sembra interessare Calvino come fenomeno circoscritto e soggettivo, e mai come caratteristica di un sistema o come risultante dell’interazione oggettiva di più elementi. Ad essere rapido è sempre un singolo atto, un singolo pensiero: un gesto di scrittura, ad esempio, o un ragionamento che si staglia su un fondale fermo (o molto lento). La velocità, dunque, è per lui un attributo personale, riferibile alla bravura di un autore nello staccare figure da uno sfondo e farle muovere. Come vedremo tra poco, questa caratteristica avrà un’importanza decisiva per il valore della previsione formulata da Calvino.

Dicevamo che in questa lezione, come nelle altre, lo schema argomentativo è dichiaratamente ambivalente: Calvino tesse le lodi della rapidità, ma riconosce e apprezza per contro l’importanza dell’indugio, della digressione e del controtempo [10]. Talvolta (ad esempio nel riferimento alla coppia mitologica costituita da Mercurio e Vulcano [11], la rapidità e la lentezza) egli si spinge a raccomandare un atteggiamento temperante, equidistante tra le due polarità, e un sapiente oscillare tra due prospettive: l’attesa e l’affondo. Questo sembra essere anche il senso dell’apologo finale [12], nel quale il pittore Chuang-Tzu, ricevuto l’incarico di disegnare un granchio da parte del re, si concede dieci anni di attesa, per poi realizzare la sua opera in modo perfetto “in un istante, con un solo gesto” [13].

Ma al di là degli espedienti e delle ambiguità, è chiara la preferenza di Calvino per tutto ciò che appare non solamente rapido e fulmineo, ma anche breve: “Certo la lunghezza o la brevità del testo sono criteri esteriori, ma io parlo di una particolare densità che, anche se può essere raggiunta pure in narrazioni di largo respiro, ha comunque la sua misura in una singola pagina” [14]. La rapidità non ambisce a coprire grandi distanze, anzi: si esaurisce in spazi limitati. E’ insomma una proprietà micrologica, di dettaglio: “Nei tempi sempre più congestionati che ci attendono, il bisogno di letteratura dovrà puntare sulla massima concentrazione della poesia e del pensiero” [15].

Calvino evoca una scrittura brevilinea, puntiforme: la qualità profetica dello spunto è indubitabile, dal momento che oggi la maggior parte dei testi scritti in circolazione possiede proprio le caratteristiche formali qui immaginate. E’ stato addirittura detto che a metà degli anni ottanta Calvino avesse previsto e anticipato la lingua — contratta, rapsodica, frammentaria — del ventunesimo secolo. Può essere. Ma — ciò che qui importa — non ne ha certo compreso l’essenza profonda, e neppure ha colto quei pericoli di svuotamento, semplificazione e irrilevanza che erano connaturati al linguaggio della rapidità [16].

Analizziamo le altre qualità della rapidità calviniana. Essa è qualcosa di elegante, anzitutto, e negli esempi portati fa riferimento come si diceva a una capacità tecnica: quella dello scrittore che sa come avvincere il lettore e suscitare in lui meraviglia e sorpresa [17]. Non ha le proprietà cinetiche della parola futurista, ma possiede invece la morbidezza di un passo di danza o di un’evoluzione equestre: “La novella è un cavallo: un mezzo di trasporto, con una sua andatura, trotto o galoppo, secondo il percorso che deve compiere, ma la velocità di cui si parla è una velocità mentale. [...] A ben vedere, anche nella proprietà stilistica si tratta di prontezza di adattamento, agilità dell’espressione e del pensiero” [18].

Perché, dobbiamo domandarci, tessere un elogio della rapidità? Leggendo tra le righe sembra di capire che, qui come altrove, Calvino sia mosso in primo luogo da una preferenza estetica, di sapore quasi ariostesco: “La rapidità dello stile e del pensiero vuol dire soprattutto agilità, mobilità, disinvoltura; tutte qualità che s'accordano con una scrittura pronta alle divagazioni, a saltare da un argomento all'altro, a perdere il filo cento volte e a ritrovarlo dopo cento giravolte” [19].

Ciò su cui Calvino non sembra riflettere in modo adeguato è il rapporto tra figura e sfondo. Intuisce, come si è detto, che tutto in futuro sarà più veloce, ma non si preoccupa di calcolare le conseguenze di questa accelerazione. Il fenomeno è ben noto ai sociologi, che lo descrivono come una relazione incrociata tra accelerazione e crescita (l’effetto di saturazione del sistema): se la curva di accrescimento della velocità delle azioni umane (ad esempio lo scrivere o il produrre segni) è sopravanzata da un accrescimento ancora più rapido dei processi (e del 'numero di cose da fare' nella medesima unità di tempo), l’effetto complessivo è tale da rendere sempre meno efficace l’accelerazione in quanto tale [20]. In termini assoluti siamo tutti molto più veloci di un tempo, ma in termini relativi la nostra velocità è stata surclassata (e in alcuni casi vanificata) da quella del sistema.

Per essere rapidi in un mondo analogico potevano bastare eleganza e maestria. Ma in un contesto che ha accresciuto esponenzialmente la propria velocità inerziale, agire e pensare in modo rapido ci spinge inesorabilmente al parossismo, specialmente se la curva di accelerazione è stabilita dal funzionamento di strumenti che — per loro stessa natura — eccedono la nostra capacità di rimanere al passo: ed è esattamente quanto sta accadendo in seguito alla rivoluzione digitale.

Il sogno di Calvino era quello di chi — trentacinque anni orsono — prediligeva (e fuor di dubbio coltivava) un linguaggio vivo e mutevole in un ambiente semantico ancora relativamente in quiete, e poteva pensare che anche in futuro quelle capacità sarebbero risultate decisive (del resto, le due citazioni più rigorose su questo tema rimandano a due classici della modernità pre e proto-industriale: Galileo e Leopardi [21]). Ma la situazione in cui ci troviamo oggi è molto diversa: annaspiamo in un cosmo impazzito come negli istanti dopo un big bang, trascinati ad una velocità che ci ha fatto perdere ogni riferimento, e che non consente manovra ma unicamente un passivo e quasi disperato rimanere in scia. Solo un linguaggio macchinale, algoritmico, al limite della percezione, potrebbe oggi battere in velocità il sistema inerziale di cui siamo parte. E se anche riuscissimo ad agire ad una simile velocità, il senso dei nostri atti verrebbe consumato e cancellato in un batter d’occhio. Quanto durano i significati in una società iperaccelerata? A questa domanda Calvino non dà risposta.

Qualche anno prima che Calvino preparasse le Norton Lectures, il regista russo Andrej Tarkovskij enunciava un principio non tanto complementare, quanto opposto alla rapidità di cui disserta Calvino. Se volessimo ricondurlo a categoria (cosa che Tarkovskij non fece, diffidente com’era verso ogni filosofia), potremmo definirlo un principio di originarietà del tempo. Nelle sue lezioni di regia, negli scritti e negli appunti che ci ha lasciato, Tarkovskij lo dice spesso: l’arte (il cinema, nel suo caso) consiste nella capacità di dare forma al tempo. Sebbene non esista un’esposizione lineare di questo concetto, né una definizione precisa dei termini implicati, possiamo provare a visualizzarlo come una ricezione del tempo nelle immagini. Si tratta di un atto creativo nel quale le facoltà attive (lo scolpire) e quelle passive (il ricevere) si incontrano: il tempo ne è appunto la dimensione originaria, trascendente, e l’artista è chiamato a cogliere quella dimensione in immagini concrete. Il punto di equilibrio si perfeziona al momento del montaggio, ma le condizioni si creano molto prima, già in fase di sceneggiatura. E in ogni caso il riflesso del tempo nell’immagine è qualcosa di ancora più originario, che la tecnica cinematografica non può creare dal nulla, né suscitare.

“La dominante assoluta dell’immagine cinematografica è costituita da ritmo che esprime lo scorrere del tempo all’interno dell’inquadratura [...]. Ci si può facilmente immaginare un film senza attori, senza musica, senza scene e persino senza montaggio, ma non ci si può immaginare un’opera cinematografica senza lo scorrere del tempo all’interno dell’inquadratura” [22].

“Il ritmo del film nasce [...] dal carattere del tempo che scorre dentro l’inquadratura. Insomma il ritmo del film viene determinato non dalla lunghezza dei brani montati, bensì dal grado di tensione del tempo che scorre dentro di essi [...] E’ appunto questo scorrere del tempo, fissato nell’inquadratura, che il regista deve cogliere” [23]. “Il ritmo è creato dalla pressione temporale all’interno delle inquadrature” [24].

In Calvino, al contrario, viene celebrata la natura tecnica e operazionale della scrittura, che implica una qualità passiva — di oggetto — del tempo: “[...] Il racconto è un’operazione sulla durata, un incantesimo che agisce sullo scorrere del tempo, contraendolo o dilatandolo” [25].

Sappiamo che Tarkovskij era portatore di una concezione inattuale, probabilmente già superata nel momento in cui venne elaborata. A dimostrazione di questo fatto, nessuna corrente artistica e nessun linguaggio contemporaneo sembrano più interessati ad attingere un tempo ontologico per lasciarlo affiorare e fluire in una forma. E mentre Calvino viene citato in modo ossessivo da artisti e pensatori di ogni disciplina, Tarkovskij è stato abbandonato in qualche nicchia polverosa di cineteca, in attesa della breve gloria di una retrospettiva o di un restauro. Tuttavia, se ci accostiamo in termini critici ai dati di realtà, appare chiaro che la saggezza contenuta in Scolpire il tempo offre strumenti più utili dell’ottimismo vagamente calligrafico professato da Calvino: la ricerca di una 'sintonia col tempo originario’ ha più rilevanza — in ogni caso più impatto — di quanti possa averne l’invito calviniano ad incrementare fluenza e rapidità, come se davvero potessimo competere sul piano della velocità con l’accelerazione del sistema.

La realtà, all’opposto, è che l’accelerazione ha annullato se stessa e che noi, uomini del terzo millennio, dobbiamo “danzare sempre più in fretta per mantenere la posizione [...] o correre più che possiamo per stare nello stesso posto” [26].

In tutti i sensi, la rapidità è oggi qualcosa di dato e di ineluttabile. Ci preesiste, prescinde dalle nostre scelte concrete e pone radicalmente in questione le forme della nostra intelligenza. Nessuno di noi, testimoni del presente, la considera più un valore in sé da custodire o una saggezza da applicare. In molti contesti essa è certo un’abilità necessaria, una proprietà da trasferire ai segni che produciamo e che ci scambiamo a getto continuo. Ma non perderemmo tempo a raccomandarla: la scelta è grossomodo tra l’avvantaggiarsene, il subirla senza soccombere, e il provare a contrastarla. Volentieri, invece, accoglieremmo con gratitudine qualche consiglio (tecnico, filosofico, esistenziale) utile a limitarne gli effetti: questa è la nostra urgenza.

Possiamo allora dire che le Lezioni americane sono un buon viatico in tal senso? In tutta franchezza no. Ancora Rosa rileva come la logica sociale dell’accelerazione produca competizione, e la competizione ci costringa “ad investire sempre più energie”, sino a quando essa stessa “non è più un mezzo [...] ma diviene [...] l’unico scopo onnicomprensivo della vita tanto sociale quanto individuale” [27]. Il senso dell’esistenza “tende ad essere rimpiazzato da nuove forme di 'identità situazionale’ e flessibile, che accetta la precarietà di tutte le definizioni del sé [...] e non tenta più di seguire un progetto di vita, ma tende piuttosto a 'cavalcare l’onda'” [28].

Calvino ha effettivamente previsto l’affermazione di un paradigma (anche linguistico ed estetico) della velocità — e non era certo una previsione difficile, nel 1985 [29] —, ma non ha saputo metterci in guardia dalle conseguenze negative del principio che andava enunciando, né ha saputo distinguere tra una velocità assoluta (che può essere oggetto di legittimo apprezzamento) e una velocità relativa che — in un sistema inerziale spinto oltre una certa soglia critica — solleva questioni-limite [30]. Egli ha semplicemente idealizzato il paradigma della rapidità e lo ha reso un valore, proiettando sul nostro presente tardomoderno le sue fantasie moderniste e illuministe. Alla prova dei fatti, però, la sua idea ariostesca di rapidità ben temperata è stata cancellata dal potente effetto distorsivo generato dall’accelerazione del nostro corpo sociale. Col risultato che la velocità di fuga necessaria per sfuggire all’inerzia del sistema, è divenuta irraggiungibile tanto per il linguaggio quanto per il pensiero umani. Inutile aggiungere che, per tali ragioni, nessuna delle indicazioni da lui suggerite può esserci di effettiva utilità nel quadro presente.

(1- Continua)


NOTE

[1] Nell’estate del 1984 venne chiesto a Calvino di tenere un ciclo di sei conferenze presso l’Università di Harvard, nell’ambito delle prestigiose Norton Lectures. Calvino lavorò al programma delle conferenze sino alla morte, avvenuta il 19 settembre del 1985. Come spiega Esther Calvino nell’introduzione al volume italiano, il dattiloscritto aveva già subito alcune revisioni, ma era ancora incompleto: la sesta ed ultima lezione non era ancora stata abbozzata.
[2] 'Six memos for the next millennium’ è il titolo provvisorio in lingua inglese che Calvino scelse per le conferenze, e che oggi campeggia — in traduzione (Sei proposte per il nuovo millennio) — come sottotitolo della raccolta italiana.
[3] Nella breve introduzione al dattiloscritto, Calvino scrive: “Vorrei [...] dedicare queste mie conferenze ad alcuni valori o qualità o specificità della letteratura che mi stanno particolarmente a cuore, cercando di situarle nella prospettiva del nuovo millennio” (I. Calvino, Lezioni Americane. Sei proposte per il nuovo millennio [d’ora in avanti: LA], Garzanti (Milano), 1988, p.1).
[4] Per la verità esiste un esempio di critica del tipo cui mi riferisco, ma è svolto per intero nel ristretto campo della filologia, occupandosi principalmente di esaminare il rigore con cui Calvino tratta le sue fonti. Sto parlando dell’articolo di Claudio Giunta Le “Lezioni americane” di Calvino 25 anni dopo: una pietra sopra?, apparso in “Belfagor”, LXV (novembre 2010), pp. 649-66), che noi citeremo nella versione on-line disponibile qui. La disamina di Giunta poco o nulla concede al prestigio intellettuale che oggigiorno avvolge l’opera di Calvino, e pur esaurendosi come detto al livello della critica letteraria e filosofica, mette in evidenza in modo chiaro e assai utile i limiti d’impianto (e di ricezione) dell’opera.
[5] Ancora Giunta, nel ricostruire il clima nel quale avvenne, sin dall’inizio, la ricezione delle Lezioni americane, dice: “Le reazioni [alle Lezioni americane] hanno un fuori e un dentro, cioè sono state determinate in parte da ciò che Calvino rappresentava alla fine della sua vita; e in parte dal fatto che Calvino era in sintonia col tipo di approccio non tanto alla letteratura quanto al discorso sulla letteratura che oggi molti sembrano apprezzare” (Ibid., p.12). Recentemente ho potuto ascoltare un ciclo di trasmissioni radiofoniche su Rai Radio 3, per il programma Pantheon, messe in onda nel trentesimo anniversario della pubblicazione delle Lezioni. Anche in quel caso, ciò che accomunava le decine di osservazioni raccolte, rilasciate a freddo (anzi: a posteriori) da critici e scrittori quasi sempre à la page, era l’elogio acritico degli argomenti di Calvino, espresso in modalità encomiastiche e stereotipate.
[6] Basta scorrere il primo capoverso della prima lezione, per incontrare questa avvertenza: “[...] sosterrò le ragioni della leggerezza. Questo non vuol dire che io consideri le ragioni del peso meno valide, ma solo che sulla leggerezza penso di avere più cose da dire” (LA, p.5). Puntualizzazioni analoghe si trovano anche nella seconda lezione (Ibid., p.36) e nella terza (Ibid., p.59).
[7] Qualunque introduzione alle Lezioni americane fa invariabilmente riferimento alla loro “attualità”, alla loro “profondità di analisi”, alla loro “rilevanza” per comprendere l’essenza del tempo presente. Si tratta quasi sempre di affermazioni apodittiche, quasi mai argomentate, genericamente appoggiate su dichiarazioni altrettanto vaghe estrapolate dal testo, cui se potrebbero facilmente contrapporre altre di senso diametralmente opposto. Come ha notato Giunta, tanto il linguaggio delle Lezioni è morbido e suadente, tanto il loro stile argomentativo è dispersivo, incoerente e spesso estremamente confuso sul piano concettuale. Questa annotazione, a rigore, dovrebbe essere la necessaria premessa ad ogni seria analisi del testo.
[8] Il riferimento è ad alcuni pensatori tra i quali James Gleick, Peter Conrad e Thomas H. Eriksen (H. Rosa, Accelerazione e alienazione, Einaudi, Torino 2015, p.6).
[9] LA, p. 45 (corsivo mio).
[10] Ibid., p. 45.
[11] Ibid., p. 52.
[12] Ibid., p. 53.
[13] Ibidem.
[14] Ibid., p. 48.
[15] Ibid., p. 50.
[16] Anche dove la percezione del pericolo si affaccia, Calvino non sembra identificarne con chiarezza le cause: “In un'epoca in cui altri media velocissimi e di estesissimo raggio trionfano, e rischiano d'appiattire ogni comunicazione in una crosta uniforme e omogenea, la funzione della letteratura è la comunicazione tra ciò che è diverso in quanto è diverso, non ottundendone bensì esaltandone la differenza, secondo la vocazione propria del linguaggio scritto” (Ibid., p.44. Corsivo mio). Siamo ancora in presenza di un’affermazione confusa. Se interpretiamo correttamente, la scrittura possiederebbe qualche misteriosa risorsa (“una vocazione propria”) grazie alla quale sarebbe immune dai rischi che minacciano gli “altri media”. In cosa consista, non ci viene detto. Ma soprattutto non si capisce se questa particolare virtù si esprima grazie, indipendentemente o nonostante la velocità. In definitiva, il senso dell’annotazione rispetto al ragionamento sulla rapidità non è per nulla chiaro, e sembra assolvere nel testo ad una funzione puramente retorica (o cautelativa).
[17] “L’arte che permette a Sheherazade di salvarsi la vita ogni notte sta nel saper incatenare una storia all’altra e nel sapersi interrompere al momento giusto: due operazioni sulla continuità e discontinuità del tempo. E’ un segreto di ritmo, una cattura del tempo che possiamo riconoscere dalle origini: nell’epica per effetto della metrica del verso, nella narrazione in prosa per gli effetti che tengono vivo il desiderio di ascoltare il seguito” (Ibid., p.39).
[18] LA, p.40.
[19] Ibid., pp.45-46.
[20] Cfr. Rosa, Op. cit., p.21.
[21] LA, pp.42 e sgg.
[22] A. Tarkovskij, Scolpire il tempo, Ubulibri (Roma) 1988, p.107.
[23] Ibid., p.110 (corsivo dell’autore).
[24] Ibid., p.112 (corsivo dell’autore).
[25] LA, p.36 (corsivi miei).
[26] Rosa, Op. cit., p.26.
[27] Ibid., p.25.
[28] Ibid., pp. 47-48.
[29] Nella logica dell’equazione modernità=accelerazione, Rosa fa risalire le preoccupazioni per la “velocizzazione della vita sociale” indietro sino a Mann, Goethe, Baudelaire, Rousseau, e addirittura a Shakespeare (Ibid., p. 6).
[30] La tesi radicale di Rosa è che l’accelerazione sociale sia “divenuta una forza totalitaria”, e che pertanto essa “[...] dovrebbe essere sottoposta a critica come ogni forma di governo totalitario” (Ibid., p. 70).


Mario Sironi, Paesaggio urbano, 1922.

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